Cassazione Penale, Sez. 4, 19 febbraio 2021, n. 6497 - Caduta mortale dalla scala durante i lavori di pittura della soletta all'interno dell'androne. Responsabilità del datore di lavoro
1. La Corte di Appello di Napoli, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente C.S. con sentenza del 13/3/2019 confermava la sentenza con cui il 19/12/2015 il Tribunale di Nola l'aveva condannato, riconosciutegli le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena condizionalmente sospesa di anni uno e mesi sei di reclusione, oltre al risarcimento del danno nei confronti della parti civili costituite, in quanto ritenutolo colpevole del delitto previsto e punito dall'art. 589 c.p. perché in qualità di datore di lavoro titolare della ditta "Edil C." incaricata di eseguire lavori edili presso il cantiere sito in Via Roma numero 35, consistenti nel pitturare la soletta all'interno dell'androne posta ad un'altezza di circa 3,90 m. da terra, per colpa consistita in imperizia, imprudenza, negligenza nonché in violazione delle norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ed in particolare delle prescrizioni previste dal decreto legislativo 81 del 2008 (già previste dal decreto legislativo 547 del 1955 e dal d.P.R. 164/56) e, precisamente, dagli articoli 111 (avendo omesso di scegliere le attrezzature di lavoro pii idonee a garantire condizioni di lavoro sicure, predisponendo l'istallazione di dispositivi di protezione contro le cadute), 113 (avendo omesso di predisporre la presenza di altra persona dedita a trattenere la scala al piede), e 115 (per non avere predisposto altre misure di protezione contro cadute dall'alto), cagionava la morte di P.N. che, salito sulla scala della ditta, perdeva l'equilibrio rovinando violentemente al suolo riportando lesioni gravissime cui seguiva il decesso; in Volla l'8 novembre 2007 (decesso in data 12 novembre 2007).
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, il C.S., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Il ricorrente, dopo aver ricostruito la vicenda processuale, con un primo motivo deduce inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità. Nello specifico, lamenta l'inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali rese da SA.C., riportando testualmente lo specifico motivo di impugnazione proposto in sede di gravame nel merito.
La deposizione del teste, avvenuta nell'immediatezza dell'evento per due volte, innanzi ai carabinieri e all'ispettore del lavoro, veniva interrotta essendo emersi indizi di reità per reato collegato alle violazioni contestate al C.S..
Il ricorrente si duole che, non essendo stato provato l'eventuale proscioglimento o condanna o altro provvedimento nei confronti del SA.C., lo stesso non poteva essere sentito come testimone, né il SA.C. aveva reso dichiarazioni sulla responsabilità di terzi, né veniva ascoltato con le forme della cosiddetta testimonianza assistita. Pertanto, le dichiarazioni risultavano inutilizzabili con conseguente inefficacia probatoria delle stesse.
La Corte distrettuale avrebbe erroneamente risposto alla doglianza sul punto che la difesa aveva prestato il consenso all'acquisizione del verbale di s.i.t. rese ai carabinieri 1'8/11/2007, ma, obietta il ricorrente, il motivo di impugnazione concerneva l'inutilizzabilità delle dichiarazioni e non l'acquisizione dell'atto, contenuto nel fascicolo del P.M., al fascicolo dibattimentale.
Tanto è vero che l'esame testimoniale veniva interrotto, a norma dell'art. 63 co.1 cod. proc. pen. per indizi di reità in riferimento all'art. 44 D.L.vo 626/94.
L'inutilizzabilità dell'atto - è la tesi proposta in ricorso- non può essere sanata dal consenso delle parti alla acquisizione delle S.I.T.
I giudici di merito non si sarebbero avveduti che l'addebito penale a carico del dichiarante è collegato all'accertamento del reato contestato al C.S. e, per tanto, il SA.C. avrebbe dovuto essere ascoltato con le garanzie previste dall'art. 167 bis cod. proc. pen., tra cui la facoltà di non deporre su fatti concernenti la propria responsabilità e quella di terzi.
Viene richiamata la giurisprudenza sul punto tra cui Sez. Un. 1282/1996.
Vengono poi riportate le dichiarazioni del SA.C. rese in dibattimento per evidenziarne la contraddittorietà con quelle rese nelle s.i.t., in particolare sull'orario in cui giungeva sul cantiere.
Si evidenzia, inoltre, la mancanza di credibilità delle dichiarazioni rese dal SA.C.. Del resto, l'impugnato provvedimento rilevando la contraddittorietà intrinseca della ricostruzione offerta dal SA.C., la giustifica attribuendola alla reticenza causata dal perdurare del rapporto di lavoro subordinato presso la ditta Edil C.S.. Ma tale rapporto di lavoro sarebbe frutto di una mera congettura, risultando dalla visura camerale, che la ditta aveva cessato ogni attività fin dal 2011.
Si dà conto anche della dichiarazione della S., evidenziandone la contraddittorietà in particolare sui lavori che stesse svolgendo il P.N..
Ci si duole della mancata verifica del valore probatorio delle dichiarazioni rese da entrambi i testi per la ricostruzione dell'evento mortale.
Secondo il ricorrente entrambi i testi erano interessati a nascondere la verità per interesse personale. Il SA.C. perché aveva lasciato il P.N. da solo durante il lavoro, invece di trattenere la scala, e non lo aveva avvisato di non scendere fino al suo ritorno, venendo meno a un obbligo giuridico, la cui omissione si pone in rapporto di causalità efficiente rispetto all'evento. La S. perché era la committente delle opere e quindi titolare di una posizione di garanzia.
Si evidenzia che il teste T., consulente di parte della difesa, dichiarava che la S. gli aveva riferito di aver chiesto al P.N. di pitturare la soletta.
Sul punto la corte di appello ritiene la circostanza non suffragata da adeguato riscontro, mentre, in realtà, non è mai stata smentita dalla S. che anzi riferiva che il P.N. le aveva detto di aver dimenticato di pitturare la soletta e che lo avrebbe fatto in seguito.
Con un secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di responsabilità del datore di lavoro.
Il ricorrente, dopo aver ricostruito le argomentazioni con cui i giudici del gravame del merito hanno supportato la conferma della sentenza di primo grado, enuncia i punti in cui la motivazione sarebbe viziata.
In primo luogo, i giudici di appello avrebbero completamente trascurato che, secondo la ricostruzione delle sommarie informazioni rese dal SA.C. e dal DM., il SA.C. e il P.N. stavano eseguendo dei ritocchi e che quest'ultimo stava pitturando la soletta mentre l'altro si allontanava per spostare il camion. La pitturazione doveva essere eseguita con una scala e dovevano essere approntati dispositivi di sicurezza anticaduta.
Tale emergenza probatoria dell'allontanamento del SA.C. al momento dell'incidente, sarebbe stata completamente trascurata, nonostante lo specifico motivo di gravame.
Il teste DM., ispettore del lavoro, ha chiarito che il lavoro di pitturazione della soletta avrebbe potuto svolgersi oltre che con l'utilizzo di ponteggio e impalcature anche con una scala con l'aiuto di una persona che la trattenesse.
Pertanto, se come affermato in sentenza, entrambi gli operai si erano recati sul cantiere per gli ultimi ritocchi, sarebbe logico ritenere che il C.S., datore di lavoro, aveva inviato due operai perché uno mantenesse la scala all'altro.
Ancora, si ritiene illogica la sentenza impugnata laddove affermando la mancata predisposizione di attrezzature adeguate e di analisi dei rischi ritiene che il pericolo sarebbe stato scongiurato con la previsione di un sistema di ancoraggio, con una cintura di sicurezza. Infatti, essendo stati rimossi i ponteggi perché i lavori erano stati ultimati e si trattava di ritoccare una soletta di un metro quadro, alla luce delle dichiarazioni dell'ispettore DM., la condotta del C.S. sarebbe immune da censure rispetto alle norme antinfortunistiche ritenute violate. di cui agli artt. 111, 113 e 115 D.L.vo 81/2008.
La Edil C.S. - prosegue il ricorso- aveva effettuato tutti i corsi di formazione e aveva fornito i dispositivi di sicurezza individuali redigendo un piano di sicurezza dettagliato ed adeguato alle lavorazioni da svolgere. Inoltre, SA.C. e P.N. erano operai esperti, conoscevano bene i luoghi ed erano forniti di tutti i dispositivi per la sicurezza, tra cui anche la cintura, come accertato anche dalla sentenza di primo grado. L'affermazione del mancato aggiornamento del piano di sicurezza, per i rischi sopravvenuti, sarebbe del tutto sganciata dalle emergenze probatorie e, pertanto, illogica.
La condotta del SA.C. di essersi allontanato dalla scala che avrebbe dovuto trattenere e quella del P.N. che non indossava la cintura agganciandosi ad un punto per evitare cadute, costituirebbero violazioni dell'art. 44 del D.L.vo 626/94, che impone di utilizzare i dispositivi per la sicurezza individuale conformemente alla formazione e informazione, non riconducibili alla condotta dell'imputato, non essendo ipotizzabile un obbligo di quest'ultimo di sorvegliare costantemente i propri operai. Nessun inadempimento sarebbe riconducibile, pertanto, al ricorrente che, richiamando nuovamente la deposizione del DM., evidenzia che la scala utilizzata era regolamentare e adeguata all'utilizzo, mentre il SA.C. al momento della caduta si era allontanato per spostare l'automezzo.
La stessa deposizione dell'ispettore dell'Asl smentirebbe l'assunto dei giudici di merito sull'inidoneità della scala all'effettuazione dei ritocchi in sicurezza.
Dalle risultanze processuali emergerebbe che il C.S. aveva rispettato tutti gli obblighi di sicurezza, mentre la Corte distrettuale, valutando erroneamente il quadro probatorio non attribuisce alcuna rilevanza alla condotta degli operai, i quali venivano meno, in maniera del tutto imprevedibile, anche in considerazione dell'età ed esperienza lavorativa al loro specifico dovere in tema di sicurezza sul lavoro.
Nel caso che ci occupa, perciò, l'evento mortale non sarebbe dipeso dalla mancata predisposizione di un ponteggio, ma dalla condotta del SA.C. che abbandonava la scala e del P.N. che non indossava la cintura di sicurezza.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata con i consequenziali provvedimenti di legge.
3. In data 9/1/2021 ha reso le proprie conclusioni scritte ex art. 23 co. 8 d.l. n. 137/2020 il P.G. presso questa Corte chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso, cui ha fatto seguito in data 20/1/2021 memoria a firma del difensore di C.S., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
Diritto
1. Il proposto ricorso è inammissibile in quanto il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello, e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata, senza in alcun modo sottoporle ad autonoma e argomentata confutazione. Ed è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; Sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693). E, ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Carialo e altri, Rv. 260608).
2. Quanto al primo motivo, peraltro, lo stesso è aspecifico.
Nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acqui siti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (cfr. Sez. 2, n. 30271/2017).
Ebbene, nella specie, tale onere non è stato osservato.
Peraltro, il tessuto motivazionale della sentenza impugnata non apparirebbe vulnerato anche qualora venisse espunta, come richiede il ricorrente, la testimonianza di SA.C..
Gli elementi centrali del fatto, che hanno portato alla condanna dell'odierno ricorrente, resisterebbero anche all'eventuale declaratoria di inutilizzabilità delle stesse.
3. Quanto agli altri motivi proposti, gli stessi sono manifestamente infondati, in quanto tesi ad ottenere una rilettura degli elementi di prova che non è consentita in questa sede.
Il ricorrente propone gli stessi motivi già proposti in sede di appello, sui quali la corte di appello ha ampiamente e logicamente motivato.
Con motivazione logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto -e che si sottrae, pertanto, ai denunciati vizi di legittimità- i giudici di merito hanno ritenuto determinante il mancato aggiornamento delle misure poste a presidio dell'incolumità dei dipendenti, essendo stati smontati i ponteggi.
Come pacificamente emerso nel dibattimento il cantiere era stato smantellato e i ponteggi erano già stati portati via unitamente alle altre attrezzature.
Correttamente è stato ritenuto che non vi sia stata un'adeguata valutazione dei pericoli legati ai lavori di rifinitura ancora da eseguire.
La circostanza che il datore di lavoro abbia adempiuto al suo dovere di formazione e informazione ed abbia inizialmente fornito le attrezzature di sicurezza, non lo esimeva da responsabilità, allorquando le stesse attrezzature erano state ormai portate via, prima che i lavori fossero del tutto completati. Del resto dal verbale dei Carabinieri, intervenuti sul posto al momento dell'incidente, risulta che nessun presidio di sicurezza venne trovato sul posto.
Il C.S. avrebbe dovuto prevedere che per l'effettuazione delle ultime rifiniture, in particolare per la pitturazione della soletta posta a 3,90 metri di altezza non potesse essere sufficiente una scala allungabile, senza alcun altro presidio di sicurezza, oltre all'eventuale aiuto del compagno, che come poteva essere prevedibile si allontanava dalla scala.
Non corrisponde al vero che l'impugnata sentenza non abbia valutato l'esistenza di eventuali altre responsabilità e corresponsabilità nella produzione dell'evento del SA.C. e della S., che sono state correttamente escluse, per il primo non sussistendo alcuna attività delegatagli per la sicurezza e per la seconda in quanto l'attività svolta dagli operai rientrava nell'appalto stipulato con la ditta del C.S.. Parimenti la Corte distrettuale ha escluso l'esistenza di un comportamento imprevedibile del lavoratore.
Ebbene, con il ricorso sono state proposte censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio e dell'attribuzione dello stesso alla persona dell'imputato, che non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.
4. Il ricorso, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità.
La Corte territoriale aveva già chiaramente confutato, nel provvedimento impugnato la tesi oggi riproposta.
Il ricorrente deduce di aver fornito i dispositivi di protezione individuale al lavoratore, senza confrontarsi con il punto della decisione secondo cui sul posto non fu rinvenuta alcuna cintura e nemmeno con il rilievo che la mancanza di tale dispositivo è decisiva, in quanto solo il suo uso avrebbe potuto evitare la caduta, essendo irrilevante la regolarità della scala invocata dal ricorrente.
Lo svolgimento di un'adeguata attività di formazione ed informazione con conseguente abnormità della manovra svolta dal lavoratore viene apoditticamente invocato, mentre alcuna censura viene mossa al punto della sentenza secondo cui era mancata una previa analisi dei rischi.
Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia di secondo grado, il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell'ennesimo giudice del fatto.
5. La sentenza impugnata si colloca nell'alveo della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, ha l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 dep. il 2015, attino, Rv. 263200). E, ancora, va qui ribadito che, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione (così questa Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253850 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la responsabilità del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose nonostante fosse stata dedotta l'esistenza di un preposto di fatto).
Costante giurisprudenza di legittimità, ha anche affermato il principio che, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori l'osservanza delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (così, ex multis, Sez. 4 n. 37986 del 27/6/2012, Battafarano, Rv. 254365, che, in applicazione del principio di cui in massima ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità - in ordine al reato di cui all'art. 590, comma terzo, cod. pen. - dell'imputato, legale rappresentante di una s.a.s., per non avere adeguatamente informato il lavoratore, il quale aveva ingerito del detersivo contenuto in una bottiglia non contrassegnata, ritenendo trattarsi di acqua minerale; conf. Sez. 4, n. 3787 del 17/10/2014 dep. 2015, Bonelli Rv. 261946 in un caso in cui la Corte ha ritenuto non abnorme il comportamento del lavoratore che, per l'esecuzione di lavori di verniciatura, aveva impiegato una scala doppia invece di approntare un trabattello pur esistente in cantiere).
Inoltre, è altrettanto pacifico che non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (così questa Sez. 4, n. 7364 del 14/1/2014, Scarselli, Rv. 259321 relativamente ad una fattispecie relativa alle lesioni "da caduta" riportate da un lavoratore nel corso di lavorazioni in alta quota, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto configurabile la responsabilità del datore di lavoro che non aveva predisposto un'idonea impalcatura - "trabattello" - nonostante il lavoratore avesse concorso all'evento, non facendo uso dei tiranti di sicurezza).
Non è configurabile, in altri termini, la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l'infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli (Sez. 4, n. 22813 del 21/4/2015, Palazzolo, Rv. 263497). Ciò perché il datore di lavoro quale responsabile della sicurezza gravato non solo dell'obbligo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente la loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro" (vedasi anche questa Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 dep. il 2015, Ottino, Rv. 263200). E, qualora sussista la possibilità di ricorrere a plurime misure di prevenzione di eventi dannosi, il datore di lavoro è tenuto ad adottare il sistema antinfortunistico sul cui utilizzo incida meno la scelta discrezionale del lavoratore, al fine di garantire il maggior livello di sicurezza possibile Sez. 4, n. 4325 del 27/10/2015 dep. il 2016, Zappalà ed altro, Rv. 265942).
Di rilievo anche il recente dictum di Sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018 dep. 2019, Musso, Rv. 275017 che ribadisce che la condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell'ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (in quel caso la Corte di legittimità ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro per le lesioni riportate da un lavoratore che, per sbloccare una leva necessaria al funzionamento di una macchina utensile, aveva introdotto una mano all'interno della macchina stessa anziché utilizzare l'apposito palanchino di cui era stato dotato).
Ribadendo il concetto di "rischio eccentrico" altra recente pronuncia (Sez. 4 n. 27871 del 20/3/2019, Simeone, Rv. 276242) ha puntualizzato che, perché possa ritenersi che il comportamento negligente, imprudente e imperito del lavoratore, pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate, costituisca concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l'evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante (si trattava di un caso di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro in quanto la mancata attuazione delle prescrizioni contenute nel POS e la mancata informazione del lavoratore avevano determinato l'assenza delle cautele volte a governare anche il rischio di imprudente esecuzione dei compiti assegnati al lavoratore infortunato).
6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della san zione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €3000 in favore della cassa delle ammende.