Cassazione Penale, Sez. 4, 07 aprile 2020, n. 11547 - Reato di caporalato: la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario accompagnata da situazione di bisogno non bastano
1. Con l'ordinanza in epigrafe il Tribunale di Ancona, in funzione di giudice del riesame, ha rigettato l'appello proposto dalla Procura avverso l'ordinanza del 3 ottobre 2019 con cui il G.I.P. del medesimo ufficio ha rigettato la richiesta di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, proposta nei confronti di A.B.M., indagato (in concorso con S.M.R.) per il reato di cui agli artt. 81, comma secondo, 110, 603-bis, comma primo, n. 2, comma terzo, nn. 1 e 4, comma quarto, n. 1, cod. pen..
1.1. Il G.I.P. aveva ritenuto l'insussistenza di una grave piattaforma indiziaria sotto il profilo dell'individuazione del numero e dell'identità dei soggetti passivi, cioè dei lavoratori sfruttati presso cantieri diversi da quello di Ancona o non identificati dal S.M.R., datore di lavoro e dall'A.B.M., suo sodale e prestanome. Tale quadro non appariva colmabile attraverso il file excel "Settembre 2018 Ancona", in cui erano elencati i nomi di ventisei lavoratori impiegati presso il cantiere dorico, poiché quattro lavoratori, mediante dichiarazioni della cui genuinità non era possibile dubitare, avevano affermato di aver sempre ricevuto il compenso dovuto e di non aver riscontrato altre irregolarità.
1.2. Nell'esaminare i motivi di appello, il Tribunale del riesame ha rilevato che il quadro indiziario era costituito da: intercettazioni telefoniche sulle utenze cellulari in uso al S.M.R. e a D.G., capocantiere presso la Isolfin di Ancona; intercettazioni ambientali delle conversazioni tra presenti tenutesi sull'autovettura in uso al S.M.R.; dichiarazioni di quattro lavoratori sentiti a sommarie informazioni (OMISSIS); fogli firmati in bianco dai dipendenti e contabilità occulta dimostrativi delle ore di lavoro effettivamente prestate dagli operai. Dalle intercettazioni emergeva che il S.M.R. adottava la prassi di annotare in busta paga un numero di ore inferiore a quelle realmente svolte dai lavoratori, pretendeva la restituzione di vari emolumenti e pagava la cifra tra sei ed otto euro all'ora.
Secondo il Tribunale del riesame, le violazioni apparivano di rilievo lavoristico e/o amministrativo, ma non integravano gli estremi dello stato di bisogno dei dipendenti, che li avrebbe spinti ad accettare condizioni inique, non essendo sufficiente il riferimento alla nazionalità e al bisogno di lavorare. I lavoratori non davano atto di situazioni di costante assillo da parte del S.M.R.. Non risultava accertata la sussistenza di una condizione di sfruttamento, bensì solo di una mera difformità tra il trattamento destinato ai lavoratori e le previsioni della contrattazione collettiva.
2. La Procura presso il Tribunale di Ancona ricorre per Cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame per violazione di legge e vizio di motivazione.
Si deduce che il S.M.R. aveva elaborato un vasto disegno criminoso mirato a massimizzare i profitti scaturenti da appalti e subappalti di lavori di verniciatura e coibentazione assegnati dalla Fincantieri, ottenuti tramite lo sfruttamento di numerosi lavoratori extracomunitari di provenienza dal Bangladesh. Il S.M.R. e il sodale e prestanome A.B.M., in qualità di amministratori della New World Service s.r.l. e della New World s.r.l., con sede in Ancona, arruolavano e gestivano i lavoratori, costringendoli a soggiacere alle seguenti inique condizioni, a pena di licenziamento: a) accettazione di una retribuzione stabilita col sistema della paga globale, pari al mero prodotto della paga oraria riconosciuta al lavoratore (al di fuori dei minimi fissati dai contratti collettivi nazionali) per le ore effettivamente prestate, senza la corresponsione delle ferie, del TFR, del bonus "Renzi" e della maggiorazione per lavoro notturno; b) restituzione della retribuzione eccedente la paga globale; c) imposizione di non beneficiare di congedi per malattia in caso di infortunio; d) condizioni di degrado abitativo dei dipendenti, alloggiati in appartamento di proprietà del Sarker, per il quale corrispondevano un canone di locazione.
Evidentemente i lavoratori si rendevano disponibili a restituire parte del danaro loro spettante solo per timore di ritorsioni da parte del S.M.R. (es. licenziamento). I trecento lavoratori sfruttati erano arruolati tramite l'utilizzo di plurime società costituite dal S.M.R. in Ancona nel corso degli anni. Alcuni operai alloggiavano in condizioni degradanti nelle abitazioni affittate dal S.M.R.. Erano identificati i firmatari dei fogli in bianco, attestanti la falsa ricezione di anticipi, liquidazioni, la richiesta di periodi di aspettativa non pagati e la ricezione dei c.d. DPI (dispositivi di protezione individuale), pronti per essere compilati in caso di bisogno. Ciò dimostrava che il S.M.R. disponeva degli operai oltre i limiti del rapporto di lavoro datore - dipendente.
Nei colloqui intercettati il S.M.R. raccomandava ai suoi interlocutori di non parlare apertamente delle modalità di assunzione dei lavoratori. Dalla documentazione si evincevano le paghe effettivamente erogate e le somme eccedenti la paga globale, che gli operai erano costretti a restituire in contanti al S.M.R. e all'A.B.M. (nel mese di settembre 2018^ il S.M.R. otteneva la restituzione della somma di euro milleotto- centocinquantasei). Il Tribunale del riesame ha sottovalutato il rinvenimento della somma di euro quarantamila in contanti presso l'abitazione del S.M.R. nonché le numerose spedizioni di danaro in Bangladesh a fronte degli esigui redditi esibiti,dichiarati dal S.M.R. e dall'A.B.M.. In sede di assunzione, peraltro, gli operai erano costretti a giurare fedeltà al Corano, dato indicativo del loro stato di sudditanza psicologica nei confronti del boss.
La sussistenza dello stato di bisogno era dimostrata da plurime circostanze: a) l'accettazione da parte degli operai dell'imposizione di non denunciare eventuali infortuni sul lavoro, rinunciando alla copertura sanitaria ed assicurativa legalmente prevista; b) l'esigenza di legittimare la loro permanenza nel territorio dello Stato mediante un rapporto di lavoro subordinato; c) la difficoltà di comprensione della lingua italiana di molti di loro, costituente ostacolo fisiologico all'integrazione e alla ricerca di un posto di lavoro diverso; d) la necessità di rinnovare il permesso di soggiorno grazie all'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, sia pur a condizioni inique, purché con contratto regolare utile al rinnovo.
Il Tribunale del riesame ha ritenuto sussistenti le esigenze cautelari di cui all'art. 274, comma 1, lett. a), b) e c), cod. proc. pen..
3. Nella memoria difensiva del 10 febbraio 2020 della difesa dell'A.B.M. si rileva che la Procura reitera col ricorso le medesime doglianze poste a fondamento dell'appello al provvedimento del G.I.P., pretendendo una revisione degli elementi fattuali. L'ordinanza impugnata conteneva un preciso giudizio ricostruttivo del fatto con apprezzamenti circa l'attendibilità delle fonti e la concludenza dei risultati del materiale indiziario, con motivazione esente da errori logici e giuridici.
I quattro lavoratori escussi non davano conto di situazioni di costante assillo de-terminato da esposizione debitoria o da condizioni familiari e non confermavano di aver restituito retribuzioni. Dalle intercettazioni emergevano solo errori nel conteggio delle ore di lavoro nelle buste paga di uno o di due dipendenti. Il S.M.R. aveva locato un appartamento al solo M.: l'eventuale subaffitto dell'appartamento a con-nazionali, per dividere le spese di utenze e di locazione e il conseguente degrado abitativo non potevano essere addebitati al S.M.R.. Le presunte restituzioni di danaro non erano state dimostrate. Il danaro contante di euro 41.850, risultante dalla voce "cassa contanti" e rinvenuto nell'abitazione del S.M.R., apparteneva alla New World Service e derivava da plurimi prelievi effettuati nel corso del 2018, per tutelare la società da probabili procedure esecutive e pignoramenti presso terzi. Infine, non ricorrevano le esigenze cautelari indicate dalla Procura ricorrente.
Non emergeva nessun elemento dai quali si desumesse la posizione di prestanome del S.M.R. o di suo sodale; anche nel ricorso la Procura enunciava conversazioni intercettate riferibili esclusivamente alla persona del S.M.R..
Diritto
1. Il ricorso è fondato.
Vanno premesse all'esame delle specifiche doglianze talune considerazioni di ordine generale.
La prima riguarda l'ambito del sindacato di questa Corte sui vizi di motivazione del provvedimento impugnato, rappresentato - nel caso di specie - da una ordinanza in tema di libertà personale. Dando ormai per scontata la traduzione della espressione "gravi indizi di colpevolezza" utilizzata dal legislatore nel corpo dell'art. 273 cod. proc. pen. nel senso di "elementi di conoscenza idonei a far ragionevolmente presumere, allo stato degli atti, la qualificata probabilità di condanna" è evidente che non può venire in rilievo - in quanto tale - in sede di legittimità la violazione della suddetta norma, quanto l'attribuzione di un'effettiva "valenza indiziante" ai singoli elementi oggetto di valutazione, nell'ambito del percorso giustificativo della decisione adottata.
Trattasi dunque di verificare la correttezza dei passaggi argomentativi contenuti nel provvedimento di merito, anche in rapporto ai contenuti della norma incriminatrice di riferimento, nel caso di specie rappresentata dall'art. 603-bis, comma primo, n. 2, comma terzo, nn. 1 e 4, comma quarto, n. 1, cod. pen., secondo i canoni imposti dalla norma di cui all'alt. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., su cui v'è copiosa elaborazione giurisprudenziale maturata in questa sede di legittimità. In sede di controllo sulla motivazione va realizzata una verifica circa la completezza e globalità della valutazione operata in sede di merito, non essendo consentito - tra l'altro - omettere la valutazione di elementi obiettivamente incidenti nella economia del giudizio (Sez. 1, n. 39544 del 24/06/2013, Fontana, non massimata; Sez. 4, n. 14732 del 01/03/2011, Molinario, Rv. 250133; Sez. 1, n. 25117 del 14/07/2006, Stojanovic, Rv. 234167).
Il giudice di legittimità è chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti specifici atti del processo. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere ne-cessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione, sul rispetto delle regole normative di giudizio (tipiche della fase in questione) e sulla permanenza - a fronte delle specifiche deduzioni - della "resistenza logica" del ragionamento del giudice.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa (Sez. 6, n. 11194 dell'08/03/2012, Lupo, Rv. 252178). Queste operazioni, d'altronde, trasformerebbero la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
2. Ciò posto sui principi operanti in materia, i giudici della cautela hanno evidenziato l'insufficienza del quadro indiziario in ordine ad alcuni elementi del reato di cui agli artt. 81, 110 cod. pen. e 603-bis, comma primo, n. 2, comma terzo, nn. 1 e 4, comma quarto, n. 1, cod. pen.: stato di bisogno dei dipendenti; condizione di sfruttamento.
In proposito, nello svolgere tale valutazione, il Tribunale del riesame valorizza:
a) le dichiarazioni di quattro operai sulla regolarità del rapporto lavorativo, che non prevedeva la restituzione di somme "in eccedenza" sulla busta paga;
b) la qualificazione della paga ridotta come fattore indicativo di violazioni di norme di natura lavoristica o amministrativa, ma non di carattere penale.
L'ordinanza impugnata, tuttavia, risulta aver trascurato una serie di questioni sol-levate dalla Procura ricorrente e ha pretermesso l'analisi dei plurimi elementi indiziari sopra riportati nell'esposizione in fatto (par. 2) e costituenti indice - se dimostrati - della sussistenza del reato. Tale coacervo di elementi integra una serie di obiezioni rilevanti in ordine all'asserita insussistenza del quadro indiziario, che incide sulla solidità dell'impianto motivazionale.
Si ritiene comunque di richiamare e di riaffermare la giurisprudenza di questa Sezione, secondo cui la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603-bis cod. pen. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio (Sez. 4, n. 49781 del 09/10/2019, Kuts, Rv. 277424).
Non può che ribadirsi in ogni caso la totale mancanza di risposte da parte dell'organo della cautela alle molteplici censure prospettate dalla Procura ricorrente.
Il Tribunale del riesame ha incentrato la propria analisi solo su alcuni elementi di accusa, per confutarne la loro valenza, senza però svolgere un controllo della complessiva piattaforma indiziaria. In tema di applicazione di misure cautelari personali, la gravità degli indizi di colpevolezza postula una considerazione non frazionata ma coordinata degli stessi, che consenta di verificare se la valutazione sinottica di essi sia o meno idonea a sciogliere le eventuali incertezze o ambiguità discendenti dall’esame parcellizzato dei singoli elementi di prova, e ad apprezzare quindi la loro effettiva portata dimostrativa e la loro congruenza rispetto al tema di indagine prospettato nel capo di imputazione provvisoria (Sez. 1, n. 39125 del 22/09/2015, Filippone, Rv. 264780).
Peraltro, gli elementi del processo richiamati dalla Procura presso il Tribunale di Ancona per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione risultano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale per cui la loro rappresentazione è in grado di disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante e da determinare al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516).
Si rende necessaria, pertanto, una pronunzia di annullamento con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale del riesame di Ancona.
P. Q. M.
Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia, per nuovo esame, al Tribunale del riesame di Ancona.
Così deciso in Roma il 18 febbraio 2020.