Cassazione Penale, Sez. 4, 02 febbraio 2021, n. 3917 - Contatto diretto con la coclea in movimento e amputazione delle dita della mano destra. Posizioni di garanzia

2021

1. Con sentenza del 12/04/2016, il Tribunale di Vicenza dichiarava DM.E. e S.M. responsabili del reato di cui all'art 590, comma 3, c.p. e, concessa l'attenuante di cui all'art. 62, n.6, c.p. prevalente sulla contestata aggravante, li condannava alla pena di giorni 20 di reclusione ciascuno; pena sostituita ex L. 689/81 in euro 5.000,00 di multa ciascuno.
1.1. Con la sentenza n. 1618 del giorno 15/04/2019, la Corte di Appello di Venezia, adita dagli imputati, confermava la sentenza di primo grado.
1.3. Gli imputati erano stati tratti a giudizio per rispondere del reato contestato poiché DM.E. quale procuratore speciale con delega di funzioni in materia di sicurezza della società PRODOTTI STELLA spa in forza della procura speciale dell'amministratore delegato della predetta società G.G. del 11/06/2009, S.M. procuratore speciale in relazione all'attuazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in forza di procura speciale conferitagli da DM.E. il 20/04/2005, entrambi con colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia nonché in violazione della norma di cui all'art. 70, comma 1, del D.Lgs. 81/2008 perché le operazioni di pulizia dell'impianto di miscelazione M3 venivano eseguite a protezione rimossa con elementi mobili pericolosi in movimento (coclea), senza predisposizione delle misure atte a eliminare o ridurre i pericoli di contatti accidentali con gli elementi mobili pericolosi, cagionavano a R.M., dipendente della società PRODOTTI STELLA spa con mansioni di operaio, lesioni personali gravi consistite amputazione del II e III dito della mano destra con, con malattia avente durata superiore ai 40 giorni. In particolare, il lavoratore R.M. dovendo procedere alla pulizia della coclea verticale di carico della tramoggia relativa all'impianto miscelatore M3, metteva in roteazione la coclea al fine di far fuoriuscire i residui di polvere che uscivano dall'apertura e venivano raccolti in un sacco di plastica appoggiato alla predetta apertura; tuttavia, posto che il sacco di plastica si era spostato dalla posizione di imbocco della apertura e la polvere fuoriusciva sul pavimento, il R.M. riposizionava il sacco, urtando con la mano destra contro la coclea in movimento subendo l'amputazione descritta.

2. Avverso tale sentenza d'appello propongono, con unico atto, ricorso per cassazione DM.E. e S.M., a mezzo del proprio difensore, lamentando (in sintesi giusta il disposto di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.):

I) vizi motivazionali in relazione all'omessa considerazione di plurime emergenze processuali che contraddicono la tesi motiva, all'erronea valutazione delle emergenze dibattimentali, all'illogica ricostruzione delle dinamiche operative del macchinario nonché all'imprevedibilità delle scelte dell'infortunato, non prevenibili e al travisamento della prova.
Deducono che la Corte di Appello non ha colto le implicazioni della definizione, da parte dell'azienda, di una procedura di pulizia dell'impianto di miscelazione M3 presso cui ebbe a verificarsi l'infortunio né della predisposizione di idonei dispositivi di sicurezza. Le conclusioni cui giungono i Giudici di merito in ordine alla prevedibilità di eventi analoghi a quello verificatosi, sono contraddette da emergenze oggettive dal significato univoco, non potendo i ricorrenti avvedersi di criticità di cui nessuno si è mai avveduto e che per ben un ventennio non si erano mai palesate. Di contro, la disamina di tutti gli elementi "noti" all'origine dell'infortunio e delle procedure operative rendono evidente come la pulizia del macchinario, se correttamente effettuata, fosse priva di problematicità.
Il) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione agli artt. 70, comma 1, D.Lgs. 81/2008, 40, comma 2, e 41, comma 2, 590, comma 3, c.p. nonché all'abnormità del comportamento del lavoratore interruttiva del nesso causale.
Deducono che il criterio della prevedibilità della verificazione di eventi lesivi deve essere valutato con riferimento alle particolari circostanze del caso concreto con esclusione della responsabilità nel caso di evenienze infortunistiche assolutamente improbabili in base alla comune esperienza quale pare essere quella di un comportamento del lavoratore che disattenda dinamiche procedurali consolidate, sicure, esenti da rischi e di cui è a perfetta conoscenza.
III) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'art. 16 D.Lgs. 81/2008, per la non configurabilità di una effettiva delega di funzioni, per l'assenza di poteri idonei ad evitare l'evento e per mancanza di posizioni di garanzia.
Deducono che il provvedimento impugnato omette una effettiva valutazione in merito all'efficacia delle deleghe conferite ai ricorrenti e al riparto di funzioni all'interno dell'organigramma aziendale, giungendo ad un'affermazione di responsabilità per fatto altrui. Non vi è agli atti alcuna delega che determini l'attribuzione di poteri tali da consentire l'adempimento dei relativi obblighi in materia di sicurezza, sia per i limiti di spesa, sia perché ogni iniziativa richiedeva la previa autorizzazione del Consiglio di Amministrazione o dell'Amministratore Delegato.

Sostengono che la delega al DM.E. è stata conferita da un soggetto che nella compagine societaria di "Prodotti Stella S.p.A." non aveva tale potere: analoghe considerazioni si impongono, di riflesso, per la delega conferita dal signor DM.E. allo S.M..
Affermano che, nel caso in cui il soggetto delegato non disponga di alcun potere il cui corretto uso sia in grado di impedire l'evento, viene meno la posizione di garanzia.




Diritto

I ricorsi vanno dichiarati inammissibili.
4. Va premesso che, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione.
4.1. Occorre, inoltre, evidenziare che i ricorrenti ignorano le analitiche ragioni esplicitate dal giudice di appello per rigettare analoghi motivi di gravame, fornendo puntuale spiegazione del ragionamento posto a base della propria sentenza procedendo alla coerente e corretta disamina di ogni questione di fatto e di diritto.
4.2. Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. Sez. 4, n. 31224 del 16/06/2016).
4.3. Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché '-come nel caso in esame- siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (cfr. Sez. 3, n. 35397 del 20/6/2007; Sez. Unite n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
4.4. Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall'art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. (cfr. Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542).
4.5. Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto. Non c'è, in altri termini, come richiesto nei ricorsi in scrutinio, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
4.6. In realtà i ricorrenti, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell'asseritamente connessa violazione nella valutazione del materiale probatorio, tentano di sottoporre a questa Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito. In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, così come quelle ct'le sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (cfr. Sez. 2, n. 38393 del 20/07/2016; sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965).
4.7. Non va, infine, pretermesso che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo purché specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta "doppia conforme" e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (cfr. Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014 Ud. -dep. 03/02/2014- Rv. 258774): ipotesi che, nella specie, deve escludersi.

5. Ciò posto, in replica alle doglianze formulate, da trattarsi tutte congiuntamente poiché logicamente avvinte, deve ribadirsi che, nell'ambito della sicurezza sul lavoro emerge la centralità del concetto di rischio, in un contesto preposto a governare ed evitare i pericoli connessi al fatto che l'uomo si inserisce in un apparato disseminato di insidie.
Rispetto ad ogni area di rischio esistono distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare; il "garante è il soggetto che gestisce il rischio" e, quindi, colui al quale deve essere imputato, sul piano oggettivo, l'illecito, qualora l'evento si sia prodotto nell'ambito della sua sfera gestoria.
Proprio nell'ambito in parola (quello della sicurezza sul lavoro) il d.lgs. n. 81 del 2008 (così come la precedente normativa in esso trasfusa) consente di individuare la genesi e la conformazione della posizione di garanzia, e, conseguentemente, la responsabilità gestoria che, in ipotesi di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale.
Nel caso che occupa gli imputati (quali soggetti entrambi onerati della "posizione di garanzia" nella materia prevenzionale, come spiegato dai Giudici del merito), erano i gestori del rischio e l'evento si è verificato nell'alveo della loro sfera gestoria (dr. Sez. Un., n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261.108).
5.1. Quanto alla inidoneità del macchinario, mette conto rammentare che, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, grava su ogni gestore, nell'alveo del suo compito fondamentale di vigilare sull'attuazione delle misure di sicurezza, l'obbligo di verificare la conformità dei macchinari alle prescrizioni di legge e di impedire l'utilizzazione di quelli che, per qualsiasi causa -inidoneità originaria o sopravvenuta-, siano pericolosi per la incolumità del lavoratore che li manovra (v. ex multis Sez. 3, n. 1142 del 10/12/1998 Ud. -dep. 27/01/1999- Rv. 212822). In questa prospettiva, correttamente l'addebito è stato ritenuto a carico degli imputati, i quali, nella rispettiva funzione, avevano consentito all'infortunato di utilizzare un macchinario pur in condizione di pacifica irregolarità (v. anche Sez. 4, n. 32749, ud. 03/07/2012 dep. 14/08/2012).
Il giudizio di sussistenza dell'addebito appare, incensurabilmente, argomentato dai giudici di merito proprio su di una superficialità comportamentale dei titolari della posizione di garanzia che avrebbero dovuto mettere fuori servizio la macchina o procedere al suo adeguamento, munendola di tutti i dispositivi di sicurezza richiesti dalla normativa antinfortunistica.

Data questa premessa, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, si appalesa corretto il conseguente giudizio di sussistenza della colpa e del nesso causale posto alla base della decisione di condanna, avendo il collegio distrettuale fornito una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una considerazione fattuale incontrovertibile. Trattasi di un giudizio positivo sulla sussistenza della condotta colposa dei prevenuti che non si rivela affatto illogico.
Le manchevolezze, addebitabili agli imputati quali titolari delle rispettive posizioni di garanzia, appaiono causalmente collegate alla verificazione dell'evento infortunistico in oggetto, che ha rappresentato la concretizzazione proprio di quel rischio, prevedibile ed evitabile, che le norme di prevenzione inosservate erano volte ad evitare, di guisa che l'attuazione delle menzionate e doverose cautele sarebbe stata sufficiente ad impedirlo. Su detti gestori grava infatti l'obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare una macchina e di adottare nell'impresa tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza. Le argomentazioni, ben sviluppate in sentenza, fanno corretta applicazione dei principi più volte ribaditi da questa Corte Suprema in tema di responsabilità colposa nell'ambito del lavoro, per la cui affermazione è necessaria non solo la violazione di una norma cautelare, ma anche la constatazione che il rischio che la cautela intende presidiare si sia concretizzato nell'evento (c.d. causalità della colpa), poiché alla colpa dell'agente va ricondotto solo quell'evento che sia causalmente collegabile alla condotta omessa ovvero a quella posta in essere in violazione della regola cautelare (v. e pluribus Sez. 4, 11 ottobre 2011 n. 43645, rv.251913; Sez. 4, 3 ottobre 2014 n. 1819, Rv. 261768).
Sul punto, giudici del merito hanno rilevato che, dalla documentazione in atti e dalla deposizione dei testi, «è emersa al di là di ogni ragionevole dubbio l'esistenza di una prassi consolidata e da tutti seguita che esponeva il lavoratore al rischio di contatto diretto con la coclea in movimento». Segnatamente, la teste R., che risultava lavorare in azienda da 13 anni, ha spiegato che «per svuotare la coclea "bisognava aprire (mo sportellino... e metterci davanti un sacco di plastica .... E tenerlo perché non fuoriuscisse il prodotto con una mano e con l'altra azionare la coclea.....predetta ha altresì specificato "... l'ho fatto centinaia di volte anch'io quel lavoro ... ". (pag. 7 verbale stenotipico dell'11.11.2014). Il sacco veniva tenuto con le mani e "si cercava di non andare troppo vicino" alla parte "che girava" (ibidem, p. 8). La teste ha precisato che: "era impossibile allontanarci perché sarebbe fuoriuscito tutto, cioè quando la coclea andava azionata la polvere usciva velocemente e sbatteva via il sacco e quindi l'operazione risultava nulla perché ti buttava per terra tutto"». La stessa teste aveva, poi, dichiarato che «l'operazione corretta sarebbe stata quella di spegnere la macchina prima di avvicinarsi alla coclea, ma che ciò, a volte anche istintivamente, non veniva fatto, proprio per evitare di disperdere il prodotto». Pari rilievo è stato dato, in sentenza, alle affermazioni del teste S. il quale riferiva che «l'operazione era stata segnalata per la sua pericolosità perché vi era una coclea in movimento nelle vicinanze del lavoratore senza nessuna protezione, inoltre non vi era un aggancio per il sacchetto e quindi o si lasciava cadere a terra la polvere che usciva dal sacchetto oppure "un operatore lo teneva più su della coclea con una mano... ">>.
Da ciò la Corte territoriale ha tratto la logica conclusione secondo cui «la scorretta prassi aziendale di trattenere con le mani il sacco ove confluiva il materiale oltre ad essere invalsa da anni discendeva proprio dall'acclarata assenza di un dispositivo di aggancio per il sacco stesso. Pertanto, se il lavoratore avesse correttamente seguito la procedura, tenendo le mani lontane dalla coclea, in ragione del naturale spostamento del sacco per l'azione della polvere in uscita, si sarebbe reso necessario il continuo spegnimento della macchia e il continuo riposizionamento del sacchetto, pena la dispersione del materiale in uscita sul pavimento». Ne ha derivato la sussistenza di una prassi macroscopicamente rischiosa di avvicinamento delle mani del lavoratore all'organo meccanico in movimento, prassi segnalata per la sua pericolosità agli operai che venivano allertati quando destinati a tale mansione e, all'evidenza, tollerata e sottovalutata nella sua pericolosità dall'azienda ormai da anni, nonostante le segnalazioni avanzate di cui hanno parlato i testi R. e S. e confermate dallo stesso imputato S.M.; ciò in evidente violazione della specifica regola cautelare dettata dall'art. 70, comma 1, D.Lgs. 81/2008, che impone di segregare, di proteggere o comunque dotare di dispositivi di sicurezza i macchinari i cui organi lavoratori possano costituire pericolo per l'incolumità degli addetti. Né risulta alcuna menzione nel DVR: nulla infatti è annotato in relazione agli accorgimenti organizzativi per la pulizia sotto il profilo della sicurezza.
5.2. Vale evidenziare che l'eventuale ed ipotetica condotta abnorme dell'infortunato non può considerarsi interruttiva del nesso di condizionamento poiché essa non si è collocata al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso. In altri termini la complessiva condotta della vittima non fu eccentrica rispetto al rischio lavorativo che i garanti (i ricorrenti) erano chiamati a governare (cfr. Sez. Un., n. 38343 del 24/04/2014, cit.); nella condotta del R.M. non si possono, in vero, riscontrare i requisiti di eccezionalità ed imprevedibilità poiché trattasi di manovra realizzata -per prassi- nel contesto della lavorazione cui lo stesso era addetto. Più esattamente, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia, e ciò -nella specie- non è (cfr. Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016 Ud. - dep. 27/03/2017- Rv. 269603). Anche recentemente, questa stessa Sezione ha avuto modo di affermare che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio contegno abnorme del lavoratore medesimo, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale (cfr. Sez. 4, n. 7188 del.10/01/2018 Ud. - dep. 14/02/2018- Rv. 272222 Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014 Ud. -dep. 29/05/2014- Rv. 259227).
In vero, poi, va rammentato che il principio di affidamento non è invocabile sempre e comunque, dovendo contemperarsi con il concorrente principio della salvaguardia degli interessi del soggetto nei cui confronti opera la posizione di garanzia (nella specie, il lavoratore, garantito dal rispetto della normativa antinfortunistica): il principio, infatti, non è invocabile allorché l'altrui condotta imprudente, ossia il non rispetto da parte di altri delle regole precauzionali imposte, si innesti sull'inosservanza di una regola precauzionale proprio da parte di chi invoca il principio.

6. In ordine alla titolarità in capo sia a DM.E. che a S.M. della posizione di garanzia contestata, mette conto osservare che -come correttamente rilevato dai giudici del merito-, con riferimento alla posizione dell'imputato DM.E., «non risulta che lo stesso imputato abbia mai contestato a livello aziendale la validità formale della procura con la quale gli erano stati conferiti i poteri in materia di sicurezza e le relative responsabilità. Al contrario, lo stesso, ha confermato di averli esercitati concretamente all'interno della compagine aziendale (pag. 63, verbale stenotipico udienza dell'11.11.2014). Pertanto, sia in applicazione del generale principio di effettività della posizione di garanzia che alla luce della carica comunque formalmente investita di direttore generale della società, l'imputato era titolare - anche iure proprio - della posizione di garanzia in materia di sicurezza di cui all'imputazione. Egli aveva il preciso onere, nell'ambito delle sue mansioni, di verificare periodicamente lo stato di sicurezza dei macchinari e di tenersi costantemente informato, anche mediante i suoi preposti, sui rilievi eventualmente sollevati dai dipendenti in materia di sicurezza>>. Irrilevanti sono, poi, le considerazioni circa i limiti di spesa, più volte sottolineati dalla Difesa, «atteso che l'istruttoria ha consentito di accertare che, per mettere in sicurezza il macchinario, sarebbe stata sufficiente inserire una griglia di protezione dell'ingranaggio dal costo di poche decine di euro, come precisato dal teste Se. dello Spisal>>.
Quanto alla posizione dell'imputato S.M., gli stessi giudicanti del merito hanno -ineccepibilmente- valorizzato che questi «era responsabile dello stabilimento con specifica delega in materia di sicurezza, titolare di poteri in relazione all'attuazione delle norme di prevenzione degli infortuni e quindi di autonoma posizione di garanzia (cfr. procura speciale prodotta all'udienza dell'11.11.2014 e relativa accettazione). Per l'esercizio di tali poteri, l'imputato ha dichiarato di essere stato adeguatamente formato dall'azienda, particolarmente attenta in materia di sicurezza dei lavoratori (pag. 69 verbale stenotipico udienza del 11.11.2014)». Con logica consequenzialità, i giudici dell'appello hanno affermato che lo S.M. «quale responsabile dello stabilimento, era titolare in primo luogo del potere di segnalare e di bloccare i macchinari pericolosi. Pertanto, nel caso di inerzia egli deve essere ritenuto responsabile dell'infortunio occorso ad un lavoratore addetto ad un macchinario operante in condizioni di pericolo. In ogni caso era titolare anche di sufficienti poteri di spesa -che nella citata procura gli vengono riconosciuti fino ad euro 10. 000 per ogni singola operazione per rendere esecutive le mansioni delegate­ per far fronte alle segnalazioni di pericolo del citato macchinario delle quali ha dichiarato di essere stato a conoscenza».

7. Conclusivamente, una volta accertata la legittimità e la coerenza logica della sentenza impugnata, deve ritenersi che i ricorsi, nel rappresentare l'inaffidabilità degli elementi posti a base della decisione di medto, pongono solo questioni che esorbitano dai limiti della critica al governo dei canoni di valutazione della prova, per tradursi nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta argomentatamente propria dai giudicanti e nell'offerta di una diversa (e per i ricorrenti più favorevole) valutazione delle emergenze processuali e del materiale probatorio. Questioni, queste, che sfuggono al sindacato di legittimità (cfr. Sez. 6, n. 13170 del 06/03/2012).

8. Segue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma di € 2.000,00 ciascuno a titolo di sanzione pecuniaria.





P.Q.M.




Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno alla Cassa delle ammende.

Così deciso il 17/12/2020


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