Cassazione Penale, Sez. 4, 15 aprile 2020, n. 12151 - Accertamento del nesso causale tra esposizione ad asbesto e decesso per mesotelioma pleurico
1. Con sentenza in data 8 novembre 2018 la Corte di Appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Vercelli con cui M.M. e P.M., nella loro qualità di legali rappresentanti della M. Antonio e Figli s.p.a., sono stati riconosciuti colpevoli del reato di cui agli artt. 113, 589 comma 2A, 3 e 5 cod. pen. e condannati alla pena ritenuta di giustizia, per avere cagionato, cooperando fra loro, con imprudenza, negligenza ed imperizia e violando le norme di prevenzione e sicurezza dei luoghi di lavoro (artt. 4, 19 e 21 d.lgs. 81/2008 ed art. 2087 cod. civ.) a M.C., operaia addetta allo smontaggio ed al montaggio di arredi di veicoli ferroviari, lesioni personali gravissime, consistite in mesotelioma pleurico maligno epitetoide alla pleura sinistra, cui seguiva la morte. Agli imputati è stato addebitato di non avere predisposto, sin dal 1981, data di inizio dell'esposizione della lavoratrice, misure precauzionali atte ad impedire la diffusione ambientale e l'inalazione di fibre di amianto.
2. Avverso la sentenza propongono ricorso gli imputati, a mezzo dei loro difensore, formulando cinque motivi comuni.
3. Con il primo, lamentano la violazione della legge processuale penale in relazione al disposto dell'art. 512 cod. pen. e l'inosservanza dell'art. 111, commi 4 e 5 Cost.. Ricordano che all'udienza dibattimentale del 6 novembre 2014, si/ richiesta del Pubblico Ministero - e con l'opposizione degli avvocati- veniva disposta l'acquisizione del verbale di sommarie informazioni testimoniali, rese da M.C. il 2 marzo 2010. Osservano che l'inammissibilità dell'acquisizione del verbale di S.I.T. emergeva con chiarezza dallo snodarsi temporale della richiesta e della decisione sull'ammissione e della fissazione dell'udienza per l'incidente probatorio, mai celebratosi per la morte della persona offesa. Invero, la diagnosi di mesotelioma pleurico era stata formulata sin dall'ottobre 2009, momento nel quale si era palesata la prevedibilità dell'esito infausto della malattia. Ciononostante, escussa a S.I.T. la persona offesa, il pubblico ministero aveva formulato istanza di ammissione dell'incidente probatorio solo il 31 maggio 2010. Il G.I.P., cui la richiesta perveniva il 3 giugno 2010, provvedeva al suo esame solo il 23 agosto 2010, fissando udienza per lo svolgimento dell'incidente probatorio al 14 ottobre 2010, cioè dopo un anno dalla formulazione della diagnosi e della prevedibilità della prognosi, senza che l'istante sollecitasse, in alcun modo, una più rapida definizione dell'incombente istruttorio. La previsione dell'evento morte entro un breve lasso temporale imponeva un rapido svolgimento dell'interrogatorio di M.C., nelle forme di cui all'art. 392 cod. proc. pen., sicché la sua posticipazione, dovuta a noncuranza, non integra quei fatti o quelle circostanze imprevedibili che autorizzano la lettura di atti assunti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari. Che la certezza di un esito mortale in un periodo limitato fosse prospettabile già nel momento in cui la persona offesa fu sentita a S.I.T. (nel febbraio 2010) è risultato con chiarezza nel corso del giudizio, dall'esame dello stesso consulente tecnico del pubblico ministero, dott. Walter Declame, il quale ha spiegato che, pure essendo le condizioni generali della paziente, alla fine del 20091 buone, con prognosi di sopravvivenza ancora accettabile, nondimeno, nel gennaio 2010 si era presentato un versamento pleurico, segno distintivo di evoluzione della malattia. Opportunamente interrogato sul punto, il consulente ha chiarito che a febbraio 2010 -data dell'escussione a S.I.T.- la prognosi era di qualche mese. Dunque, la fissazione dell'udienza del 14 ottobre 2010, per lo svolgimento dell'incidente probatorio, su una richiesta presentata all'inizio di giugno 2010, si pone come tardiva e non consente di acquisire, tramite lettura, il verbale di S.I.T. del febbraio 2010.
4. Con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono del vizio di motivazione in ordine all'affermazione della sussistenza del nesso di causalità fra le condotte attribuite a M.M. e P.M. e l'evento morte. Assumono che la Corte territoriale dapprima valorizza le dichiarazioni del consulente tecnico e del perito d'ufficio, facenti riferimento alla 'modestia dell'esposizione', per poi, contraddittoriamente, affermare la sussistenza di una 'significativa esposizione' della lavoratrice alle fibre di amianto. Su questa base la sentenza introduce un'equazione fra presenza di asbesto nell'ambiente lavorativo ed insorgenza della patologia tumorale, facendo, peraltro, riferimento ad un criterio di causalità probabilistica e non di causalità individuale, a mezzo di una motivazione apparente, che ignora l'elaborazione della giurisprudenza di legittimità. Richiamano il percorso attraverso il quale la Suprema Corte, con una serie di pronunce (ricordano la c.d. sentenza Cozzini n. 43786/2010 e la c.d. Montefibre bis n. 12175/2017) è giunta ad affermare l'obbligo del giudice di fondare l'accertamento del nesso causale sulla 'legge di copertura' riconosciuta maggiormente accreditata dalla comunità scientifica in ordine alla cancerogenesi derivata dall'esposizione nociva. Ricordano che la Suprema Corte è pervenuta ad escludere la validità (riprendono Sez. 4, n. 16715/2018) della c.d. teoria dell'effetto acceleratore, in quanto priva di generalizzata condivisione nella letteratura internazionale. Denunciano il vizio motivazionale in ordine alla certezza della diagnosi di asbestosi polmonare con caratteristiche di intensità tale da ricondurne la causa all'esposizione lavorativa. Sottolineano che il consulente del pubblico ministero, dott.ssa Bellis, medico legale, aveva posto una diagnosi di 'asbestosi minima di tipo Gl', compatibile soltanto con patogenesi lavorativa, mentre il consulente di parte, prof. Canzio, aveva escluso che una esposizione professionale potesse dar luogo ad 'asbestosi minima'. Rilevano, inoltre, la difformità delle descrizioni anatomopatologiche, avendo la consulente del pubblico ministero, dott.ssa Bellis, rilevato la presenza di placche pleuriche solo nel polmone destro, laddove il dott. Declame, anch'egli consulente del pubblico ministero, ne aveva rilevate solo nel polmone sinistro. Affermano che siffatta incertezza -corretta dalla dott.ssa Bellis unicamente con relazione integrativa, con la quale indicava la presenza bilaterale di placche- induce dubbi sulla derivazione professionale del tumore. Ancora, osservano l'incompatibilità fra la misurazione dei corpuscoli di asbesto effettuata dalla dott.ssa Bellis, che ha rilevato un valore di poco superiore a 1000/gr. di tessuto polmonare destro, e quella effettuata dal perito, dott. Barbieri, che ne ha rinvenuti ben 26.000, per grammo. Lamentano che, a fronte di una simile disparità, la Corte territoriale sia ricorsa ad un'argomentazione apparente, al fine di giustificare la disomogeneità dei dati, facendo riferimento alla diversa modalità utilizzata (microscopia elettronica da parte del perito Barbieri, ed esame autoptico da parte della consulente Bellis). Al contrario, la Corte avrebbe dovuto prendere atto dei risultati paradossali cui conducono le conclusioni del perito d'ufficio, il quale riferendo di una clearance polmonare che consente l'eliminazione di una percentuale di fibre di asbesto pari al 6-7% annuo, ha sostenuto che in applicazione della suddetta percentuale si sarebbe protratta sino al 2015, dimenticando che la persona offesa è deceduta nel 2010. La motivazione, dunque, si rivela insanabilmente contraddittoria ed illogica e deve condurre all'annullamento della sentenza impugnata.
5. Con il terzo motivo M.M. e P.M. fanno valere la violazione e la falsa applicazione degli artt. 228 e 514 cod. proc. pen. in relazione alla valutazione delle risultanze della perizia del dott. Barbieri. Si dolgono del mancato accoglimento della doglianza, formulata con l'atto di appello, con la quale si contestava la violazione processuale compiuta dal perito, che aveva utilizzato, nell'espletamento della perizia/ della documentazione contenuta nel fascicolo del pubblico ministero, ed in particolare le S.I.T. dei testi di accusa. Denunciano la grave distorsione delle regole processuali operata dalla Corte territoriale, che ha omesso di invalidare la perizia, nonostante fosse stata elaborata in difetto di consensuale acquisizione al fascicolo del dibattimento,degli atti di cui all'art. 514 cod. proc. pen. utilizzati, in violazione dell'art. 228 cod. proc. pen.. Contestano la decisione impugnata nella parte in cui esclude la previsione di una sanzione codificata e nella parte in cui pretende di poter scindere, nell'ambito dell'elaborato, le conclusioni e le analisi cui ha fatto ricorso il perito nel percorso valutativo dalle sue componenti essenziali e dal metodo valutativo utilizzato. Affermano che, anche in assenza di sanzione processuale specifica, la violazione dell'art. 228 cod. proc. pen. non può che riverberarsi sull'affidabilità delle considerazioni conclusive del perito, come già sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità (riprende Sez. 3, n. 11096/2013). Sottolineano che il perito ha frainteso alcuni documenti, dei quali fa cenno nell'elaborato, mai visionati direttamente (ad esempio i docc. 26, 27,28 relativi a produzioni del pubblico ministero in altro procedimento penale, nel quale i germani M. sono stati assolti) e che non ha esaminato i documenti presentati, né tenuto in considerazione i testi della difesa, come da lui stesso ammesso in sede di esame dibattimentale. Considerano complessivamente fallace e priva di qualsiasi valore scientifico e probatorio la perizia del dott. Barbieri, ciò ricadendo sul suo utilizzo a fini decisori.
6. Con il quarto motivo, lamentano l'inosservanza dell'art. 2 cod. pen., avuto riguardo all'erronea individuazione della legge penale applicabile, nonché la falsa applicazione degli artt. 69 e 133 cod. pen.. Rilevano che la Corte territoriale, pur limitando il tempo di esposizione al breve lasso temporale maggio 1981 - giugno 1983, data di approntamento del reparto di coibentazione, ha condannato gli imputati senza tenere in considerazione che la condotta contestata è intervenuta sotto la vigenza del precedente testo dell'art. 589, comma 2 cod. pen., allorquando la pena prevista per il reato aggravato dalla violazione della normativa sulla prevenzione degli infortuni era da uno a cinque anni, essendo la pena stata elevata ad anni sette di reclusione, nel massimo solo dal d.l. 92/2008. Avendo, tuttavia, le Sezioni unite (n. 40986/2018) chiarito che, nell'ipotesi in cui la condotta sia stata posta in essere interamente sotto il vigore di una legge penale più favorevole a quella in vigore al momento dell'evento, deve applicarsi la legge vigente al momento della condotta, il giudice di appello avrebbe dovuto tenere in considerazione, nel giudizio di bilanciamento, che l'aggravamento di pena di cui all'art 589 comma 2 cod. pen., era più mite (da uno a cinque anni di reclusione, anziché da due a sette anni). Ciò avrebbe dovuto diversamente orientare la valutazione, anche tenuto conto che le 'gravi inadempienze', che la Corte territoriale pone a fondamento del rigetto della prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante, non sono state accertate da parte degli enti di controllo. E che i precedenti penali - richiamati dai giudici- sono relativi a violazioni depenalizzate o a reati per i quali è intervenuta riabilitazione, mentre per l'unico reato di lesioni commesso in concorso con Liliana M., oggetto di patteggiamento, è stata applicata una pena pecuniaria, pari ad euro 570,00 di multa. La scarsa rilevanza dei precedenti la non gravità della colpa, la giovane età degli imputati all'epoca ed i ruoli di tipo commerciale ed amministrativo dai medesimi ricoperti, avrebbero dovuto favorevolmente incidere sul giudizio ex art. 69 cod. pen..
7. Con l'ultimo motivo P.M. fa valere la violazione della legge penale ed il vizio di motivazione in ordine al combinato disposto degli artt. 53 l. 689/1981 e dell'art. 133 cod. pen., per non avere la Corte territoriale disposto la sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria, fondando il diniego sulla gravità del fatto, sul grado della colpa e sulla personalità dell'imputato. Rileva che la gravità del fatto, da intendersi come rilevante esposizione alle polveri di asbesto, è esclusa dallo stesso consulente tecnico del Pubblico Ministero, dott.ssa Bellis, la quale nel proprio elaborato ha ravvisato la presenza di una lieve focale fibrosi sottopleurica, con asbestosi minima, derivante, quindi da una limitata esposizione. Circostanza questa confermata dal perito dott. Barbieri, che utilizzando l'espressione 'significativa esposizione' ha inteso sottolinearne l'incidenza sulla genesi della malattia e non certo la dimensione quantitativa (come chiarisce egli stesso nel corso dell'esame). Parimenti non può affermarsi la sussistenza di una colpa connotata da gravità, laddove si presti attenzione all'evolversi della conoscenza specifica della pericolosità delle lavorazioni in capo agli imputati. Solo nel 1983, infatti, e non nel 1979 come ritenuto dalla sentenza, le Ferrovie dello Stato inviano una circolare specifica che interessa direttamente l'impresa M. s.p.a., a seguito della stipulazione del contratto V21, in data 11 luglio 1983, allorquando l'azienda riceve le prime commesse per la decoibentazione di carrozze con amianto. In precedenza, invero, le circolari dell'ente ferroviario erano di contenuto generico, non indirizzate espressamente alla M. s.p.a., che non si occupava di decoibentazione. Prima degli anni '80, inoltre, la letteratura riteneva che l'amianto fosse pericoloso solo se le sue polveri fossero state respirate in grandi quantità. Tanto che il limite di esposizione sino al 1975 era pari a 0,2 fibre per centimetro cubico, ridotto successivamente a 0,1 con il d.lgs. 257/2006. I limiti legali erano rispettati presso la M. s.p.a., che, come peraltro documentalmente dimostrato in giudizio, dal 9 dicembre 1982 aveva provveduto a fornire ai lavoratori 'maschere a doppio filtro'. Assume che la sentenza impugnata, non considerando siffatti dati, afferma che ancora nel 1983, dopo la circolare F.S. del 1 aprile, le mascherine a doppio filtro non fossero utilizzate come quelle 'normali1, fossero utilizzate dagli operai a loro discrezione. Ricorda che prima del d.l. 277/1991 non erano previsti monitoraggi ambientali, e che l'avere monitorato l'aereoaspersione di fibre, in epoca in cui ciò non era richiesto, appare elemento contrastante con l'affermazione di un alto grado di colpa. Osserva che anche la brevità del periodo di esposizione (solo due anni), prima dell'istituzione del reparto di decoibentazione, con l'adozione di tutte le misure di sicurezza possibili, deve essere valutato positivamente ai fini della ponderazione della gravità dell'elemento soggettivo. Infine, con riferimento al parametro della 'personalità dell'imputato' rileva che dei due precedenti per lesioni personali colpose, commessi con violazione della disciplina sulla sicurezza del lavoro, al primo già oggetto di sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., è seguita la riabilitazione, mentre il secondo (fatto risalente al 2007) è relativo ad infortunio, dovuto alla perdita di equilibrio di un lavoratore impiegato in operazioni di stallaggio. Si tratta, invero, di fatti risalenti nel tempo (rispettivamente 1989 e 2007), di modesta importanza, sanzionati unicamente con la pena pecuniaria, considerati dalla Corte con una valutazione meramente formale, senza approfondire la loro effettiva rilevanza. Dunque, la motivazione della Corte territoriale in relazione alla meritevolezza della conversione della sanzione detentiva in pena pecuniaria, è gravemente viziata.
8. Entrambi gli imputati concludono per l'annullamento della sentenza impugnata.
9. Con atto depositato in cancelleria in data 7 gennaio 2020, le parti civili costituite hanno revocato la loro costituzione, motivando la revoca con l'intervenuto integrale risarcimento del danno.
Diritto
1. I ricorsi debbono essere entrambi respinti.
2. I motivi di impugnazione vanno affrontati nel loro ordine logico, partendo dalle questioni processuali.
3. Con la prima doglianza, si lamenta la violazione del disposto dell'art. 512 cod. proc. pen., sostenendo che le dichiarazioni rese a S.I.T. dalla persona offesa non avrebbero potuto trovare ingresso in dibattimento, posto che, sin dal momento in cui furono rese, era prevedibile che la malattia sarebbe evoluta in modo rapido e che la prova non avrebbe potuto essere ripetuta. Sicché l'omessa celebrazione dell'incidente probatorio -la cui ammissione era stata richiesta dal pubblico ministero, ma per la rapida fissazione del quale l'istante non aveva insistito- determinata dal previo decesso di M.C., non autorizza la lettura delle dichiarazioni assunte in fase di indagine, né di conseguenza il loro utilizzo ai fini della decisione.
4. La questione posta è certamente rilevante, anche dal punto di vista generale.
5. Deve premettersi che il ricorso alla lettura degli atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione deve essere guidato da un criterio molto rigoroso, in quanto rappresenta un'importante eccezione al principio di oralità del dibattimento.
5.1. L'elaborazione giurisprudenziale sull'art. 512 cod. proc. pen., si è mossa su varii piani, affrontando, fra gli altri casi, anche quello del decesso del dichiarante e della sua prevedibilità.
5.2. In particolare, è stato preso in esame il tema della lettura dibattimentale delle dichiarazioni di persone in età anagrafica avanzata, ritenendo che essa non renda "prevedibile l'impossibilità di ripetizione delle dichiarazioni rese in precedenza quale presupposto della loro utilizzazione in giudizio, salvo che al momento dell'escussione fosse seriamente pronosticabile, in base a specifiche informazioni relative a patologie ingravescenti, che la durata della vita del dichiarante non sarebbe giunta fino alla celebrazione del dibattimento, dovendosi in tal caso negare accesso alla lettura dì cui all'art. 512 cod. proc. pen." (Sez. 4, n. 24688 del 03/03/2016, P.G. in proc. Arpe, Rv. 267228; in precedenza sull'irrilevanza dell'età di per sé: Sez. 6, n. 11905 del 13/12/201, dep. 12/03/2014, R.C. e E.B, Rv. 261827; Sez. 3, n. 44051 del 10/11/2011, Pijola Lombardo e altri, Rv. 251615).
6. Per autorizzare la lettura, infatti, deve palesarsi che al momento dell'escussione, in sede di indagini preliminari, a mezzo di S.I.T., non fosse formulabile la previsione che la durata della vita del dichiarante sarebbe stata incompatibile con i tempi ordinari di celebrazione del dibattimento. In caso contrario, infatti, cioè allorquando vi siano elementi noti che preannunciano esiti infausti, è il pubblico ministero o l'indagato che vi abbia interesse che deve formulare istanza di ammissione di incidente probatorio e che deve curare, laddove necessario, la richiesta di abbreviazione dei termini, affinché il G.I.P. ex art. 400 cod. proc. pen., attivi una procedura per i casi di urgenza.
6.1. La mancanza di questi adempimenti, a fronte di un evento pronosticabile in forza di dati conosciuti all'istante, non consente di introdurre eccezioni al principio dell'oralità processuale, assicurando il vantaggio di una parte, che ha partecipato alla formazione della prova, sull'altra che ne subisce l'introduzione, senza aver potuto interloquire al momento della sua assunzione.
6.2. In questi termini, si è già espressa questa Corte con una pronuncia molto risalente, relativa ad un'ipotesi di lesioni personali dolose, la cui gravità rendeva prevedibile l'esito mortale. In quell'occasione si è precisato che le dichiarazioni potenzialmente utili ai fini della decisione rese dalla persona offesa alla polizia giudiziaria e al P.M. non possono essere acquisite "qualora sulla base di un motivato giudizio "ex post", funzionalmente demandato al giudice di merito, risulti che era prevedibile l’esito letale delle lesioni subite e si riscontri che la procedura di incidente probatorio, appositamente apprestata dal legislatore anche per eventualità del genere anzidetto, sia stata promossa a suo tempo con ingiustificato ritardo tanto da non avere poi potuto trovare attuazione, proprio per il sopravvenuto decesso della parte lesa", per difetto del requisito dell'imprevedibilità" (Sez. 1, n. 5168 del 23/01/1995, Comberiati e altro, Rv. 201423; La fattispecie esaminata -in quella occasione- era relativa all'uccisione di una guardia giurata e al ferimento di un'altrala quale, trasportata in ospedale ed interrogata dalla polizia giudiziaria aveva fornito notizie utili in ordine agli autori del fatto, fornendo una descrizione sommaria di alcuni di essi che successivamente riconosceva nelle fotografie e confermando nella stessa giornata innanzi al P.M. la compiuta ricognizione, senza che fosse in grado per le sue condizioni di sottoscrivere i verbali. In seguito era stata presentata dal P.M. richiesta di incidente probatorio che non poteva avere luogo per morte del soggetto. Procedutosi contro le persone riconosciute, queste erano assolte dalla Corte di Assise sul rilievo che gli atti contenenti le dichiarazioni rese e le individuazioni compiute non erano utilizzabili ai fini probatori, non potendosi qualificare come irripetibili e non trovando applicazione il disposto dell'art. 512 cod. proc. pen. per difetto dell'imprevedibilità della sopravvenuta causa di impossibilità della ripetizione, sicché l'unica via percorribile sarebbe stata quella dell'incidente probatorio nelle forme previste dall'art. 400 cod. proc. pen.. che avrebbe consentito l'esecuzione di una rituale ricognizione di persona. A seguito di impugnazione del P.M., la Corte di Assise di Appello condannava gli imputati in quanto, per l'improvviso aggravarsi dello stato di salute della persona offesa dopo la presentazione della richiesta di incidente probatorio, l'impossibilità di ripetere gli atti era stata imprevedibile, con la conseguente possibilità di acquisire i relativi verbali al fascicolo del dibattimento. La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado).
7. Ebbene, ribadito detto principio e preso atto che il contraddittorio effettivo ed orale non può essere rimesso alla diligenza del pubblico ministero -o del giudice delle indagini preliminari nella fissazione dell'udienza- avendo questi a disposizione uno strumento per l'anticipazione della prova, e per la sollecita fissazione dell'incombente in casi di urgenza, deve, nondimeno, modularsi l'onere sull'effettività della conoscenza dei dati sulla base dei quali formulare il pronostico di incompatibilità fra le condizioni di salute e la celebrazione del dibattimento.
8. La Corte territoriale, affrontando il motivo di appello con cui si contestava la lettura ex art. 512 cod. proc. pen. delle dichiarazioni di M.C., ha sostanzialmente escluso che nel momento dell'assunzione della persona offesa a S.I.T., l'esito infausto della malattia, in tempi brevi, fosse certo. E questo, facendo riferimento alle dichiarazioni del consulente del Pubblico Ministero, dott. Declame, che ha chiarito come fra la diagnosi del mesotelioma ed il decesso possano trascorrere un paio d'anni o solo qualche mese, a seconda dei casi e dei malati e che M.C., nel febbraio 2010, si trovava in una situazione di discreta salute con respirazione regolare ed in assenza di recidiva del versamento pleurico, verificatosi il mese precedente. Da queste circostanze desume -condividendo la decisione del primo giudice- che, avuto riguardo al criterio della prognosi postuma dell'id plerumque accidit, mancassero le condizioni di rigetto dell'istanza di acquisizione del verbale, non essendo prevedibile una così rapida evoluzione del quadro clinico.
8.1 Si tratta di un'impostazione che non può condividersi, in ragione delle precisazione introdotte in precedenza e tenuto conto del fatto che la natura delle lesioni oggetto della contestazione era proprio una patologia ingravescente, il cui andamento presenta, come chiarito anche dalla Corte, elementi di soggettività ampiamente variabili, con sviluppo certamente infausto in un tempo 'incerto', che, per una pluralità di fattori , può essere più o meno breve.
8.2. In una simile situazione, l'incertezza della sopravvivenza, per un periodo di tempo sufficiente alla celebrazione del giudizio, non può riverberare sull'indagato e sull'integrità del diritto alla difesa, rimettendo alla diligenza del pubblico ministero, che abbia interesse alla prova, la coltivazione dell'iniziativa, anche nelle forme della richiesta di abbreviazione dei termini ex art. 400 cod. proc. pen., laddove si palesi una situazione di urgenza.
9. Deve, dunque, affermarsi che nell'ipotesi in cui la persona offesa -o qualsiasi altro teste- si trovi in condizione di salute gravemente precaria, in quanto afflitta da malattia la cui evoluzione infausta 'può' -secondo la letteratura medica- presentarsi anche a breve, compete al soggetto che ha interesse alla prova e che sia legittimato ai sensi dell'art. 392 cod. proc. pen., coltivare tempestivamente la richiesta di incidente probatorio, anche sollecitando il G.I.P. ex art. 400 cod. proc. pen., pena l'inammissibilità dell'acquisizione dei verbali di S.I.T. Di questi, tuttavia, potrà essere data lettura, se l'incidente probatorio, così richiesto e sollecitato, non possa celebrarsi per intervento del decesso del soggetto coinvolto, per essere l'infausta evoluzione dello stato di salute tanto rapida da non consentire neppure la sopravvivenza sino all'espletamento della prova ex art. 392 cod. proc. pen..
10. Benché il primo giudice ed il collegio di appello non abbiano seguito siffatto percorso interpretativo, il motivo deve essere comunque rigettato.
Nonostante il grave ritardo con cui l'udienza per l'incidente probatorio è stata fissata, infatti, e nonostante la non condivisibile soluzione adottata dai giudici di merito, vi è che sia la sentenza di primo grado, che quella di seconda cura, ¡ ricostruiscono i fatti, ed in particolare le condizioni dell'ambiente di lavoro in cui operava M.C., e le lavorazioni svolte dalla medesima, non solo sulle sue dichiarazioni, ma a mezzo della narrazione dei testi escussi in giudizio. La Corte territoriale, anzi, si sofferma su quanto affermato da ciascuno dei colleghi di lavoro, indicando, per ciascuno, il periodo di tempo nel quale il medesimo operò con la persona offesa, il tipo di attività svolta, il tipo di descrizione del reparto fornita, le modalità di lavoro descritte.
In questo modo, ricostruisce dall'insieme delle deposizioni C., Cr., Ca., D., S.: che nel reparto ove operava M.C., gli operai venivano a contatto con l'asbesto sin dal 1980 (la vittima vi lavorò dal 1981), perché ivi si svolgevano lavori di smontaggio di arredi di carrozze, nel corso dei quali si liberavano polveri di amianto (blu e bianche), a causa dell'uso del trapano e dello svitatore; che In reparto non vi era un impianto di aspirazione; che le mascherine di carta fornite venivano utilizzate dai lavoratori, solo a propria discrezione; che non vi era insistenza di vigilanza e controllo da parte dei caposquadra.
La Corte, fra l'altro, riesamina tutte le dichiarazioni testimoniali, approfondendo le ragioni per le quali i testi introdotti dalla difesa non hanno fornito valido contribuito ricostruttivo, relativamente alla situazione di esposizione della lavoratrice interessata, così come si sofferma sulla mancanza di una vera e propria separazione fra i reparti di smontaggio e quelli di rimontaggio, sino al 1984, sottolineando che, anche allorquando le due zone furono separate con la costituzione ed entrata in funzione di un reparto di decoibentazione (collocato dall'azienda nel 1983), la separazione fra gli ambienti era assicurata solo da ampie porte in plastica.
La ricostruzione della Corte territoriale (che non si limita a richiamare quella del primo giudice), dunque, se muove dalle dichiarazioni rese in sede di S.I.T. dalla persona offesa, poi si muove su binari autonomi, ricavando dalle testimonianze raccolte in giudizio ciascuna delle circostanze di fatto che pone a fondamento della decisione.
11. Dunque, nonostante l'erroneità della premessa di partenza, essendo l'accertamento stato raggiunto in modo indipendente dall'utilizzazione della lettura delle dichiarazioni di M.C., il motivo non può trovare accoglimento, in assenza di un'effettiva incidenza di detta lettura ex art. 512 cod. proc. pen., sulla decisione.
12. Occorre, a questo punto affrontare l'ulteriore tema processuale, introdotto con il terzo motivo formulato dai ricorrenti. Si tratta dell'asserita violazione del disposto dell'art. 228 cod. proc. pen., con riferimento all'utilizzo, ai fini dell'espletamento dell'incarico, di atti non contenuti nel fascicolo del dibattimento e tratti dal fascicolo del pubblico ministero. Si addebita alla Corte territoriale di avere rigettato il relativo motivo di appello, non provvedendo così ad invalidare la perizia, posto che, seppure non sia prevista una sanzione specifica dal codice di rito, nondimeno il difetto di consenso all'acquisizione di atti si riverbera sulla tenuta dell'elaborato.
13. Ora, la Corte, vagliando il ragionamento del primo giudice ne ha condiviso l'impostazione, ed ha escluso ogni rilevanza degli atti del fascicolo del pubblico ministero consultati dal perito d'ufficio, trattandosi di dichiarazioni rese dai testi in S.I.T., sull'attività svolta da M.C. e sull'ambiente di lavoro, ripetute dai medesimi in dibattimento. Sicché il giudice, ricostruite le mansioni della lavoratrice, si è limitato a fare riferimento a quella parte della perizia relativa alla diagnosi ed all'eziologia del carcinoma, limitandosi dunque allo specifico contributo scientifico fornito dal perito.
13.1. Rispetto a questa argomentazione, del tutto soddisfacente, in quanto dimostrativa dell'influenza della consultazione da parte del dott. Barbieri del fascicolo del pubblico ministero, il motivo qui proposto mostra il segno dell'assoluta genericità, non approfondendo in che modo un accertamento così descritto sarebbe, invece, frutto dell'influenza di prove introdotte dal perito e non formatesi in dibattimento. D'altro canto, come si è detto, tutto la ricostruzione condivisa dai giudici di merito trova riscontro nelle testimonianze e nei documenti richiamati, reggendo alla prova di resistenza dell'esclusione delle S.I.T. raccolte da M.C..
13.2. Né possono i ricorrenti rivendicare, a motivo di invalidazione dei risultati della perizia, la mancata considerazione/da parte del dott. Barbieri, delle sentenze di assoluzione e degli altri documenti prodotti in giudizio, posto che i giudici di merito si fanno direttamente carico del loro commento e della loro valutazione, motivatamente escludendo la loro rilevanza in ordine all'affermazione di responsabilità degli imputati.
14. Con il secondo motivo, i ricorrenti introducono una serie di sollecitazioni, in parte sovrapposte, afferenti ad una serie di questioni (non tutte, per la verità, relative alla sussistenza del rapporto di causalità fra condotta ed evento, come enunciato in ricorso).
15. La prima, in ordine logico, riguarda l'accertamento circa la natura professionale della patologia riscontrata sulla persona offesa. Si dubita, infatti, che l'esposizione a basse dosi di polveri -elemento che risulterebbe dall'esame autoptico- giustifichi l'insorgenza di un mesotelioma di origine lavorativa. Si rileva che le difformità fra le descrizione dei riscontri anatomopatologici, da parte dei due consulenti del Pubblico Ministero, la dott.ssa Bellis, che ha rilevato placche solo nel polmone destro, ed il dott. Declame, che le ha osservate solo nel polmone sinistro, rendono incerta la diagnosi sulla natura professionale. A ciò si aggiunge che l'incompatibilità fra le misurazioni dei corpuscoli da parte del consulente del pubblico ministero e del perito (appena 1000/gr tessuto polmonare secondo la dott.ssa Bellis e ben 26.000/gr. secondo il dott. Barberis), non è superabile con la semplice constatazione di una diversa metodologia di rilevamento. Invero, un'asbestosi 'minima di tipo Gl', come quella descritta dal consulente del pubblico ministero, è incompatibile con l'origine professionale del carcinoma, secondo quanto bene evidenziato dal consulente di parte dott. Canzio.
16. Le deduzioni, appena richiamate, introdotte dai ricorrenti sono frutto di una cattiva lettura del provvedimento impugnato.
La Corte territoriale, infatti, non si sottrae affatto alla pluralità dei rilievi introdotti con il gravame sulle ritenute incongruenze fra i pareri degli esperti, ma ricompone gli elementi forniti dalle relazioni, dall'esame in giudizio, sottolineando che la bilateralità delle lesioni polmonari è stata riferita anche dalla dott.ssa Bellis, in sede di riesame del materiale, e che(- a fronte di queste il consulente della difesa si è limitato a prenderne atto. Inoltre, ha dato atto della concordanza delle posizioni degli esperti (perito e consulenti) sul fatto che i mesoteliomi sono stati descritti anche in lavoratori esposti a bassissime dosi di polveri, insorgendo per dosi cumulative, anche modeste. Ancora, ha ricomposto la discordanza sul numero dei corpuscoli ed il numero di fibre, rilevati dalla dott.ssa Bellis e dal perito dott. Barberis, precisando che il secondo dato (26.000 corpuscoli per grammo di tessuto polmonare secco), acquisito in contraddittorio fra le parti, è frutto dell'utilizzo di un microscopio ottico in uso all'ARPA, ottimizzato per l'analisi delle fibre aerodisperse, avente caratteristiche che consentono di identificare anche i corpuscoli più piccoli, rilevando anche l'incidenza della diversa preparazione del tessuto per l'analisi, a mezzo di una 'digestione del tessuto', che consente di ricavare un campione estremamente 'pulito', con conseguente maggior visibilità dei corpuscoli. A ciò, la Corte territoriale, estremamente completa nel riportare la ricostruzione tecnica del perito, aggiunge che il rilievo del carico polmonare di fibre di amianto sul tessuto indenne da patologia, ha consentito di verificare, in contradditorio fra gli esperti, la presenza di 2.500.000 di fibre nel polmone destro, con percentuale di amianto crisolito pari al 23% e di amianto anfìbolico pari al 77%. E' proprio rispetto a questo dato, secondo la Corte, che il perito spiega il fenomeno della clearance, con tasso dì eliminazione dell'6-7% annuo, chiarendo che la "correlazione fra corpuscoli e fibre è buona se queste analisi vengono fatte in tempi non troppo lontani dalla cessazione dell'esposizione, diventando una correlazione debole se passano 25-30 anni". Si tratta di una precisazione che viene mal interpretata dai ricorrenti, in quanto meramente esplicativa del fenomeno di eliminazione delle fibre dal polmone, che dà conto del rapporto fra il loro rilievo ed il tempo trascorso dall'esposizione, rendendo semplicemente più comprensibile il dato offerto. Mal si comprende perché un simile commento tecnico renderebbe illogico il passaggio motivazionale che lo riporta.
17. La sentenza impugnata, dunque, accerta che la malattia è un mesotelioma pleurico e che la sua eziopatogenesi va ascritta all'inalazione di polveri di asbesto. E lo fa, non solo perché la diagnosi è stata istologicamente accertata -non essendo detto dato contestato neppure dalla consulenza della difesa- ma perché le discordanze fra i consulenti del Pubblico Ministero ed il perito d'ufficio si sono dimostrate apparenti e sono state ricondotte ad unità dai chiarimenti resi dagli esperti, superando le critiche mosse al loro operato dal consulente della difesa, a loro volta esaminate dalla Corte. Così, la Corte spiega, per esempio, che le placche erano bilaterali, e che anche la dott.ssa Bellis, lo ha riconosciuto, che l'asbestosi 'minima Gl', riscontrata da quest'ultima, è compatibile con l'esposizione 'moderata', secondo quanto descritto dal perito d'ufficio, dott. Barbieri, e che, tuttavia, siffatto tipo di esposizione, riscontrabile dal numero dei corpuscoli, è 'significativa' di un'esposizione professionale, confermata da un periodo di latenza, nel range per l'insorgenza di siffatto tipo di tumore (secondo la stessa consulenza della difesa), essendo escluse, per M.C., ulteriori cause come il 'fumo di sigaretta' (la Corte riporta altresì l'assenza, nel caso di specie, di elementi morfologici distintivi del carcinoma ascrivibile al fumo).
18. Fatte queste precisazioni, ed esclusa l'illogicità e contraddittorietà della motivazione come lamentata, va trattata la seconda critica introdotta dai ricorrenti, relativa alla pretesa equazione introdotta dalla sentenza impugnata fra presenza di asbesto nell'ambiente lavorativo e (insorgenza della patologia tumorale, che si assume ricondotta dalla sentenza ad un criterio di causalità probabilistico e non di causalità individuale, secondo il percorso indicato dalla giurisprudenza di legittimità. Si ricorda, infatti, che la Suprema Corte ha precisato la necessità di ricorrere ad una legge di copertura accreditata nella comunità scientifica, escludendo, peraltro, che questa possa essere rinvenuta nella c.d. teoria dell'effetto acceleratore, non condivisa, in modo generalizzato, nella letteratura internazionale di settore.
Non vi è dubbio che le premesse che i ricorrenti sottendono alla doglianza siano frutto dell'elaborazione di questa Sezione in tema di causalità tra esposizione all'amianto e decesso del lavoratore, nondimeno, esse rivelano, anche in questo caso, una lettura incompleta della motivazione.
La sentenza, infatti, seppure faccia riferimento, in un breve passo, alla teoria dell'effetto acceleratore, riportando il contenuto della sentenza di primo grado senza discostarsene espressamente, tuttavia fonda diversamente la decisione. E, prendendo atto dell'esposizione -che ritiene comunque provata anche testimonialmente, in armonia con l'insegnamento di questa Corte secondo cui "In tema di patologie asbesto-correlate, l'esistenza e l'entità dell'esposizione ad amianto può essere dimostrata anche attraverso la prova testimoniale, in quanto il vigente sistema processuale penale non conosce ipotesi di prova legale e, anche nei settori in cui sussistono indicazioni normative di specifiche metodiche per il rilievo di valori soglia, il relativo accertamento può essere dato con qualsiasi mezzo di prova" (Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017 - dep. 16/04/2018, P.G. in proc. Cirocco e altri, Rv. 273096)- osserva che la lavoratrice ha prestato attività presso l'impresa M.y per tutta la sua vita professionale.
D'altro canto, la decisione impugnata dà conto dell'ubiquitarietà delle polveri nei reparti produttivi dell'impresa, ed in particolare nel reparto di appartenenza della persona offesa (come sottolineato dai testi escussi C., Cr. e Ca., rispetto alla capacità dei quali, in relazione al riconoscimento della polvere di amianto, la Corte territoriale prende specificamente posizione), sin dall'inizio del suo rapporto lavorativo e certamente sino al 1984, essendo emerso, anche dalle produzioni degli imputati, che sino a quella data non erano stati predisposti gli impianti di aspirazione.
Proprio su queste basi la motivazione introduce un'equazione fra presenza di asbesto ed insorgere del mesotelioma, essendo state escluse dagli esperti cause diverse, di origine non professionale, ed essendo stata accertata l'unicità del rapporto lavorativo e la prestazione dell'attività, per tutta la sua durata, nello stesso stabilimento della società, della quale, per l'intero periodo, furono legali rappresentanti i due imputati.
Non può sostenersi, pertanto, che non si faccia riferimento ad una legge di copertura condivisa dalla dottrina medica, né che non si faccia ricorso ad un criterio di causalità individuale. Il nesso causale fra l'accertata presenza di asbesto nel reparto di lavoro di M.C. e la malattia da questa contratta, tipicamente professionale, viene, infatti, individuato, in modo diretto, stante l'unicità del rapporto di lavoro alle dipendenze dell'impresa -sempre legalmente rappresentata dagli imputati, nelle varie forme societarie assunte, nel corso del tempo- non facendo riferimento alla c.d. teoria dell'effetto acceleratore, ma sulla base dell'assenza di qualsivoglia elemento causale alternativo di innesco della patologia. E cioèA proprio attraverso una legge scientifica di copertura universalmente condivisa, ed a mezzo di un giudizio formulato sulla causalità individuale, in quanto verificato in relazione alla singola vicenda (cfr. Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 - dep. 14/03/2017, RC. in proc. Bordogna e altri, Rv. 270385).
Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte "In tema di rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore per mesotelioma, ove con motivazione immune da censure la sentenza impugnata ritenga impossibile l'individuazione del momento di innesco irreversibile della malattia, nonché causalmente irrilevante ogni esposizione successiva a tale momento, ai fini del riconoscimento della responsabilità dell'imputato è necessaria l'integrale o quasi integrale sovrapposizione temporale tra la durata dell'attività lavorativa della singola vittima e la durata della posizione di garanzia rivestita dall'imputato nei confronti della stessa" (Sez. 4, n. 25532 del 16/01/2019, PG in proc. Abbona Mario, Rv. 276339).
Si tratta di condizioni che si sono entrambe realizzate nel caso di specie., come chiarito dal giudice di seconda cura, sicché fuorviante appare anche il rimprovero incentrato sulla critica del riferimento alla teoria dell'effetto acceleratore, il cui richiamo, pur operato dai giudici di merito, si rivela, in concreto, ininfluente sulla decisione.
18. Occorre, a questo punto, esaminare il quarto motivo di ricorso, inerente al giudizio di bilanciamento fra le circostanze, ex art. 69 cod. pen., avendo la sentenza ritenuto di confermare il giudizio di equivalenza fra le concesse attenuanti generiche e la circostanza aggravante di cui all'art. 589, comma 2, cod. pen.. I ricorrenti sostengono che la Corte abbia erroneamente rigettato il motivo di gravame senza tenere conto della diversa disciplina sanzionatoria prevista dalla disposizione al momento di realizzazione della condotta (1981- f 1996) ed al momento dell'insorgenza della malattia (2009) e del prodursi dell'evento morte (2010). Osservano che sino all'entrata in vigore del d.l. 92/2008, con cui è stato modificato il secondo comma dell'art. 589 cod. pen., j portando la pena massima prevista per il reato aggravato ad anni sette di reclusione, la pena massima prevista per l'ipotesi di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, era pari ad anni cinque.
Sicché, avendo le Sezioni Unite, con la sentenza n. 40986 del 19/07/2018, chiarito che la disciplina applicabile, in caso di successione di leggi penali, nel caso in cui l’evento del reato intervenga nella vigenza di una legge penale più sfavorevole rispetto a quella in vigore al momento in cui è stata posta in essere la condotta, è quella vigente al momento della condotta, la Corte territoriale avrebbe dovuto tenere in considerazione il testo di cui all'art. 589, secondo comma cod. pen., antecedente l'entrata in vigore del d.l. 92/2008, meno gravemente sanzionata. Di qui, la necessità di affrontare il giudizio di bilanciamento 'pesando' la circostanza aggravante contestata, in concordanza con il minor disvalore attribuito dal legislatore dell'epoca nella quale la condotta si è realizzata.
19. Il motivo, pur suggestivo, non può trovare accoglimento, in quanto viene formulato in modo del tutto avulso dalla motivazione adottata dalla Corte di appello e, prima ancora, dal giudice di primo grado. Nessuna parte delle argomentazioni espresse dai giudici di merito, infatti, autorizza a pensare che il giudizio di bilanciamento delle circostanze sia intervenuto avendo riguardo al testo del secondo comma dell'art. 589 cod. pen,, come modificato dall'art. 1, comma lett. c), n. 1) del d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con mod. nella l. 125/2008, vigente all'epoca dell'evento e non a quello previgente la modifica del limite inferiore dell'aggravamento, ad opera della l. 21 febbraio 2006, n. 102 (portandolo da uno a due anni di reclusione) che prevedeva un aumento di pena per l'ipotesi configurata dalla disposizione, da uno a cinque anni di reclusione, in luogo dell'attuale aumento da due a sette anni di reclusione.
20. Peraltro, sia la Corte d'appello, che il giudice di primo grado, si soffermano sulle ragioni per le quali il comportamento tenuto dai ricorrenti, pur positivamente valutabile, al fine di riconoscere la diminuente di cui all'art. 62 bis cod. pen. -avendo gli imputati cominciato ad adottare iniziative a tutela della salute, dal momento dell'istituzione del reparto di decoibentazione- ciononostante, non può essere considerato prevalente sulla contestata aggravante, gravi inadempienze riscontrate nel periodo precedente, durante il quale la persona offesa fu esposta alle polveri di amianto.
L'equivalenza, dunque, viene motivata con riferimento alla gravità delle omissioni, di cui entrambe le sentenze di merito danno ampiamente conto, il che impedisce, secondo la Corte, di dare maggior 'peso' all'adempimento tardivo- coincidente con l'istituzione del reparto decoibentazione- alle disposizioni preventive di tutela della salute dei lavoratori. E ciò, dunque, soffermandosi proprio sulla comparazione fra la condotta integrante l'aggravante, descritta al secondo comma dell'art. 589 cod. pen., e quella giustificativa della mitigazione del trattamento sanzionatorio, costituita dalla successiva predisposizione di misure cautelative, la cui rilevanza non viene ritenuta tale da prevalere sul precedente inadempimento. Tanto va ritenuto -spiega il Collegio del merito- anche perché, sia nel corso della vita anteatta, che in quello della vita successiva alla condotta tenuta, gli imputati hanno dimostrato poca attenzione alla tutela della salute dei lavoratori, riportando condanne per violazioni del T.U. sulla prevenzione, ancorché i reati commessi siano stati in parte depenalizzati.
Ebbene, rispetto a quest'ultima osservazione i ricorsi si dilungano al fine di dimostrare la 'tenuità dei precedenti' e quindi la loro irrilevanza, senza, tuttavia, avvedersi che la sentenza impugnata non fonda la decisione sulle condanne intervenute (di cui una per infortunio sul lavoro), ma sulla considerazione di una continuità di comportamenti di violazione della normativa precauzionale, ancorché di poco conto, dimostrativa della poca cura nella prevenzione sui luoghi di lavoro.
Si tratta di una motivazione che non viene scalfita dalla critica mossa -del tutto avulsa dal testo dei provvedimento- e che fa buon uso della discrezionalità riconosciuta al giudice dall'ordinamento, in ordine alla valutazione di tutti i componenti della pena (ex art. 132 cod. pen.), posto che-state espresse in modo chiaro e del tutto esaustivo le ragioni per le quali la Corte territoriale ha ritenuto di rigettare il motivo di appello.
21. L'ultimo motivo formulato da P.M. (avendo M.M. rinunciato alla censura in sede dì appello) deve essere dichiarato inammissibile.
22. E' sufficiente ricordare che "la sostituzione delle pene detentive brevi è rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice, che deve essere condotta con l'osservanza dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen., prendendo in esame, tra l'altro, le modalità del fatto per il quale è intervenuta condanna e la personalità del condannato" (Sez. 3, n. 19326 del 27/01/2015, Pritoni, Rv. 263558; inoltre, cfr. Sez. 2, n. 5989 del 22/11/2007 - dep. 06/02/2008, Frediani, Rv. 239494; Sez. 5, n. 528 del 23/11/2006 - dep. 12/01/2007, Ferrara, Rv. 235695)
In questo caso, invero, il ricorrente censurando la decisione,riprende in gran parte gli argomenti già sviluppati con le altre doglianze per affermare la sussistenza dei parametri giustificanti la concessione della sostituzione della pena detentiva invocata. La Corte, tuttavia, avendo dato in precedenza ampia risposta, del tutto correttamente, trae le conclusioni dalle premesse sviluppate nel corpo della motivazione, ritenendo la pena pecuniaria inadeguata alla gravità del fatto ed al grado della colpa. Il richiamo per relationem delle argomentazioni già svolte nel corpo della sentenza esonera il giudice da ogni ripetizione laddove proprio sulle considerazioni già svolte intenda giustificare l'uso della discrezionalità che gli è riconosciuta dall'ordinamento.
23. I ricorsi debbono essere, dunque, entrambi rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 30/01/2020