Indicazioni per la classificazione dei lavoratori come “professionalmente esposti ad agenti cancerogeni”
Seminario e workshop su cancerogeni occupazionali e tumori professionali
Lavoro ed esposizione ad agenti cancerogeni: non è da oggi che questo è un argomento sotto attenzione e in studio in Italia. Ad esempio già nel 1957 la Edizioni Radio Italiana (ERI), casa editrice della RAI, pubblicava un libriccino di Enrico Vigliani intitolato Medicina e Igiene del Lavoro1 in cui si accennava alle leucemie dei lavoratori esposti a benzene ed alle leucemie ed ai “tumori maligni” in genere dei lavoratori esposti a radiazioni ionizzanti: non un volume paludato per l'accademia, ma un opuscolo divulgativo rivolto a tutti. Nel marzo 1974 la rivista Sapere pubblicava una rassegna di ampio respiro e di vasta leggibilità, a firma di Franco Carnevale e Massimo Valsecchi dal titolo “Cancro da lavoro. Sostanze e lavorazioni che generano tumori.”2 . Nel gennaio 1980 la Regione Piemonte, l'Università degli Studi di Torino e il Comune di Torino pubblicavano il “Primo manuale per il riconoscimento di rischi di cancerogenicità chimica negli ambienti di lavoro”, a cura di Benedetto Terracini, Paolo Vineis, Giuseppe Costa e Nereo Segnan3 : un manuale certamente tecnico, ma che poteva essere utile strumento prevenzionistico per un'ampia gamma di decisori privati e pubblici.
Tra gli anni '70 e '80 del secolo scorso il cancro occupazionale era una realtà particolarmente pesante nel nostro Paese, soprattutto in conseguenza del tipo di sviluppo industriale che vi si era realizzato dopo il termine della seconda guerra mondiale (cosiddetto “boom economico”). Molti, questa realtà, provavano a negarla o quanto meno a tenerla nascosta e/o a minimizzarla, qualcuno invece provava a farla emergere; tra questi ultimi, alcuni operatori della prevenzione dei Servizi territoriali pubblici i quali nel 1987, attraverso il terzo numero della neonata rivista di SNOP - Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione, contribuirono a socializzare una prima ricognizione dell’attività svolta da tali Servizi sul tema dei cancerogeni occupazionali 4 . Ebbe inoltre ampia risonanza l'intervento di Enrico Gaffuri uscito nel 1988 su la Medicina del Lavoro (la rivista scientifica di gran lunga più diffusa tra i medici del lavoro italiani) dal titolo emblematico “Alla ricerca dei tumori perduti” 5 . Già all’epoca questo argomento fu oggetto di studi epidemiologici, di processi civili e penali ed anche di alcuni testi che oggi chiameremmo di “medicina narrativa”, i quali ebbero una particolare rilevanza per l'evoluzione dell'opinione pubblica nel nostro Paese
Come esempio di tali ultime esperienze si veda il volume “La fabbrica del cancro. L'IPCA di Ciriè.” uscito nel 1976 a firma di Pierpaolo Benedetto, Graziano Masselli, Ugo Spagnoli e Benedetto Terracini 6 a pag. 7 di tale volume vi erano le seguenti parole di Benito Franza, operaio dell'IPCA che assieme al collega Albino Stella molto si adoperò per far emergere la tragedia del cancro vescicale tra gli operai di quella fabbrica che erano pesantemente esposti ad amine aromatiche cancerogene. “(...) i piedi li avvolgevamo in stracci di lana e portavamo tutti zoccoli di legno, altrimenti con le scarpe normali ci si ustionava i piedi.” “Quelli che lavorano ai mulini, dove vengono macinati i colori, orinano della stessa tinta dei colori lavorati (blu, giallo, viola ecc.) fin quando non si incomincia orinare sangue.” “Nella fabbrica non c’è neanche un topo; quei pochi che alle volte si azzardavano a venire dalla balera vicina, li trovavamo morti il giorno dopo con le zampe in cancrena. I topi non portano zoccoli!”
Man mano, nel nostro Paese si rendevano note anche diverse altre situazioni eclatanti di cancro dovuto al lavoro, come quelle dei tumori vescicali da amine aromatiche all'ACNA di Cengio, delle neoplasie pleuriche e polmonari da amianto nella produzione del cemento-amianto, nell'industria tessile dell'amianto e in molti cantieri navali, delle leucemie tra i professionalmente esposti a benzene, degli angiosarcomi epatici da cloruro di vinile monomero (CVM) nell'industria delle materie plastiche, di vari generi di tumori nell'industria della gomma e in siderurgia. Non le Organizzazioni Sindacali nel loro complesso, ma alcune specifiche parti di esse giungevano ad acquisire il problema “cancro da lavoro” come una loro priorità e a socializzarlo anche al di là dell'ambito locale; ad esempio, negli atti di un convegno della Federazione Unitaria Lavoratori Chimici (FULC) delle Regioni Emilia-Romagna e Toscana tenutosi nel 1977 si parlava ampiamente del rischio di cancro indotto dall'esposizione occupazionale a CVM 7 . Diversi anni più tardi, nel 1990, furono di nuovo alcune parti avanzate delle Organizzazioni Sindacali italiane a far pubblicare due testi fondamentali in materia di cancro da lavoro: la traduzione in Italiano della sintesi dei volumi dall'1 al 42 delle monografie sui rischi cancerogeni per l'uomo emesse dall'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) di Lione 8 (la massima parte degli agenti cancerogeni considerati atteneva agli ambienti di lavoro); l'edizione in Italiano del manuale “La ricerca delle cause delle malattie di origine professionale: una introduzione all'epidemiologia in ambiente di lavoro” 9 (parte significativa di tale lavoro era dedicata ai problemi dei cancerogeni e del cancro). Quando in quell'epoca si parlava del rischio di cancri da lavoro, di norma ci si riferiva alla situazione di gruppi di soggetti così fortemente esposti rispetto a tutto il resto della popolazione che poteva essere sufficiente distinguere tra questi (“esposti”) e tutti gli altri (assunti tout court come “non esposti”), ragionando quindi “in bianco e nero”, senza perdere gran che di una corretta leggibilità del fenomeno. Da allora, nel nostro Paese il quadro delle esposizioni occupazionali ad agenti cancerogeni è molto cambiato. E' nozione diffusa e condivisa che “da noi”, lungo il corso degli ultimi trenta – quaranta anni, le esposizioni occupazionali ad agenti cancerogeni siano complessivamente diminuite di intensità media, intensità di picco, frequenza e durata. Pur rimanendo forti disparità tra un contesto e l'altro con persistenza di sacche di esposizioni ancora importanti in scenari periferici e degradati, in una parte considerevole dell'industria italiana si sono avuti effettivi e importanti miglioramenti delle condizioni di lavoro. Molte lavorazioni e molti agenti di particolare pericolosità (a iniziare da quelle che prevedono l'amianto come materia prima) sono scomparsi dal nostro tessuto produttivo o semplicemente sono stati esportati dai Paesi di più antica industrializzazione verso Paesi “in via di sviluppo” (dove, ovviamente, esercitano i medesimi effetti patogeni che “da noi”). I fenomeni di parcellizzazione del tessuto produttivo e di precarizzazione dei rapporti di lavoro hanno reso relativamente rara la condizione dell'operaio che trascorre gran parte della sua vita professionale in regime di dipendenza presso un'unica grande fabbrica, all'interno della quale viene addetto a produzioni massive con pochi cambi di reparto e di mansione. Si sono espansi i rapporti di lavoro non stabili e comunque di brevissima durata (anche “a chiamata” per poche ore alla volta, magari pagati con i voucher), con passaggi frequenti da un comparto a un altro e/o da una mansione non specializzata all'altra.
Un effetto collaterale (forse l'unico positivo) del turnover rapido è che sempre meno spesso accade che chi ha la disavventura di essere esposto a cancerogeni in un dato scenario lavorativo rimanga a lungo in tale condizione: resta comunque ferma la possibilità che questi venga poi esposto a simili e/o diversi cancerogeni nel corso di impieghi susseguenti e non va dimenticato che, a parità di altre condizioni rilevanti, il turnover in quanto tale non fa che spalmare un dato carico di esposizione su di un maggior numero di soggetti esposti. Si veda, in coerenza con le considerazioni di cui sopra, uno studio pubblicato nel 2016 basato su dati europei e canadesi, sistematizzati tramite una matrice lavoro-esposizione per cinque agenti cancerogeni per il polmone (amianto, cromo VI, nickel, idrocarburi policiclici aromatici - IPA e silice cristallina respirabile) 10, ove si concludeva come segue (la traduzione dall'Inglese è degli scriventi). “Trend temporali in discesa sono stati osservati per tutti gli agenti tra gli anni '70 e il 2009, andando da – 1.2 % all'anno per le esposizioni personali a benzo-a-pirene e nickel a – 10.7 % per l'amianto (in questo lasso di tempo si è realizzato un bando dell'amianto). Le differenze regionali nell'intensità delle esposizioni (aggiustate per mansioni soggette a misura, anni in cui erano state effettuate le misure e metodi e durata dei campionamenti) variavano per agente, andando da un fattore 3.3 per il cromo VI fino a un fattore di 10.5 per l'amianto.” “Da noi”, quindi, il problema del rischio cancerogeno occupazionale non è affatto scomparso, ma è cambiato profondamente e va affrontato con strumenti operativi e interpretativi in parte diversi, comunque più fini rispetto a quelli che potevano andar bene fino a non molti anni fa. Una distinzione tranciante tra “esposti” e “non esposti” ovvero tra “professionalmente esposti” e “non professionalmente esposti” è sempre meno adeguata a rappresentare la realtà. Le esposizioni occupazionali a cancerogeni che vediamo oggi (ovvero che dovremmo vedere oggi – a volte siamo un po' miopi) si classificano meglio lungo come una scala continua di grigi, i valori inferiori della quale sappiamo che possono situarsi in overlapping con quelli di alcune fasce di “popolazione generale” gravate da esposizioni ambientali significative (ad esempio per gli IPA, il benzene, la formaldeide). Anche l'identificazione di gruppi omogenei per esposizione è oggi particolarmente difficile ed ha un'utilità limitata finché non sia corredata da una stima dell'entità dell'esposizione che caratterizza ciascun gruppo, anche solo lungo una scala semiquantitativa. Per intendersi, il titolo di mansione “asfaltatore di strade” va certamente ancor oggi associato ad un'esposizione occupazionale ad IPA, ma sappiamo anche che per gli asfaltatori misure di esposizione fatte in contesti recenti diversi hanno dato valori molto diversi; è quindi importante sapere quanti IPA ci sono negli asfalti in uso, se si asfalta all'aperto o in galleria, se a fine a turno i lavoratori si fanno una doccia che rimuova l'imbrattamento cutaneo e così via.
Nemmeno basta più il titolo di mansione “vulcanizzatore nell'industria della gomma” per assumere ragionevolmente che un lavoratore sia esposto ad IPA e ad amine aromatiche cancerogene e, in caso affermativo, per stimare anche solo grossolanamente “quanto”; a tali fini servono informazioni specifiche sugli olii plastificanti, i neri di fumo e gli antiossidanti utilizzati e dati descrittivi che caratterizzino bene uno specifico scenario di esposizione (presenza e, in caso affermativo, qualità delle aspirazioni; prossimità dei lavoratori ai punti di emissione di “fumi di gomma calda”; componenti manuali della mansione e associate condizioni di imbrattamento cutaneo, esistenza o meno di pratiche di igiene personale a fine turno…).
Lo stesso dicasi per le esposizioni a cromo, nichel, silice libera cristallina e IPA nell’industria metallurgica dove, a fianco a indubbi miglioramenti delle condizioni di igiene del lavoro “medie”, permangono anche situazioni alle quali certamente possiamo associare, anche soltanto a livello qualitativo, delle “significative” esposizioni a cancerogeni. A fronte di tutto ciò, si sono sviluppate forti tendenze a sostenere che le misurazioni dell'esposizione occupazionale ad agenti cancerogeni (come ad ogni agente di rischio) siano divenute il più delle volte superflue e quindi, per evitare costi inutili a carico di imprese e strutture pubbliche, da sostituirsi con stime fatte “a tavolino”. Ora, le stime di esposizione, tanto prospettiche quanto retrospettive, condotte mediante un algoritmo e/o una matrice lavoro-esposizione (job exposure matrix – JEM) sono senz'altro utili e spesso insostituibili, ma sono attendibili solo se derivano dalla trasposizione logica verso un dato contesto in esame di informazioni di qualità assunte in contesti simili precedentemente studiati in modo approfondito. A volte i risultati di tali stime sono sufficienti per poter dichiarare concluso il processo di valutazione del rischio e agire di conseguenza; altre volte, invece, la stima delle esposizioni tramite un algoritmo o una JEM costituisce niente più che una fase preliminare di un processo valutativo completo, che nel suo prosieguo dovrà comprendere anche delle misure. Un articolo pubblicato da Hans KROMHOUT nel 2016 11 ha ben chiarito e stigmatizzato quanto sia impropria la forzatura verso l'omissione sistematica delle misure di esposizione. Si pensi ai livelli di esposizione professionale a formaldeide con cui oggi è necessario confrontarsi, che nella maggior parte dei casi non sono particolarmente elevati ma che nemmeno sono del tutto trascurabili, collocandosi comunque al di sopra di quelli sperimentati anche dalla popolazione generale non professionalmente esposta: non è tecnicamente ed eticamente pensabile che oggi, per identificare la presenza di un rischio cancerogeno da formaldeide in un ambiente di lavoro, si debba attendere l'evidenza che, entrandovi, si inizi subito a tossire e lacrimare. Algoritmi e JEM possono fornirci un orientamento preliminare, dopo di che ci saranno situazioni “in fascia gialla” (per usare una terminologia corrente nel gergo dell'igiene industriale) che non si potranno definire altro che tramite misure. In sintesi: oltre ad ottenere e registrare informazioni più approfondite che in passato riguardo agli scenari di esposizione, si devono da un lato condurre misure di esposizione più sistematiche, rappresentative, affidabili e sensibili che tengano conto adeguato anche dei fattori variabilità intra-individuale e inter-individuale 12, dall’altro costruire, sulla base di queste e della letteratura scientifica pubblicata, delle JEM specifiche per tempo e per luogo, che ci consentano di rendere fruibili le conoscenze, trasferirle da un contesto all'altro, condurre inferenze sul rischio. Per quanto sopra, anche riguardo all'epidemiologia del cancro pressoché nulla si presenta oggi, nel nostro Paese come in generale in tutti i Paesi a maggior reddito, “in bianco e nero”. Gli studi epidemiologici recenti normalmente si confrontano con rischi relativi “piccoli”, anche decisamente inferiori al valore “2” che alcuni impropriamente assumono come discrimine magico tra rischi rilevanti e irrilevanti (non va mai dimenticato che avere un rischio relativo di 1.5 significa avere il 50 % di casi in eccesso rispetto alla condizione di riferimento).
Già nel 1992 Julian Peto aveva fatto notare quanto segue (la traduzione dall'Inglese è degli scriventi) 13. "Fino agli anni '80, gli epidemiologi si occupavano principalmente di rischi relativi che eccedevano all'incirca 1.5 ed erano spesso molto più alti. Molte controversie ora si incentrano sui rischi molto più bassi, un esempio notevole dei quali è l'effetto del "fumo passivo" sul rischio di cancro polmonare. I dati pooled mostrano un effetto statisticamente significativo e tutti gli studi sono consistenti con un rischio relativo di circa 1.3 (...)." I rischi relativi “piccoli” spesso nascono da un intreccio di effetti di “piccole” ma concrete differenze di esposizione e di variabili misclassificazioni dei profili di esposizione, le quali ultime portano sempre e soltanto a una ridotta visibilità delle differenze. Può avvenire che in uno studio epidemiologico vengano confrontati i rispettivi carichi di patologia di un gruppo “A” che contiene esposti ad “alte”, “medie” e “basse” dosi, di un gruppo “B” che contiene esposti a “medie” e “basse” dosi nonché un po' di non esposti e di una popolazione di riferimento che comunque contiene un certo numero di esposti di ogni grado mescolati a una pur ampia maggioranza di veri non esposti. Il quadro d'assieme non può che risultarne velato da una sorta di nebbia che offusca le differenze reali, inducendo una sottostima dei problemi reali. Il sommarsi di errori non sistematici (perché i dati / gli elementi di confronto sono insufficientemente validi, precisi, affidabili) porta sempre e soltanto a un unico effetto nocivo: la nostra visione si appanna, la nostra capacità di rilevare differenze reali si ottunde, i rischi relativi si appiattiscono verso l'unità (cioè quel valore che ci costringe a dire che una differenza o non esiste o, se c'è, non siamo in grado di vederla) 14. Non tenere conto di tutto ciò facilmente conduce a interpretazioni improprie dei risultati. Per osservare differenze “piccole” ma che concretamente esistono ed ancor più per poterle vedere come “statisticamente significative” abbiamo assoluto bisogno di studi epidemiologici collaborativi di grandi dimensione ed anche, se non soprattutto, del supporto di attribuzioni di esposizione valide, precise, affidabili 15,16. Questo altresì rimanda alla necessità, sempre più impellente, di giungere a valutazioni dell’esposizione a cancerogeni basate su tutti gli strumenti che l’igiene del lavoro e la medicina del lavoro oggi possono offrire, ma che spesso non vengono adeguatamente utilizzati. Diverse e importanti implicazioni ne conseguono per i lavoratori esposti, sul piano preventivo, medico-legale, etico. In tale direzione, in anni più recenti, si sono sviluppate ulteriori riflessioni di cui si trova una buona sintesi in un supplemento della rivista Epidemiologia & Prevenzione pubblicato nel 2009 17: riflessioni pertinenti alla contestualizzazione del rischio cancerogeno occupazionale (Carnevale, Merler, Vogel, Silvestri), al contributo preventivo delle osservazioni “a posteriori” (Terracini, Gennaro, Soffritti, Vineis, Crosignani, Mirabelli), al riconoscimento in sede giuridica e assicurativa dei tumori professionali e dei rispettivi rischi nel contesto della prevenzione (Marinaccio, Bottazzi, Barbieri, Di Lecce).
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Quanti sono gli esposti a cancerogeni in ambiente di lavoro oggi in Italia, a cosa
Applicazione degli artt. 236, 242, 243 e 244 del Dlgs 81/08. Valutazione dell'esposizione ad agenti cancerogeni e del rischio che ne consegue. Indicazioni per la classificazione dei lavoratori come “professionalmente esposti ad agenti cancerogeni”, la loro conseguente registrazione e lo svolgimento di programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc. La questione degli ex-esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro.
Negli ultimi mesi il sito SNOP ha ospitato una serie di contributi, notizie di Seminari e Documenti sulla questione dei cancerogeni professionali: dalla Toscana alle Marche ..sino all’invito al prossimo incontro a Venezia Mestre.
Dall’importante Seminario e workshop di Ancona su cancerogeni occupazionali e tumori professionali (16 e 17 giugno 2016, vedi i primi materiali sul sito www.snop.it), cui hanno partecipato non soltanto operatori dei Servizi ASL, sono emerse molte idee e punti condivisi.
Dal confronto svoltosi de visu in quei giorni e proseguito via e-mail fino all'inizio di settembre, è scaturito questo documento, senz'altro ponderoso e complesso ma pressoché inevitabilmente tale per la natura degli argomenti che affronta.
Contiene proposte compiute sia per modifiche evolutive di alcuni articoli del Titolo IX del Dlgs 81/08, sia per un'applicazione sostenibile ed efficace del testo di legge fin che rimane così com'è, quindi per subito: con l'unico scopo di abbattere le esposizioni a cancerogeni oggi, ogni volta che sia possibile, e di avere, nel corso del tempo a seguire, meno tumori da piangere. Viene presentata una prospettiva di intervento, sia pubblico, sia privato, di ampio respiro e di particolare rilievo in un momento storico in cui parrebbero farsi avanti solo ipotesi di revisioni normative "al ribasso", che viaggiando per tagli lineari spacciano per "semplificazione" e "sburocratizzazione" ciò che sarebbe solo una riduzione delle già (nella pratica) insufficienti garanzie di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori nel nostro Paese.
Il Documento vuole essere anche uno stimolo per la partenza di un confronto nazionale nel Coordinamento delle Regioni intorno al Piano Nazionale Cancerogeni che ha nel PNP 2014-2018 e nei Piani Regionali tanti assist.
SNOP
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