Cassazione Penale, Sez. 4, 10 aprile 2020, n. 11958 - Apertura priva di protezione e infortunio mortale del lavoratore dipendente della ditta appaltatrice e responsabilità del capo cantiere. Sistema processuale
1. Con sentenza in data 8 febbraio 2019, la Corte d'appello di Roma ha riformato la pronuncia 17 ottobre 2011 del Tribunale della stessa città, appellata dalle parti civili costituite nei confronti di P.A., D.S. e del responsabile civile CO.GE.IM. S.r.l.; in particolare, ha condannato il P.A., che era stato assolto perchè il fatto non sussiste dal Tribunale, e la società (in solido con il D.S., condannato in primo grado), al risarcimento dei danni morali e materiali dalle stesse patiti e al pagamento di provvisionali.
In particolare, si era contestato al P.A., nella qualità di capo cantiere della CO.GE.IM. S.r.l., società committente (appaltatrice la EUROPA COSTRUZIONI S.r.l. del citato D.S.), il reato di cui all'art. 589 cod. pen., per avere cagionato la morte del lavoratore dipendente della ditta appaltatrice, R. C., per colpa generica e specifica, consistita nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, avendo consentito alla vittima di utilizzare un locale mansarda (di una delle villette a schiera oggetto dell'opera edilizia in esecuzione) sul cui piano di calpestio si trovava un'apertura (sulla quale avrebbe dovuto essere collocata la scala di collegamento dei piani), priva di qualsivoglia protezione.
Da essa l'infortunato precipitava, riportando lesioni che ne cagionavano la morte.
2. Questa, in sintesi, la vicenda, descritta nella sentenza impugnata.
2.1. Il 6 ottobre del 2006, R. C. era stato trovato cadavere all'interno di una delle villette a schiera in corso di costruzione in un cantiere di via Venzi a Roma, allestito per l'esecuzione di un contratto di appalto stipulato tra la CO.GE.IM. e la EUROPA Costruzioni.
Dalla posizione del cadavere emergeva sin da subito che l'uomo era precipitato dal piano mansarda attraverso l'apertura del solaio, priva di protezione.
Le prime dichiarazioni dei soggetti presenti in cantiere e gli esiti degli accertamenti di polizia giudiziaria consentivano di stabilire che i lavori in corso non riguardavano, in quel momento, detta unità abitativa, già completata allo stato grezzo.
L'accesso alla villetta A8 e alla mansarda, era possibile solo attraverso l'apertura posta sul terrazzino di tale locale, raggiungibile a sua volta solo mediante il posizionamento di una scala sul piano inclinato della falda, sulla quale si apriva il terrazzino stesso.
Il consulente tecnico incaricato individuava la causa del decesso nel traumatismo riportato dalla vittima a seguito della caduta.
2.2. All'esito del dibattimento, il Tribunale escludeva la responsabilità del P.A., ritenendo non utilizzabili nei confronti del medesimo gli esiti dell'eseguito esame autoptico, causa la nullità, per omesso avviso al difensore, dell'accertamento tecnico eseguito.
3. Avverso la sentenza della Corte d'appello hanno proposto ricorsi, con separati atti e difensori, P.A. e la CO.GE.IM.
3.1. La difesa di P.A. ha formulato cinque motivi.
a) Con il primo, ha dedotto inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità e inutilizzabilità degli atti eseguiti. La Corte di merito aveva dedotto la prova del rapporto di causalità dalla testimonianza del medico-legale che aveva riferito i risultati dell'accertamento autoptico, atto nullo, con conseguente inutilizzabilità del suo contenuto probatorio, per omesso avviso al difensore dell'imputato.
La sentenza impugnata era, inoltre, inficiata da vizio della motivazione per essersi la Corte territoriale sottratta all'obbligo di "motivazione rafforzata" che caratterizza la riforma, sia pure ai soli fini civili, di un verdetto assolutorio.
L'apparato argomentativo della sentenza d'appello non è in grado di superare il "dubbio ragionevole" in ordine alla sussistenza di un elemento essenziale del reato.
b) Con il secondo motivo, il ricorrente ha dedotto analoghi vizi, con specifico riferimento alla regola di giudizio introdotta dal nuovo comma 3-bis dell'art. 603 cod. proc. pen.
La Corte del merito aveva violato detta disposizione, omettendo di rinnovare nel dibattimento d'appello l'esame del cinsulente tecnico medico-legale; la diversa valutazione delle sue dichiarazioni era alla base della sentenza di condanna al risarcimento; si trattava, dunque, di prova decisiva ai fini della verifica della causa del decesso.
In subordine, il ricorrente ha sollevato questione di legittimità costituzionale della menzionata disposizione, se interpretata nel senso della sua non applicabilità in caso di appello della sola parte civile, per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione, quest'ultimo in relazione al contrasto con il principio del giusto processo di matrice convenzionale europea.
In ogni caso, rileva il ricorrente che la sentenza impugnata è affetta da vizio di illogicità della motivazione per non avere la Corte proceduto alla rinnovazione della istruzione dibattimentale.
La difesa contesta che la disposizione del comma 3-bis abbia natura di "norma eccezionale", di "stretta applicazione", come affermato - sia pure in un obiter dictum - dalle Sezioni Unite nella sentenza Pavan (n. 14426 del 2019).
Ritiene, al contrario, che essa sia suscettibile di applicazione analogica, in ragione della sua matrice processuale e degli esiti in bonam partem.
In ipotesi di diversa interpretazione della norma, ne ha ipotizzato - come si è detto - l'incompatibilità con i parametri costituzionali suindicati, in particolare per disparità di trattamento tra imputati nei cui confronti sia intervenuto l'appello del pubblico ministero o soltanto della parte civile, rilevando la potenzialità afflittiva della condanna risarcitoria.
c) Con il terzo motivo, la difesa ha dedotto vizio della motivazione e violazione di legge in relazione alla ritenuta responsabilità civile del P.A., avuto riguardo al comportamento abnorme della vittima, condotta che avrebbe interrotto il nesso eziologico tra le contestate omissioni e l'evento morte.
Il ricorrente richiama le osservazioni contenute nella memoria depositata in appello, rilevando che alle affermazioni in essa contenute la Corte di merito non avrebbe dato alcuna risposta, omettendo di disporre la rinnovazione delle prove decisive in essa indicate.
In particolare, sarebbe emerso, secondo gli assunti difensivi, che le lavorazioni nell'unità abitativa dove era avvenuto l'infortunio erano terminate e che era stato interdetto l'accesso in essa.
d) Con il quarto motivo, il ricorrente ha dedotto mancanza della motivazione con riferimento alla disconosciuta estraneità del ricorrente, all'epoca dell'infortunio, rispetto al cantiere, emergente dalle prove allegate a difesa e non considerate dal giudice di merito; il P.A. era, invero, ormai da tempo destinato ad altro sito lavorativo.
e) Con il quinto motivo, infine, la difesa ha dedotto mancanza della motivazione con riferimento alla quantificazione del danno e manifesta illogicità della stessa rispetto al riconosciuto concorso colposo della vittima, al quale il giudice d'appello non aveva attribuito rilievo alcuno in punto di determinazione dei danni.
3.2. La difesa della CO.GE.IM. ha formulato sei motivi.
a) Con il primo, ha dedotto violazione di legge, mancata assunzione di prove decisive e vizio della motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità civile del P.A., stanti i riflessi di tali statuizioni sul patrimonio societario, rilevando che il rappresentante legale della società era stato assolto nel merito con formula ampiamente liberatoria.
In particolare, la ricorrente ha rilevato che il comportamento della vittima non rientrava nell'organizzazione del lavoro e neppure nelle sue mansioni; l'accesso al locale mansarda era, invero, avvenuto in orario successivo al termine dell'attività lavorativa per motivi avulsi dalla stessa, senza alcuna necessità, attesa la disponibilità di appositi locali da utilizzarsi come ripostiglio per il ricovero attrezzi e come spogliatoio.
Sotto altro profilo, la difesa ha rilevato che il giudice d'appello non avrebbe dato adeguato peso ai contenuti della sentenza assolutoria pronunciata nei confronti del rappresentante legale della società, osservando che, in ogni caso, la riconosciuta responsabilità civile dell'ente in conseguenza del ruolo rivestito dal P.A. avrebbe richiesto una motivazione quantomeno rafforzata, sostenuta da apposita indagine e non sopperita dalle considerazioni assertive esposte alle pagg. 6 e 7 della sentenza censurata.
b) Con il secondo motivo, la difesa ha dedotto violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla valutazione della testimonianza del medico-legale: da un lato, secondo la difesa, la Corte d'appello avrebbe considerato la prova orale come avulsa dall'accertamento tecnico irripetibile cui accedeva, già ritenuto inutilizzabile nei confronti del P.A., così pervenendo al risultato di aggirare il divieto probatorio; dall'altro, la visita esterna aveva messo in evidenza segni di cianosi sotto le unghie delle mani del cadavere, indicativi di un possibile problema cardiologico, al quale poteva ascriversi la morte; la Corte d'appello aveva, invece, affermato che la precipitazione al suolo era stato l'unico antecedente storico del decesso, escludendo apoditticamente eventuali concause o dinamiche alternative dell'incidente, quali un episodio infartuale.
c) Con il terzo motivo, ha dedotto difetto della motivazione e travisamento della prova, per non avere il giudice d'appello valutato l'abnormità e assurdità del comportamento del C., rilevate anche dalla polizia giudiziaria.
d) Con il quarto motivo, ha contestato alla Corte romana di non aver proceduto alla rinnovazione dell'istruttoria ai sensi dell'art. 603 comma 3-bis, cod. proc. pen., accedendo in tal modo a un'interpretazione della norma che differenzia ingiustificatamente appello del pubblico ministero e appello della parte civile, prevedendone la non applicazione a quest'ultimo.
e) Con il quinto motivo, ha rilevato la pendenza di questione di legittimità costituzionale dell'art. 622 cod. proc. pen., con riferimento alla possibilità che sia attribuita al giudice penale la cognizione delle impugnazioni della sola parte civile avverso sentenze di proscioglimento, scelta oggi priva di giustificazione e del tutto irrazionale secondo il giudice di merito rimettente (Corte d'appello di Venezia), assumendo l'esistenza di un dubbio sul corretto operato della Corte d'appello romana nel caso di specie.
f) Con il sesto motivo, infine, ha rilevato un errore, chiedendone la correzione a questa Corte eventualmente ai sensi degli arti. 130 e 619 cod. proc. pen.; nella motivazione e nel dispositivo della sentenza la Corte, pur condannando D.S. e, dunque, anche EUROPA COSTRUZIONI, al risarcimento del danno, ha omesso di indicare tale impresa quale responsabile in solido, riferendo solo alla CO.GE.IM., al P.A. e al D.S. le statuizioni risarcitone.
Diritto
1. I ricorsi vanno accolti nei termini che seguono.
2. La responsabilità del P.A. è stata ravvisata nella violazione di regole cautelari alla cui osservanza egli sarebbe stato tenuto siccome garante della sicurezza in un cantiere edile.
L'addebito ha riguardato la condotta descritta in imputazione e contestata al predetto nella qualità di capo cantiere della CO.GE.IM., appaltante i lavori di realizzazione di un complesso di villette, tra cui quella dal cui solaio è caduto il C., dipendente dell'appaltatrice EUROPA COSTRUZIONI.
Tale condotta è consistita nell'avere permesso al predetto lavoratore di utilizzare quel locale, non dotato di protezione, nel non averlo informato dei rischi specifici connessi alle lavorazioni e di non avere disposto e preteso dallo stesso l'osservanza delle norme di sicurezza e l'uso dei mezzi di protezione.
3. Il verdetto assolutorio è stato ribaltato dalla Corte territoriale, sia pure ai soli fini civili, sull'assunto che la decisione appellata fosse dipesa, quanto alla posizione dell'imputato P.A., dalla ritenuta inutilizzabilità nei suoi confronti della consulenza riguardante l'esame autoptico sul cadavere del C..
Ciò, infatti, non aveva consentito di ritenere provata, rispetto a quel garante, la causa del decesso come accertata dal consulente nei confronti dell'imputato D.S., condannato nella qualità di datore di lavoro della vittima.
A tal proposito, la Corte d'appello di Roma, pur confermando le conclusioni del primo giudice quanto alla inutilizzabilità dell'accertamento irripetibile di cui sopra, ha tuttavia ritenuto aliunde raggiunta la prova della causa del decesso; ha, in particolare, valorizzato gli esiti dell'esame esterno del cadavere, svolto nell'immediatezza del fatto, nonché le dichiarazioni rese nella qualità di testimone dal consulente medico-legale incaricato di svolgere l'esame autoptico, ritenute queste pienamente utilizzabili nei confronti del P.A..
Alla stregua di tali evidenze, ha ritenuto provato che il decesso fosse stato la conseguenza del grave traumatismo riportato dal C. a seguito della caduta dall'alto, reputando sommamente improbabile che la causa del decesso, debitamente accertata in giudizio alla luce dell'esame autoptico, ma anche dell'esame esterno del cadavere e dell'esame dibattimentale del consulente tecnico, fosse stata diversa solo nei confronti di uno dei tre imputati, i quali tutti rivestivano una posizione di garanzia nei confronti della vittima.
Inoltre, la Corte di merito ha ritenuto non prospettabile, secondo l'id quod plerumque accidit, che su tale incontestato antecedente storico del decesso si fosse inserita una successiva, imprevedibile serie causale (come, ad es., quella di natura infartuale ipotizzata dalla difesa) che non avrebbe comunque escluso che la causa principale del decesso era stata la precipitazione dall'alto, in assenza di barriere protettive.
Quanto alla posizione di garanzia del P.A., inoltre, la Corte ne ha richiamato la responsabilità, quale capo cantiere, della organizzazione del lavoro e della impartizione delle direttive ai lavoratori addetti, tra le quali l'obbligo di predisporre le necessarie cautele per evitare il rischio di infortuni come quello occorso al C..
Infine, alla luce della produzione documentale difensiva, la Corte d'appello di Roma ha affermato che la sentenza irrevocabile con la quale, in separata sede, il Tribunale di Roma aveva assolto l'imputato R.B., amministratore unico della CO.GE.IM., per non aver commesso il fatto, per avere quel giudice ritenuto il decesso ascrivibile alla imprudenza della vittima, non era però vincolante nel giudizio, nel quale il giudice procedente ben poteva rivalutare anche il comportamento del soggetto assolto, fermo restando il principio del ne bis in idem.
4. In via preliminare, deve rilevarsi la manifesta infondatezza del quinto motivo formulato nell'interesse della CO.GE.IM.
Costituisce, infatti, principio consolidato quello secondo cui la parte civile è legittimata a proporre appello avverso la sentenza di primo grado di assoluzione dell'imputato per insussistenza del fatto al fine di chiedere al giudice dell'impugnazione di affermarne la responsabilità, sia pure incidentalmente e ai soli fini dell'accoglimento della domanda di risarcimento del danno, ancorché in mancanza di una precedente statuizione sul punto, ferma restando, nel caso di appello della sola parte civile, l'intangibilità delle statuizioni penali (cfr. sez. 3 n. 3083 del 18/10/2016, dep. 2017, Sdolzini, Rv. 268894).
La disciplina di cui all'art. 578 cod. proc. pen., infatti, non si applica quando appellante o ricorrente sia la parte civile, alla quale la previsione contenuta nell'art. 576 cod. proc. pen. riconosce il diritto ad una decisione incondizionata sul merito della propria domanda (cfr. sez. 1 n. 26016 del 9/4/2013, Geat, Rv. 255714), in deroga all'art. 538 cod. proc. pen. (cfr. sez. 3 n. 12255 del 29/11/2018, dep. 2019, Rv. 275473).
Il principio è stato da ultimo precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte anche con riferimento alla sentenza di primo grado che abbia dichiarato l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione o della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, ritenendosi l'impugnazione della parte civile ammissibile, ove con la stessa si contesti l'erroneità di detta dichiarazione (cfr. Sez. U. n. 28911 del 28/3/2019, Massaria Federico in proc. c. Papaleo Cristina, Rv. 275953, in cui la Corte ha precisato che la legittimazione della parte civile ad impugnare deriva direttamente dalla previsione dell'art. 576, comma 1, cod. proc. pen., mentre l'interesse concreto deve individuarsi nella finalità di ottenere, in caso di appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l'affermazione di responsabilità dell'imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili, e, in caso di ricorso in cassazione, l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ai sensi dell'art. 622 cod. proc. pen., senza la necessità di iniziare ex novo il giudizio civile).
Peraltro, deve pure osservarsi che le questioni di legittimità costituzionale (che hanno riguardato, invero, l'art. 576 del codice di rito) sollevate dalla Corte d'appello di Venezia, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., sono state ritenute non fondate dal giudice delle leggi con la sentenza n. 176 del 2019, nella quale si rinvengono, come si chiarirà più avanti, precisazioni di sicura utilità ai fini di una corretta esegesi dell'art. 622 cod. proc. pen., stanti le evidenti connessioni di questa norma con l'art. 576 cod. proc. pen., in quella sede scrutinato alla stregua dei parametri costituzionali indicati dalla Corte di merito rimettente.
5. L'imputato è stato - come si è detto - assolto in primo grado perché il fatto non sussiste e la pronuncia, agli effetti penali, è passata in giudicato non essendo stata impugnata dal pubblico ministero.
Il giudice d'appello, tuttavia, accogliendo l'impugnazione proposta, ai soli effetti della responsabilità civile (art. 576 c.p.p.), dalle parti civili ha ribaltato il giudizio di responsabilità e pronunciato condanna generica dell'imputato al risarcimento del danno, nonché condanna al pagamento di provvisionali (artt. 539 e 605 c.p.p.).
6. Il secondo motivo formulato nell'interesse del P.A. e il quarto motivo formulato nell'interesse della società sono fondati.
6.1. La riforma della Corte di merito impone la verifica, sollecitata dalla difesa dell'imputato, dell'osservanza di due principi fondamentali del sistema processuale: il principio della motivazione rafforzata ed il principio della obbligatoria rinnovazione delle prove, in particolare di quelle dichiarative (art. 603, commi 3 e 3-bis, c.p.p.).
a) Sul principio della motivazione rafforzata non servono particolari considerazioni, essendo stato il medesimo ormai da anni recepito ed elaborato, come espressione delle fondamentali garanzie di cui agli artt. 24, comma 2°, e 111 Cost., dalle Sezioni unite di questa Corte. È sufficiente in proposito ricordare Sezioni unite 14 gennaio 2019, n. 14426, Pavan, che ha affermato, richiamandosi a Sezioni unite 12 luglio 2005, n. 33748, Marinino, che «il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, in modo da giustificare la riforma del provvedimento impugnato» (Rv. 231679).
b) Quanto al principio della obbligatoria rinnovazione delle prove, in particolare di quelle dichiarative, va riaffermato altro fondamentale principio elaborato dalle Sezioni unite (cfr. S.U. 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta, Rv. 267489), secondo cui «Il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio».
In quella sede, la Corte ha osservato, alla luce della giurisprudenza di Strasburgo in tema di c.d. overturning, come si sia progressivamente consolidato l'orientamento secondo cui il giudice di appello non può pervenire a condanna in riforma della sentenza assolutoria di primo grado basandosi esclusivamente o in modo determinante su una diversa valutazione delle fonti dichiarative delle quali non abbia proceduto, anche d'ufficio, a norma dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a una rinnovata assunzione.
Si tratta di principio - afferma la Corte in maniera esplicita - fondato sul canone costituzionale del giusto processo «a favore dell'imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica».
Le Sezioni unite individuano il referente normativo nel comma 3 dell'art. 603 c.p.p., precisando che «anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio» previsto da tale deposizione.
Il principio in questione non subisce alcun condizionamento per il fatto che il legislatore, successivamente alla pronuncia, abbia introdotto il comma 3-bis dell'art. 603 e trasformato in disposizione legislativa un altro dei principi affermati da S.U. Dasgupta («il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma terzo, c.p.p., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado», Rv. 267487), individuandone il respiro costituzionale, in particolare il parametro interpretativo, nella previsione contenuta nell'alt. 6, par. 3, lett. d) della CEDU, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico
ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU.
6.2. Il tema relativo all'ambito di operatività della norma di nuovo conio anche al caso di overturning della prima pronuncia limitato ai soli effetti civili è stato affrontato dagli stessi ricorrenti.
Sul punto, le Sezioni unite - chiamate a risolvere altra questione di diritto («Se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice di appello avrebbe l'obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa») - hanno incidentalmente affrontato il tema specifico, ritenendo la natura eccezionale e di stretta interpretazione della norma (cfr., in motivazione, Sezioni Unite n. 1446 del 28/1/2019, Pavan).
La questione, ancora controversa [si è infatti affermato - anche successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite Pavan cit. - che il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio (cfr. sez. 6 n. 12215 del 12/2/2019, Caprara Antonio, Rv. 275167 e sez. 5 n. 38082 del 4/4/2019, Clemente Marco, Rv. 276933)], è tuttavia del tutto irrilevante ai fini della presente decisione.
E' indubbia, infatti, la persistente vitalità dei principi affermati dalle Sezioni Unite Dasgupta e, pertanto, che il vizio della motivazione derivi dalla violazione della regola di nuovo conio o dell'art. 603 comma 3, cod. proc. pen., nella lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata di cui sopra, è questione del tutto indifferente ai fini della verifica del rispetto del canone costituzionale del giusto processo.
7. Il ragionamento dei giudici della Corte d'appello di Roma inteso a ribaltare, sia pure ai soli fini civili, la decisione di primo grado favorevole agli odierni ricorrenti si basa i) sulla ritenuta non decisività, ai fini dell'accertamento della causa della morte del C., del contenuto probatorio dell'elaborato tecnico del medico-legale e ii) sulla conseguente valorizzazione, oltre che del verbale di esame esterno, delle dichiarazioni del consulente sugli esiti di quell'accertamento preliminare sul cadavere.
Ora, a parte ogni considerazione sulla utilizzabilità di una prova orale che verta sul contenuto di un atto propedeutico a quello dichiarato inutilizzabile (cfr., sul punto, sez. 3 n. 3908 del 3/12/2009, dep. 2010, Rv. 246022, in cui si è affermata la inutilizzabilità derivata della testimonianza resa in dibattimento dal consulente tecnico del pubblico ministero sul contenuto degli accertamenti tecnici irripetibili, dichiarati inutilizzabili per violazione dell'art. 360 cod proc. pen.), deve rilevarsi che le dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento, in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, costituiscono certamente prove dichiarative.
Sussiste, dunque, per il giudice di appello che, sul diverso apprezzamento di esse, sempreché decisive, fondi la riforma della sentenza di assoluzione, l'obbligo di procedere alla loro rinnovazione dibattimentale attraverso l'esame del perito o del consulente, mentre analogo obbligo non sussiste ove la relazione scritta del perito o del consulente tecnico sia stata acquisita mediante lettura, ivi difettando la natura dichiarativa della prova (cfr. Sez. Unite n. 14426 del 28/1/2019, Pavan, Rv. 275112).
Il principio, affermato con riferimento alla rivalutazione delle perizie e delle consulenze regolarmente acquisite in atti, rispetto alle quali si è chiarito che il giudice d'appello che intende capovolgere il verdetto assolutorio deve procedere al riascolto degli autori dei predetti elaborati già sentiti nel dibattimento di primo grado, altrimenti determinandosi una violazione del principio del giusto processo ai sensi dell'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (cfr. Sez. Unite n. 14426 del 2019, Pavan, cit. ; ma anche sez. 4 n. 14649 del 21/2/2018, Lumaca, Rv. 273907; n. 14654 del 28/2/2018, D'Angelo, RV. 273908), è vieppiù valido in un caso come quello all'esame, nel quale addirittura il giudice d'appello ha preteso di trarre la prova decisiva della causa della morte del lavoratore da un esame propedeutico all'autopsia, nonché dalla testimonianza del consulente, il cui elaborato finale è stato dichiarato non utilizzabile nei confronti dell'imputato assolto.
Che si tratti, poi, di prova decisiva si ricava dalle stesse argomentazioni della Corte d'appello, che ha ritenuto che gli esiti della consulenza tecnica dichiarata inutilizzabile avessero solo contribuito a chiarire in via definitiva ciò che emergeva dall'esame esterno del cadavere e dalla testimonianza del consulente tecnico.
E' sempre la Corte d'appello ad affermare che l'inutilizzabilità dell'esame autoptico aveva determinato l'assoluzione del P.A., concludendo nel senso che da detta patologia processuale non discendevano le conseguenze giuridiche prospettate nella sentenza appellata, stante la ritenuta utilizzabilità delle residue prove.
La decisività di dette prove, segnatamente delle dichiarazioni del consulente tecnico, appare pertanto confermata dallo stesso ragionamento svolto dal giudice d'appello.
Va, in ogni caso, aggiunto che la Corte territoriale non ha neppure precisato quali fossero gli elementi emersi dal verbale di esame esterno del cadavere utili ai fini dell'accertamento della causa del decesso: non è dato, pertanto, verificare se da tale elemento probatorio fossero ricavabili informazioni autosufficienti, rispetto alle quali la testimonianza del consulente perderebbe quel connotato di decisività che emerge dal ragionamento esplicativo rinvenibile nella sentenza censurata.
8. Sono parimenti fondati il primo, il terzo e il quarto motivo formulati nell'interesse del P.A., nonché il primo, il secondo e il terzo motivo formulati nell'interesse della società.
Quanto alla violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata, deve, anzitutto, evidenziarsi come lo sforzo argomentativo dei giudici d'appello si sia limitato alla dimostrazione della causa della morte del lavoratore, senza tuttavia esaminare - pur a fronte delle osservazioni difensive rassegnate in risposta agli argomenti delle controparti appellanti - i presupposti della responsabilità dell'imputato assolto, sia quanto alla effettività della posizione di garanzia ricoperta, sia con riguardo alla concretizzazione del rischio che le norme violate avrebbero dovuto scongiurare e al comportamento tenuto dalla vittima. E infatti, ove la decisione del primo giudice si fosse arrestata alla inutilizzabilità dell'accertamento autoptico, quello d'appello che abbia recuperato aliunde la prova che il decesso era stato conseguenza del grave politraumatismo occorso alla vittima, avrebbe dovuto necessariamente colmare l'esame della fattispecie alla stregua delle evidenze e fornire, pertanto, risposta compiuta a tutti i temi sopra indicati.
Ove, viceversa, il primo giudice avesse escluso la responsabilità del P.A. anche sotto gli altri profili, o anche solo alcuno di essi, allora la Corte d'appello romana avrebbe dovuto fornire una motivazione rafforzata in ordine a tali aspetti, coerente con i principi sopra ampiamente richiamati.
Ciò non è avvenuto nel caso all'esame.
In primo luogo, la Corte d'appello ha omesso ogni valutazione in ordine alla attualità della posizione di garanzia ritenuta in capo al P.A., pur alla luce delle allegazioni difensive con le quali si era affermata la non effettività, all'epoca del sinistro, delle mansioni del P.A. quale capo del cantiere in cui era avvenuto il decesso (cfr. memoria allegata al ricorso P.A.).
Ha, poi, ricollegato l'evento mortale alla contestata condotta in virtù della posizione di garanzia ricoperta, senza tuttavia valutare l'area di rischio garantito dalle norme della cui violazione si discute, in forza di un inammissibile automatismo, estraneo al principio di personalità del reato, anche colposo.
Inoltre, ha affidato ad affermazioni del tutto assertive l'esclusione di eventuali cause interruttive del nesso di causalità con specifico riguardo al comportamento della vittima.
Sul punto, giovi ribadire quanto più volte precisato in materia di prevenzione antinfortunistica, anche alla stregua dell'orientamento (cfr., sul punto, sez. 4 n. 8883 del 10/2/2016, Santini e altro, Rv. 266073) secondo cui, in tale materia, si è passati da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento, il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia (cfr. art. 20 d.lgs. 81/2008).
Infatti, individuato il principio di autoresponsabilità del lavoratore, la giurisprudenza di legittimità ha progressivamente abbandonato il criterio esterno delle mansioni, sostituendolo con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale (cfr., in motivazione, sez, 4 n. 41486 del 2015, Viotto) e si è passati, a seguito dell'introduzione del d.lgs n. 626/94 e, poi, del d.lgs. n. 81/2008, dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" al concetto di "area di rischio" (sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva, fermo restando il principio che non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore (cfr. sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi, cit.).
All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (cfr. sez. 4 n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; cfr. sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, PMT c/ Musso Paolo, rv. 275017); oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (cfr. sez. 4 n. 7188 del 10/1/2018, Bozzi, Rv. 272222).
9. In conclusione, dall'accoglimento dei motivi sopra indicati discende l'annullamento della sentenza impugnata, assorbiti il quinto motivo formulato nell'interesse del P.A. e il sesto motivo formulato nell'interesse della società.
La Corte ritiene che debba disporsi il rinvio, per il nuovo giudizio, al giudice penale.
10. Tale aspetto della decisione impone, tuttavia, alcune considerazioni in ordine all'ambito di applicazione della disposizione contenuta nell'art. 622 cod. proc. pen., a mente del quale «1. Fermi gli effetti penali della sentenza, la corte di cassazione, se ne annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l'azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell'imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l'annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile».
Dei precedenti e della genesi dell'art. 622 ha avuto modo di occuparsi Cass. Sez. un. 18 luglio 2013, Sciortino, alla cui ampia ricostruzione si rinvia, ma sulla quale si tornerà tra breve.
Alla disposizione sono certamente sottese ragioni di economia processuale, ma - come si avrà modo di ribadire - essa deve essere valutata alla luce del più generale principio del giusto processo, del quale la ragionevole durata costituisce una delle plurime declinazioni, ed è opportuno, fin da ora, precisare che il "trasferimento" della cognizione sulle residue questioni civili alla giurisdizione naturaliter data risponde certamente alla necessità di evitare ulteriori interventi del giudice penale, ma unicamente laddove non residuino spazi per l'accertamento del fatto in tale sede.
Ed è su tale specifico punto che questa Corte ha ritenuto di dover concentrare la propria attenzione.
11. Prima di affrontare il concreto thema decidendum, è opportuno chiarire che è ad esso estraneo il contrasto interpretativo maturato tra Corte penale e Corte civile in ordine alle regole che la Corte d’appello civile è tenuta ad applicare una volta investita, dalla Corte di cassazione penale, del rinvio ai sensi dell'art. 622 c.p.p.
E neppure è questa la sede per prendere posizione in favore dell'uno o dell'altro orientamento, semmai solo per pronosticare che arroccamenti, sull'una o sull'altra, potrebbero pregiudicare l’unità della nomofilachia della Corte.
È sufficiente, dunque, e solo per ragioni di completezza, ricordare che la contesa ermeneutica, originata dal silenzio serbato in proposito dall'art. 622 citato, vede schierate, da un lato, la Corte penale, secondo la quale il giudice civile del rinvio è tenuto, per evitare il rischio di aggirare l'accertamento del reato compiuto dal giudice penale e di determinare un danno da reato che prescinda dai limiti e dall’oggetto fissati nella sentenza penale, a valutare la sussistenza della responsabilità delPimputato secondo i parametri decisori e le regole probatorie del diritto penale (si pensi, ad es. alla prova della sussistenza del rapporto di causalità tra condotta ed evento e al canone "dell'oltre ogni ragionevole dubbio" posto a presidio della valutazione degli elementi per pronunciare condanna) e non facendo applicazione delle regole proprie del giudizio civile (cfr., tra le ultime, sez. 4 n. 5901 del 18/1/2019, Oliva Paolo c/ Navarra Giuseppe, Rv.275122; n. 5898 del 17/1/2019, Borsi Marco, Rv. 275266; n. 412 del 16/11/2018, dep. 2019, De Santis Raffaele, Rv. 274831; sez. 6 n. 43896 del 8/2/2018, Luvaro Angela, Rv. 274223; sez. 4, n. 34878 del 8/6/2017, Soriano, Rv. 271065; sez. 2, n. 28959 del 10/5/2017, Fasulo, Rv. 270364); dall'altro, la Corte civile che mette in campo una serie di argomentazioni per giungere a conclusioni diametralmente opposte (cfr., in particolare, Sez. 3 n. 15859 del 18 aprile 2019).
12. Il tema della individuazione del giudice del rinvio per i casi di annullamento ai soli fini civili è stato affrontato - come si è detto - da Cass. S.U., 18 luglio 2013, n. 40109, Sciortino (Rv. 256087).
L'intervento regolatore ha riguardato un caso in cui il Tribunale aveva dichiarato l'imputato colpevole dei reati contestatigli, condannandolo anche al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, da liquidare in separata sede; a seguito di impugnazione dell'imputato, la Corte di appello aveva dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti perché i reati erano estinti per prescrizione, condannando il medesimo alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, senza esplicita statuizione di conferma della condanna al risarcimento dei danni e, in ogni caso, senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili.
Il giudice è - come noto - legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (cfr. Sez. U.n. 35490 del 2009, Tettamanti, Rv. 244274).
La sentenza Tettamanti non aveva però affrontato la questione della individuazione del giudice di rinvio in caso di vizi di motivazione, in presenza di una declaratoria di estinzione del reato, in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini della condanna civile.
Della questione si è occupata la sentenza Sciortino che ha ritenuto che, una volta rilevata e dichiarata l'estinzione del reato per prescrizione, non possa residuare alcuno spazio per ulteriori pronunce del giudice penale e non abbia più ragion d'essere la speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile, venendo meno quell'interesse penalistico alla vicenda che giustifica il permanere della questione in sede penale.
In virtù del principio di economia processuale, quindi, la decisione sugli aspetti civili - si è detto - va rimessa al giudice civile, competente a pronunciarsi sia sull'an che sul quantum della pretesa del danneggiato dal reato.
Al rinvio al giudice penale - ha precisato la Corte - osta il disposto dell'art. 129 cod. proc. pen., tanto più che il danneggiato è consapevole ab origine della possibilità di un tale epilogo decisorio e della possibilità che il ristoro avvenga con regole diverse.
Come si è detto, la Corte di appello non aveva motivato in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili: si era limitata ad affermare che, tenuto conto delle prove acquisite, non era ravvisabile alcun elemento idoneo a ritenere che i fatti contestati non sussistessero o che l'imputato non li avesse commessi.
Il giudice a quo, in sostanza, nel confermare la statuizione dell'affermazione di responsabilità civile (pur non riportandola in dispositivo, come avrebbe dovuto fare), si era erroneamente limitato ad applicare la regola di giudizio di cui all'art. 129 cod. proc. pen., non considerando che i motivi di appello avrebbero dovuto essere esaminati compiutamente ai fini civilistici.
Nel caso in esame - va fin d'ora ribadito - la situazione è del tutto diversa.
La sentenza d'appello annullata segue a una sentenza, di primo grado, di assoluzione perché il fatto non sussiste, ribaltata in aperta violazione dei canoni costituzionali e convenzionali relativi alle regole probatorie e ai parametri decisori del giudizio penale. Una sentenza che ha, in particolare, del tutto trascurato di tener conto della progressiva implementazione dei contenuti del principio costituzionale del giusto processo e dei principi consolidati di matrice convenzionale in materia di fair trial, dai quali promanano direttamente le regole processuali applicate in questa sede che hanno determinato l'annullamento della sentenza impugnata e che sono il precipitato della evoluzione delle regole della rinnovazione istruttoria in appello, secondo l'esegesi "formante" sviluppatasi attraverso le pronunce del Supremo collegio penale, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2016, Dasgupta.
Ed è opportuno sottolineare che nella sentenza Sciortino non si riscontra la volontà della S.C. di ritenere che l'art. 622 c.p.p. non lasci spazio alcuno, in caso di annullamento «solamente delle disposizioni o dei capi che riguardano l'azione civile», per un rinvio al giudice penale.
La sentenza Sciortino si muove in un'area diversa, legittimamente governata, quindi, da regole diverse.
In presenza di una causa di estinzione del reato, invero, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (cfr. S.U. n. 35490 del 2009, Tettamanti, cit., Rv. 244275).
All'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità.
Il Supremo Collegio ha, quindi, ritenuto non percorribile la strada del rinvio al giudice penale.
In via incidentale, peraltro, le Sezioni Unite hanno ritenuto quella stessa strada non percorribile neppure nel caso in cui l'imputato avesse investito formalmente anche il capo penale, derivando la inammissibilità del ricorso dal principio affermato dalla sentenza Tettamanti, secondo il quale non sono deducibili in sede di legittimità, in presenza di una causa di estinzione del reato, vizi della motivazione che investano il merito della responsabilità penale.
13. Quanto detto introduce al tema più strettamente correlato alla questione oggetto del presente esame.
Si tratta, in particolare, di verificare se, stante la riconosciuta facoltà della parte civile di impugnare agli effetti civili la sentenza assolutoria davanti al giudice penale e secondo le regole del processo penale, sopravviva, nonostante l'irrevocabilità dell'esito assolutorio, l'interesse penalistico alla vicenda che, alla luce dell'impianto motivazionale rinvenibile nella sentenza Sciortino, giustificherebbe la ultrattività della deroga allo statuto civilistico posta dall'art. 74 cod. proc. pen. e la necessità che l'accertamento del reato generatore del danno avvenga nel rispetto dei canoni di giudizio penalistici, sia con riferimento alla verifica della prova della sussistenza del nesso causale, sia con riguardo alle regole che disciplinano l'utilizzabilità delle prove (e, dunque, anche le modalità di acquisizione di esse) e gli obblighi di rinnovazione istruttoria.
Sul punto, deve considerarsi che, pur non riconoscendo il nostro sistema l'azione penale in capo alla parte privata, è però indubbio che l'esercizio nel processo penale dell'azione civile per le restituzioni e il risarcimento di quello specifico danno delineato dall'art. 185 cod. pen. imprima una diversa fisionomia al corredo dei diritti processuali dell'imputato, il quale dovrà articolare le sue difese in quel processo non soltanto nella prospettiva dell'accusa penale, ma anche delle pretese alle restituzioni e al risarcimento strettamente connesse alla prima.
Pertanto, le garanzie che l'ordinamento appronta al soggetto che deve difendersi nel processo penale, il cui oggetto risulti dilatato nei termini di cui sopra in conseguenza dell'opzione processuale del danneggiato, non possono che riguardare l'accertamento del fatto-reato inteso nel suo complesso.
Ne discende, come logico corollario, il diritto, costituzionalmente presidiato, dell'accusato a ottenere una decisione che, anche in caso di assoluzione irrevocabile, esamini tutti gli aspetti della vicenda anche ai fini dell'accoglimento o del rigetto della domanda civile, secondo i canoni interpretativi e le regole processuali propri del diritto penale, prime fra tutte le regole, di rango costituzionale, del giusto processo, nelle sue diverse declinazioni.
Il diritto dell'accusato ad avere un esito decisorio che sia il precipitato della corretta applicazione delle norme che regolano il processo penale, peraltro, deve considerarsi immanente in tutti i casi in cui il legislatore attribuisce al giudice penale la cognizione di questo complesso thema decidendum, senza distinzione tra le ipotesi in cui sia ancora esistente, nonostante l'assoluzione in primo grado, un potenziale conflitto dai risvolti penalistici (per l'eventuale impugnazione della parte pubblica) e i casi in cui l'esito sanzionatorio negativo sia inattaccabile: anche in questi casi, infatti, il giudice penale chiamato a decidere dei soli risvolti civili della vicenda dovrà applicare le regole proprie del processo penale e garantire al soggetto che si difende sul piano civile residuato un processo che possa definirsi giusto secondo la legge penale e i principi consolidati che sovrintendono l'accertamento dei fatti in campo penale.
Diverso è il caso in cui il reato sia travolto da una causa estintiva.
In questa ipotesi, infatti, la regola di giudizio applicabile, salvo il caso di rinuncia deM'imputato a valersene, è quella stabilita dall'art. 129 cod. proc. pen., a mente del quale il giudice ha l'obbligo dell'immediata declaratoria della causa estintiva, salvo che "riconosca" una causa di proscioglimento nel merito.
Tale riconoscimento, tuttavia, non è il frutto di un accertamento del fatto- reato, ma della constatazione negativa della esistenza di una delle cause di proscioglimento nel merito, con la conseguenza che il diritto dell'Imputato ad ottenere un accertamento all'esito di un giusto processo cederà il passo a ragioni di economia processuale direttamente correlate al venir meno dell'interesse dello Stato ad accertare la fondatezza dell'accusa.
A ciò si aggiunga che, alla luce del diritto vivente, va riconosciuta una diversa solidità all'accertamento che si conclude con esito assolutorio, rispetto a quello di condanna, avuto riguardo alle regole processuali applicabili per il caso di difformità delle decisioni dei due gradi di merito.
Ciò emerge dalla diversa modulazione del principio di immediatezza (privo di garanzia costituzionale autonoma e connotato non indispensabile, seppur fondamentale, di quello del contraddittorio) sulla base dell'incidenza dell'oltre ogni ragionevole dubbio sulla decisione da assumere, esso diventando recessivo là dove - come nel caso di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna - detto canone non venga in questione (cfr. Sezioni Unite n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Troise, Rv. 272431).
In tale ultimo arresto giurisprudenziale, il Supremo Collegio, chiamato a dirimere il contrasto in ordine alla necessità della rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva per addivenire a una riforma della sentenza di condanna in senso assolutorio, nei termini andatisi delineando con le precedenti sentenze delle Sezioni Unite Dasgupta e Patalano, ha precisato che la linea interpretativa tracciata con le richiamate pronunce poggia su una considerazione che assume un rilievo centrale nella ricostruzione dei tratti fondamentali del sistema processuale penale: mentre il ribaltamento in senso assolutorio del giudizio di condanna, operato dal giudice di appello senza procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, è perfettamente in linea con il principio della presunzione di innocenza, presidiata dai criteri di giudizio di cui aM'art. 533 cod. proc. pen., così non è nell'ipotesi inversa.
Dalla introduzione del canone "al di là di ogni ragionevole dubbio" (inserito nell'art. 533, comma 1, cod. proc. pen. dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, ma già individuato quale inderogabile regola di giudizio da Sezioni Unite Franzese del 2002, Rv. 222139), la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che per la riforma di una sentenza assolutoria nel giudizio di appello non basti, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado, poiché occorre "forza persuasiva superiore", tale da far venire meno, per l'appunto, "ogni ragionevole dubbio"; in altre parole, la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, l'assoluzione la mera non certezza di essa.
Di qui la necessità di un più elevato standard argomentativo, imponendo la presunzione di innocenza e il ragionevole dubbio soglie probatorie asimmetriche, in relazione alla diversità dell'epilogo decisorio come sopra delineato.
Analoghe conseguenze si rinvengono quanto alla estensione dell'obbligo di motivazione: esso, in caso di totale riforma in grado di appello, si atteggia diversamente a seconda che si verta nell'ipotesi di sovvertimento della sentenza assolutoria ovvero in quella della totale riforma di una sentenza di condanna.
Nel primo caso, al giudice d'appello si impone l'obbligo di argomentare in ordine alla plausibilità del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilità del primo giudizio; nel secondo caso, il giudice può limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, sulla base di un'operazione di tipo essenzialmente demolitivo.
Tale asimmetria, del resto, informa anche, e più in generale, i metodi di accertamento del fatto, «imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione».
Trova così razionale giustificazione, a tutela del solo imputato, il diverso (e meno rigoroso) protocollo di assunzione della prova dichiarativa nell'ipotesi della riforma di una sentenza di condanna, non potendo il principio di immediatezza essere usato per modificare le caratteristiche del giudizio di appello, «trasformandone la natura sostanzialmente cartolare in quella di un novum iudicium, con l'ulteriore rischio di una irragionevole diluizione dei tempi processuali».
Il Supremo Collegio, peraltro, rinviando ai principi affermati (sia pure nella diversa prospettiva della regola della immutabilità) dal giudice delle leggi, ha precisato, da un lato, che il principio costituzionale del contraddittorio non rappresenta una "risorsa" dispensata alle parti allo stesso modo e con la stessa intensità (prevedendo, infatti, il comma 5 dell'art. 111 Cost. il consenso dell'imputato, e non di altri, per la "perdita" di contraddittorio nei casi consentiti), poiché nasce e si sviluppa come garanzia in favore dell'imputato; ha poi evidenziato, sotto altro profilo, l'impossibilità di configurare tra imputato e parte civile un paradigma di par condicio valido come regola generale per conformarne diritti e poteri processuali, integrando situazioni soggettive non omologabili (il richiamo è a alle sentenze della Corte cost., n. 217 del 2009 e n. 168 del 2006).
Neppure l'ampliamento delle prerogative e degli strumenti di tutela della "vittima" del reato all'Interno del processo penale (soprattutto per effetto delle indicazioni provenienti dalla legislazione europea) potrebbe mettere in discussione la tradizionale funzionalità delle garanzie del processo penale a garantire un equo giudizio alla persona imputata o accusata che vi è sottoposta (cfr., in motivazione, Sez. U. Troise).
Quanto precede è utile in una prospettiva di ricostruzione più netta dello statuto dell'imputato nel processo, di quel corredo, cioè, di tutele e dello strumentario di garanzia ricollegabili a tale posizione giuridica, soprattutto alla stregua del principio generale del giusto processo, come è venuto delineandosi in questo decennio, a partire dalle prime pronunce che hanno fatto applicazione nell'ordinamento interno dei principi di matrice convenzionale di cui si è ampiamente discusso nella parte dedicata alla esposizione dei motivi dell'annullamento della sentenza in questa sede impugnata.
La maggiore solidità della pronuncia assolutoria e la centralità dell'imputato all'interno della vicenda processuale consentono infatti di calibrare la portata del suo diritto a un processo equo nelle varie fasi in cui si articola l'accertamento del fatto-reato.
L'imputato, nel caso in cui il danneggiato eserciti la facoltà prevista dall'art. 74 cod. proc. pen., non deve difendersi soltanto dalla pretesa punitiva dello Stato, correlata all'esercizio dell'azione penale nei termini di cui all'imputazione, ma anche dalle pretese civili in quella sede svolte, secondo le regole proprie del processo penale.
A sua volta, spetterà al giudice penale ricostruire il fatto contestato in imputazione anche ai soli fini civili, all'esito di un processo che possa definirsi giusto nel senso sopra specificato.
In altri termini, deve essere riconosciuta ai diritti dell'imputato una proiezione che va oltre il verdetto assolutorio definitivo, non potendosi ritenere effettivamente conclusa la vicenda penale devoluta alla cognizione del giudice penale nella sua integralità, condizione questa indispensabile per configurare quella dissoluzione del collegamento tra la pretesa risarcitoria del privato e l'accertamento del fatto-reato come operato nel processo penale che giustifica il trasferimento della cognizione sui residui aspetti civilistici della vicenda.
14. Tenuto conto di tali considerazioni, possono rassegnarsi alcune conclusioni in ordine alla portata dell'art. 622 cod. proc. pen.
a) Occorre, intanto, evidenziare che la disposizione dell'art. 622 è regola propria del processo penale e, dunque, non può che concorrere a inverare in esso gli strumenti processuali volti a garantire all'imputato il diritto fondamentale a che il processo nel quale egli è chiamato a difendersi - anche sul piano civilistico, allorché sia azionato il meccanismo di cui agli artt. 185 cod. pen. e 74 cod. proc. pen. - sia "giusto", secondo il parametro di cui all'art. 111 della Costituzione.
Come lo stesso giudice delle leggi ha precisato, il "giusto processo" rappresenta infatti una «formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio» (cfr. Corte Cost. n. 131 del 1996).
Tra le varie declinazioni di tale diritto fondamentale rientra, secondo il diritto vivente, come sopra illustrato, anche il diritto alla rinnovazione della prova in appello nel caso in cui il giudice del gravame del merito ribalti la sentenza assolutoria di primo grado ai soli fini della condanna alle restituzioni e al risarcimento da fatto di reato.
In caso contrario, ove si ritenesse che una assoluzione irrevocabile privi ipso facto l'accusato/danneggiante del diritto all'accertamento del fatto generatore del danno in base alle norme e ai principi propri del processo penale e con le garanzie del giusto processo, nessuna rilevanza avrebbe, nel caso in cui la ragione dell'annullamento riposi proprio nella accertata violazione di essi, la fissazione della regola di giudizio per l'accertamento del fatto illecito da reato nel caso concreto; con evidente incoerenza del sistema che, da un lato, impone il rispetto delle norme poste a presidio del diritto fondamentale di che trattasi, dall'altro, ne vanifica il rilievo processuale una volta che l'imputato non sia più chiamato a rispondere penalmente dello stesso fatto illecito per il quale continua, invece, a rispondere civilmente.
Occorre, dunque, ripensare l'art. 622 cod. proc. pen. quale norma funzionale a ottenere il bilanciamento del principio di economia processuale, per il quale deve evitarsi il permanere di questioni civili nei ruoli penali, con la necessità, propria del principio del giusto processo tratteggiato nei termini anzidetti, di cristallizzare davanti al giudice penale l'accertamento del fatto illecito da cui origina il danno.
Pertanto, il problema della individuazione, ai sensi dell'art. 622 o dell'art. 623 cod. proc. pen., del giudice al quale va devoluta la cognizione delle questioni civili residue, originariamente correlate a un fatto-reato, non può prescindere dalla verifica dell'oggetto della cognizione devoluta al giudice penale, chiamato a decidere degli effetti civili di una vicenda in cui l'accusato sia stato assolto in via definitiva, a seconda, cioè, che l'accertamento del fatto-reato possa dirsi o meno definitivamente concluso davanti al giudice penale, investito delle questioni civili in virtù del meccanismo processuale definito dall'art. 576, comma 1, primo periodo, ultima parte; accertamento regolato, nonostante l'assoluzione definitiva, dalle regole proprie del giudizio penale, ivi compreso l'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., nella lettura datane dal diritto vivente.
Un ruolo decisivo, a tal fine, gioca proprio la forza "espansiva" dello statuto inderogabile dell'imputato: i suoi effetti si riverberano direttamente sul versante della definitività dell'accertamento del fatto-reato devoluto al giudice penale, in virtù del meccanismo processuale sopra richiamato, ancor prima che sul piano del condizionamento conoscitivo dell'accertamento penale rispetto al giudizio civile che consegue all'applicazione dell'art. 622 cod. proc. pen.
Si tratta di interpretazione del tutto coerente con il testo della norma: l'utilizzo dell'avverbio "solamente" autorizza, infatti, una lettura dell'art. 622 cod. proc. pen. secondo la quale non rientra nell'annullamento "solamente" delle "disposizioni o ... capi che riguardano l'azione civile" un thema decidendum in cui ancora si controverta della sussistenza del fatto-reato secondo le regole proprie del processo penale, allorché le doglianze in tal senso formulate dall'accusato abbiano trovato positivo riscontro nella decisione di annullamento del giudice di legittimità penale.
Solo allorché tale accertamento sia compiuto, nel rispetto dei canoni di giudizio del giusto processo, potrà effettivamente apprezzarsi quella dissoluzione del collegamento tra la pretesa risarcitoria del privato e l'accertamento del fatto-reato come operato nel processo penale e, quindi, il venir meno di ogni interesse penalistico correlato a quella vicenda, che giustifica il trasferimento al giudice civile della cognizione sui residui aspetti civilistici di essa, nei termini già sopra ampiamente chiariti, anche alla stregua dei precedenti di questa Corte di legittimità, penale e civile.
Rispetto a tale profilo specifico, si dissente infatti dalle argomentazioni rinvenibili nella sentenza n. 15859 del 18 aprile 2019 della terza sezione civile di questa Corte: non è l'intervento del giudicato assolutorio agli effetti penali a far venir meno la ragione dell'attrazione dell'illecito civile nell'ambito delle regole della responsabilità penale, bensì il venir meno di ogni residuo della cognizione del giudice penale in ordine a un impianto accusatorio rispetto al quale l'accusato/danneggiante ha approntato la sua difesa nel processo penale, perché così previsto dalla legge.
Tale lettura, peraltro, non solo consente di superare le perplessità che, pure, la terza sezione civile ha manifestato quanto alla complessiva coerenza di un sistema in cui è prevista l'impugnazione in sede penale di una sentenza di proscioglimento limitatamente alle questioni civili: essa risulta certamente scalfita ove si ritenga, come fa quel giudice de iure condito, che il trasferimento della cognizione al comparto civile riguardi indiscriminatamente tutti i casi in cui sia impregiudicato il verdetto assolutorio penale (sul punto, non mancando la Corte civile di suggerire, de iure condendo, strade alternative, come quella del mantenimento della cognizione delle questioni civili al giudice penale, ritenute più idonee a ricondurre il sistema a maggiore coerenza).
Ma consente anche di neutralizzare i profili di problematicità che attengono al diverso e dibattuto piano del condizionamento gnoseologico tra giudizio penale e processo civile.
Viene, infatti, meno ogni necessità di ribadire la valenza extra penale di principi cardine dell'ordinamento posti a presidio di diritti fondamentali, come quello dell'accusato ad avere un processo giusto anche ai fini dell'accertamento del fatto di reato produttivo del danno, oggetto della domanda civile azionata nel processo penale, e di proseguire, dunque, il confronto che contrappone il comparto civile a quello penale e sul quale si apprezza lo sforzo interpretativo operato dalla sezione terza civile di questa Corte nella sentenza più volte richiamata.
b) Le conclusioni rassegnate non tradiscono la ratio della norma.
Proprio ragioni di economia processuale, da intendersi non solo in funzione della ragionevole durata del processo, ma anche del più generale principio del giusto processo, del quale la prima è un corollario, rendono evidente la non inutilità di un rinvio al giudice penale all'esito della verifica della incompletezza dell'accertamento ad esso devoluto, il cui esaurimento soltanto, secondo le regole proprie del processo penale, segna il confine netto di dissoluzione della forza espansiva dello statuto dell'imputato sopra descritto, scongiurandosi, anzi, la dispersione dell'attività istruttoria svolta e eventuali, insanabili fratture del sistema (si pensi alle prove inutilizzabili siccome illegali).
Il rinvio al giudice penale anziché a quello civile, peraltro, costituisce una garanzia del diritto di tutte le parti a non vedere stravolte, alla fine di un lungo processo, le regole probatorie e quelle logiche sulla responsabilità che lo hanno governato fino a quel momento, determinandone il progressivo posizionamento.
E neppure rischiano di contravvenire al dictum delle Sezioni Unite penali nella citata sentenza Sciortino, opportunamente distinguendosi il principio di diritto vincolante ivi espresso, dalle indicazioni che la Terza Sezione civile ha ritenuto di rinvenire nel corpo motivazionale di essa.
A mente dell'art. 578 c.p.p., quando «nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili».
Orbene, è indubbio che anche in tal caso il giudice penale può incorrere in vizi denunciabili in sede di legittimità anche con riferimento al coacervo di garanzie a presidio del giusto processo.
Tuttavia, sia che l'effetto estintivo si produca in secondo grado, che nelle more della pronuncia di annullamento (fatta ovviamente salva l'eventuale rinuncia dell'imputato ad avvalersene), il vizio denunciabile dall'accusato, in ordine all'accertamento del fatto di reato, non potrà che riguardare la diversa regola di giudizio delineata nell'art. 129 cod. proc. pen., ma mai la violazione di regole processuali che rivelino una manifesta illogicità o una contraddittorietà del ragionamento del giudice del merito quanto a tale accertamento (sulla natura del vizio deducibile, cfr. sez. n. 42207 del 20.10.2016, dep. 2017, Pecorelli e altro, Rv. 271294, con riferimento alla violazione dell'art. 192 cod. proc. pen.; sez. 4 n. 51525 del 4.10.2018, Rv. 274191, in cui si è precisato che la mancata osservanza di una norma processuale in tanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza; sez. 2 n. 38676 del 24.5.2019, Onofri Massimiliano, Rv. 277518, ancora una volta sull'art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546 dello stesso codice).
In tale ipotesi, infatti, non potrà apprezzarsi quella espansione dello statuto dell'imputato che giustifica il permanere della cognizione del fatto-reato davanti al giudice penale, stante il suo obbligo di verificare solo la evidenza della insussistenza del fatto o della sua non riconducibilità all'imputato e, per il giudice di legittimità, la non manifesta infondatezza del motivo che ha consentito la corretta instaurazione del contraddittorio in quella sede.
In ciò la diversità del caso oggetto del contrasto composto dalle Sezioni Unite Sciortino, rispetto a quello all'esame.
Quanto alle ulteriori affermazioni del Supremo Collegio dell'epoca, le stesse devono oggi calibrarsi alla luce dei principi successivamente affermati da quello stesso organo di nomofilachia, allorché si è trattato di dare attuazione nell'ordinamento a una lettura delle norme sul contraddittorio e l'acquisizione della prova del fatto di reato il più coerente possibile con il parametro costituzionale di cui all'art. Ili Cost. e con l'art. 6 C.E.D.U., come interpretato dai giudici di Strasburgo (a valle, peraltro, di un orientamento già consolidato a partire da Constantinescu v. Romania, n. 28871 del 2000; Popovici v. Moldova, n. 289 e n. 41194 del 2004, § 68, del 2007; Marcos Barrios v. Spain, n. 17122 del 2010).
I principi ivi affermati, già recepiti da alcune pronunce del giudice di legittimità, sono stati consacrati nel diritto vivente e progressivamente arricchiti sin dalla pronuncia delle Sezioni Unite Dasgupta e si sono tradotti nell'interpretazione di una regola di giudizio (in parte recepita dal legislatore con la novella che ha introdotto il comma 3-bis nell'art. 603 cit.) che impone oggi al giudice di procedere alla diretta assunzione di una prova dichiarativa decisiva anche in un caso di ribaltamento del verdetto assolutorio ai soli effetti civili.
Il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio poiché «è in gioco la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica; al punto che, anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili, deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.» (in motivazione, Sezioni Unite Dasgupta, cit.).
L'incidenza nomofilattica di tale principio, espressamente formulato dal Supremo Collegio, è dirimente per la soluzione della questione qui esaminata: ove si ritenesse che il vizio motivazionale correlato alla violazione della regola processuale così individuata non assuma rilievo ai fini della individuazione del giudice al quale compete svolgere l'accertamento del fatto-reato, si sottrarrebbe all'imputato, il cui ricorso è stato ritenuto fondato, la possibilità di ottenere quell'accertamento secondo le regole penalistiche del giusto processo, area riservata certamente al giudice penale e alle sue regole processuali ad esito di un giudizio destinato a perdere la sua stessa connotazione cartolare, per divenire rinnovato processo di quel primo grado conclusosi con un accertamento di insussistenza del fatto o della sua non riconducibilità a quell'imputato.
Ancora diverso è il caso di accoglimento del ricorso della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento dell'imputato (l'art. 576 c.p.p. stabilisce che la parte civile, ai soli effetti della responsabilità civile, può proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento pronunziata in giudizio): sia che l'assoluzione consegua a un giudizio conforme nel doppio grado di merito sia che consegua a un favorevole overturning della condanna di primo grado, neppure in tal caso la parte civile potrà formulare motivi di ricorso che introducano un vizio della motivazione riguardante le regole del giusto processo, che sono delineate - nei termini sinora descritti - in favore del solo imputato.
Né tali conclusioni paiono smentite dalla recente sentenza con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 576 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Venezia (Corte Cost. n. 176 del 2019), rinvenendosi in esse - al contrario - una conferma della necessità di delimitare il ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitone di un danneggiato che, fin dall'inizio, ha optato per la giurisdizione penale.
In quella sede, i giudici della Consulta, ribadito il carattere accessorio e subordinato dell'azione civile rispetto a quella penale, nell'esaminare la questione sollevata (riguardante la legittimazione della parte civile a impugnare nel processo penale la sentenza di proscioglimento, che - secondo la Corte rimettente - dovrebbe essere esclusa nella ipotesi in cui la vicenda penale in senso stretto si sia esaurita, per irrevocabilità della pronuncia assolutoria), hanno precisato che il sistema approntato dal legislatore è coerente con il complessivo regime che regola l'impugnazione della parte civile, per il quale « ... essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processual-penalistiche, anche il giudizio d'appello è devoluto a un giudice penale (quello dell'impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito. Il giudice dell'impugnazione, lungi dall'essere distolto da quella che è la finalità tipica e coessenziale dell’esercizio della sua giurisdizione penale, è innanzi tutto chiamato proprio a riesaminare il profilo della responsabilità penale dell'imputato, confermando o riformando, seppur solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado. È quindi del tutto coerente con l’impianto del codice di rito che, una volta esercitata l’azione civile nel processo penale, la pronuncia sulle pretese restitutorie o risarcitone della parte civile avvenga in quella sede: pertanto, anche quando l'unica impugnazione proposta sia quella della parte civile non è irragionevole che il giudice d'appello sia quello penale con la conseguenza che le regole di rito siano quelle del processo penale. La deviazione da questo paradigma nel caso del giudizio di rinvio a seguito dell'annullamento, pronunciato dalla Corte di cassazione, della sentenza ai soli effetti civili, secondo il disposto dell'art. 622 cod. proc. pen., trova la sua giustificazione nella particolarità della fase processuale collocata all'esito del giudizio di cassazione, dopo i gradi (o l'unico grado) di merito, senza che da ciò possa desumersi l'esigenza di un più ampio ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile che abbia, fin dall'inizio, optato per la giurisdizione penale».
c) Da ultimo, pare opportuno rilevare che tale lettura della norma in commento trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte di cassazione penale, come suggerisce la notizia di decisione n. 1 del 9.1.2020 della terza sezione, relativa a un caso analogo a quello oggetto del presente esame: anche in quella sede, ci si è chiesti se, a fronte di appello della sola parte civile contro una sentenza di assoluzione dell'imputato, cui è seguita una condanna per la quale va disposto l'annullamento per violazione (in quel caso) dell'art. 603 comma 3-bis, cod. proc. pen., in ragione della mancata rinnovazione di prove dichiarative, debba conseguire anche la decisione di rinvio per nuovo esame e, in caso positivo, quale sia l'autorità giudiziaria dinnanzi alla quale disporre il rinvio.
I giudici della terza sezione, considerato che la rinnovazione istruttoria nell'ambito del giudizio d'appello celebrato a seguito di impugnazione di sentenza di assoluzione si impone anche nel caso di gravame proposto dalla sola parte civile, quale peculiare garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto nel procedimento penale, e ritenuto che a tale principio debba darsi effettività, hanno optato per la soluzione dell'annullamento con rinvio dinnanzi al giudice penale per nuovo esame, sia pure ai soli effetti civili.
E trova anche conferma, con riferimento alla incidenza della violazione della regola processuale in tema di contraddittorio e formazione della prova dichiarativa, in altra pronuncia di questa Corte penale, in cui si è sottolineato (sia pure in un caso di annullamento senza rinvio anche agli effetti penali per estinzione del reato per prescrizione) che tale violazione vizia la decisione sulla responsabilità, rendendola tamquam non esset e che un rinvio ai sensi dell'art. 622 cod. proc. pen. (in quella sede ritenuto non praticabile poiché l'annullamento aveva riguardato anche gli effetti penali e non vi era stato ricorso della parte civile), sarebbe stato fonte di una distonia del sistema, finendo per "costringere" il giudice civile a uniformarsi alla quaestio iuris decisa con la sentenza penale di annullamento, riesaminando le statuizioni contenute nella pronuncia assolutoria di primo grado e facendo applicazione di una regola processuale che, espressione dei principi di immediatezza e oralità, è in realtà regola propria del processo penale (cfr. in motivazione, sez. 6 n. 31921 del 6.6.2019, De Angelis Cristina).
15. In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: «In caso di annullamento della sentenza di appello, con la quale l'imputato assolto in primo grado con sentenza divenuta irrevocabile sia condannato ai soli effetti civili, in accoglimento del gravame proposto dalla parte civile, per riscontrata violazione delle regole del giusto processo in ragione della mancata rinnovazione dell'assunzione di prove dichiarative decisive, il rinvio per nuovo giudizio va disposto, sia pure ai soli effetti civili, dinnanzi al giudice penale, il quale si uniformerà al principio di diritto formulato nella sentenza di annullamento».
La sentenza deve essere, pertanto, annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma per nuovo giudizio, la quale si uniformerà ai principi sopra enunciati in ordine alla rinnovazione della istruttoria e alla motivazione sulla responsabilità del fatto, sia pure ai soli effetti civili, e provvederà, altresì, a regolamentare tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, cui demanda anche il regolamento delle spese di questo giudizio.
In Roma il 13 febbraio 2020