Cassazione Penale, Sez. 7, 10 febbraio 2021, n. 5075 - L'eventuale responsabilità di altri titolari della posizione di garanzia non assume rilevanza alcuna per escludere il giudizio di colpevolezza del datore di lavoro. Nessun distacco
1. T.A. ricorre, a mezzo di proprio difensore, avverso la sentenza di cui in epigrafe deducendo violazione di legge e/o vizio motivazionale in relazione all'errata applicazione: a. dell'art. 30 D.lgs. 276/2003; b. dell'art. 40 cod. pen; c. dell'art. 552 c. 1 lett. c) cod. proc. pen.; d. degli artt. 62 n. 6 e dell'art. 62bis cod. pen. Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.
2. I motivi sopra richiamati sono manifestamente infondati, in quanto assolutamente privi di specificità in tutte le loro articolazioni e del tutto assertivi.
I motivi sono costituiti da mere doglianze in punto di fatto (motivo sub b.), sono riproduttivi di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito e non si coniugano alla enunciazione di specifiche richieste con connessa indicazione delle ragioni di diritto e dei dati di fatto che le sorreggono (motivi sub a. e sub d.) oppure deducono violazioni di norme processuali palesemente smentite dagli atti processuali (motivo sub c.).
Ne deriva che il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
Il ricorrente in concreto non si confronta adeguatamente con la motivazione della corte di appello, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto -e pertanto immune da vizi di legittimità.
I giudici del gravame del merito, richiamando legittimamente la sentenza di primo grado quanto alle circostanze di fatto e alle questioni non contestate, hanno già ampiamente e logicamente risposto a tutte le questioni oggi riproposte, a cominciare dal rilievo che il lavoratore infortunato non fosse "distaccato" ex art.30 decreto legislativo n.276\2003 presso la s.r.l. IRRIMEC, ma vi stesse lavorando, unitamente ad altri colleghi, in forza di un contratto d'appalto che la cooperativa di cui era dipendente aveva stipulato con la suddetta società (aff.36 e seguenti). In tale contratto - ricorda la sentenza impugnata- era espressamente previsto che il lavoro appaltato alla I.T. Service fosse eseguito "con propria organizzazione e a proprio rischio" (art.3) e che questa avrebbe predisposto "l'organizzazione del personale, dei mezzi e delle risorse necessarie per la gestione dei compiti affidati, sopportando tutti i relativi rischi" (art.4), affidando l'esecuzione del lavoro a personale «formato, informato ed addestrato" (art.4), garantendo il rispetto di tutte le norme antiinfortunistiche vigenti dopo avere ricevuto dalla committente dettagliate informazioni sui rischi specifici (art.8). Pertanto, correttamente l'attività lavorativa svolta dall'infortunato è stata ritenuta soggetta, quanto all'adozione delle misure di sicurezza ed alla necessità di informare adeguatamente e preventivamente i propri dipendenti in ordine ai rischi connessi alle mansioni svolte, alla direzione ed al controllo senza ombra di dubbio quantomeno anche del suo datore di lavoro. Di conseguenza, la mancata predisposizione di misure di sicurezza per eseguire operazioni simili a quella eseguita nonché l'omessa preventiva informazione al lavoratore sui rischi di tali operazioni sono state ritenute condotte omissive direttamente imputabili all'odierno ricorrente, richiamando conferentemente la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità (nello specifico Sez. 4 n. 45369/2010, Rv. 249072) secondo cui l'eventuale presenza di altri soggetti titolari della medesima posizione di garanzia non fa venir meno gli obblighi posti a carico del datore di lavoro. Conferente è anche il richiamo a Sez. 4, n. 18826/2012 Rv. 253850, secondo la quale: "In tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione". Logica, pertanto, appare la conclusione che, nel caso di specie gli obblighi a carico del T.A., datore di lavoro, fossero eventualmente concorrenti con quelli dei titolari della società appaltante, e dunque egli abbia quanto meno concorso a cagionare l'infortunio, non verificando che le concrete modalità di esecuzione della prestazione lavorativa rispettasse le normative antinfortunistiche: dunque l'eventuale responsabilità di altri titolari della posizione di garanzia non assume rilevanza alcuna per escludere il giudizio di colpevolezza dell'imputato
3. La sentenza impugnata ha anche già logicamente risposto alla questione, oggi riproposta molto genericamente, circa la chiarezza del capo d'imputazione, evidenziando come la contestazione sua chiarissima sotto tutti i profili tanto che l'imputato si è ampiamente difeso non solo in primo grado, mostrando di avere perfettamente compreso l'accusa a lui formulata, ma anche in sede di gravame nel merito, come si evince dai primi due motivi di appello nei quali si evidenza chiaramente come la chiara contestazione a lui mossa (e per la quale è stato con dannato) sia stata perfettamente compresa.
4. Quanto al trattamento sanzionatorio (anche questi motivi meramente ri proposti in questa sede), la Corte territoriale ha operato un corretto governo della prevalente e costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, secondo cui la concessione delle attenuanti generiche non costituisce un diritto dell'imputato, neppure di quello incensurato, ma deve derivare dall'esistenza di elementi suscettibili di positivo apprezzamento, e che vuole tali circostanze essere riconosciute non tanto in assenza di elementi negativi, quanto in presenza di elementi positivi che non trovano puntuale collocazione all'interno di quelle categorie espressa mente previste dall'art. 62 c.p. o in altre disposizioni di legge, quali ad esempio la giovane età, una condotta processuale improntata a particolare lealtà o qualunque altra condizione personale o sociale meritevole di attenzione ai fini di un'attenuazione del trattamento sanzionatorio.
Ebbene, nel caso di specie la Corte bolognese non ravvisa alcuna circostanza che possa essere in tal modo valutata ed anzi ritiene che i numerosi precedenti penali dell'imputato, escludono qualsivoglia apprezzamento positivo utile ad attenuare la pena.
Il provvedimento impugnato appare, pertanto, collocarsi nell'alveo del costante dictum di questa Corte di legittimità, che ha più volte chiarito che, ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (così Sez. 3, n. 23055 del 23/4/2013, Banic e altro, Rv. 256172, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto giustificato il diniego delle attenuanti generiche motivato con esclusivo riferimento agli specifici e reiterati precedenti dell'imputato, nonché al suo negativo comportamento processuale).
Neppure la Corte emiliana ritiene, motivatamente, che possa concedersi l'attenuante del danno risarcito poiché agli atti non sussiste la minima prova del fatto che prima del giudizio l'imputato (o la sua assicurazione) abbia interamente risarcito il danno complessivamente cagionato al lavoratore. Infine, i precedenti penali e la gravità della colpa e delle lesioni cagionate consentono per i giudici di appello di condividere la pena inflitta in primo grado in quanto adeguata e congrua al fatto commesso ed alla personalità dell'imputato.
5. Va rilevato che non può porsi in questa sede la questione di un'eventuale declaratoria della prescrizione.
Ed invero, secondo il dictum delle Sezioni Unite di questa Corte l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609 comma secondo, cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso (Sez. Un. n. 12602 del 17/12/2015 dep. il 2016, Ricci, Rv. 266818 nella cui moti vazione la Corte ha precisato che l'art. 129 cod. proc. pen. non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle re gole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione). E, quanto a quella maturata dopo la sentenza d'appello, la preclusione deriva dalla manifesta infondatezza del presente ricorso. La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen (così Sez. Un. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. Un., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv. 231164, e Sez. Un. n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, Rv. 256463).
6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della san zione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 16 dicembre 2020