Cassazione Penale, Sez. 4, 09 luglio 2021, n. 26151 - Morte del lavoratore affetto da epilessia. Prescrizioni del medico competente e normativa privacy
Fatto
1. Con sentenza del 16 settembre 2019 la Corte di Appello di L'Aquila ha confermato la sentenza del Tribunale di Vasto con cui A.B., F.D. e G.D. sono stati assolti con la formula 'perché il fatto non sussiste' dal reato di cui all'art. 589 comma secondo cod. pen., loro ascritto dall'imputazione per avere cagionato, nelle loro qualità, rispettivamente di dirigente della Pilkington Italia s.p.a., preposto e preposto diretto dello stabilimento aziendale di San Salvo (Chieti), la morte del lavoratore D.DF., perché con imprudenza, negligenza ed imperizia, ed in violazione di norme di prevenzione e sicurezza dei luoghi di lavoro ed in particolare dell'art. 64, comma 1, lett. c) ed e) d.lgs. 81/2008, consentivano e tolleravano l'utilizzazione da parte dei dipendenti di un'area di produzione dismessa, quale zona franca per fumare, in pessime condizioni igieniche e microclimatiche, caratterizzata da alte temperature, senza informare i diretti superiori, non impedendo che D.DF., affetto da epilessia e garantito da prescrizioni medico aziendali che non consentivano, fra l'altro, il lavoro in ambiente confinato, vi accedesse, ed ivi colto da crisi, probabilmente favorita dall'alta temperatura, fosse ritrovato solo dopo due ore, in stato di coma, decedendo dopo nove giorni per progressiva ed ingravescente disfunzione multiorgano e coagulopatia intravascolare disseminata, secondaria a coma post-epilettico prolungato.
2. La sentenza di primo grado ha ricostruito come segue: il lavoratore D.DF.,. dipendente della Pilkington Italia, presso lo stabilimento di San Salvo, con mansioni di addetto al controllo nel reparto CRS, destinatario in quanto affetto da epilessie, pur ritenuto abile al lavoro ed alle mansioni, di prescrizioni inerenti al divieto di lavoro notturno, al divieto di lavoro in ambienti confinati o in solitario, al divieto di lavoro in quota o su carrelli, il giorno 13 luglio 2014, intorno alle ore 8 si allontanava dalla sua postazione. Intorno alle ore 9.00, il collega A.F., non vedendolo tornare cominciava a cercarlo, verificando anche che egli non si fosse introdotto nel box della vecchia linea di produzione, ma avendo ritrovato la porta chiusa con un lucchetto, ed avendo visto che all'interno era tutto buio, si metteva a cercarlo altrove. Allertati, altri dipendenti cominciavano le ricerche, che si concludevano dopo un'ora, quando D.DF. veniva rinvenuto, in stato di coma, all'interno dell'area dismessa 'ex area applicazione film antilacerante', e precisamente in un locale cui si accedeva da una porta del box ove il collega A.F. lo aveva cercato un'ora prima, chiusa con un lucchetto, che, tuttavia, presentava un pannello inferiore manomesso. Il coma anossico, determinato dalla crisi epilettica induceva la disfunzione multiorgano che conduceva D.DF. alla morte. Il tribunale ha assolto gli imputati per insussistenza del fatto, osservando che D.DF. era normalmente adibito a due diverse postazioni e gli era assicurata una certa libertà di movimento, proprio in ragione della sua malattia; dalla lettura complessiva del fascicolo delle indagini preliminari era risultato che l'area nella quale D.DF. era stato ritrovato fosse un'area completamente dismessa, ove non era presente alcuna fonte di calore; che i testimoni hanno riferito che D.DF. presentava una temperatura corporea elevata, ma nulla hanno riferito sulla temperatura dell'ambiente in cui fu rinvenuto; che non è emerso dagli atti che gli imputati avessero saputo e tollerato l'uso da parte dei lavoratori dell'area, non essendo risultato che altri, oltre al D.DF. si fossero sistematicamente introdotti all'interno del locale; che non è stato possibile accertare se un intervento più tempestivo avrebbe, con ragionevole certezza, evitato l'evento morte o ridotto la significatività dell'evento lesivo; che non è stato possibile ricostruire quando egli abbia avuto l'attacco epilettico, quando sia entrato in coma e come abbia influito il fattore tempo sullo stato comatoso accertato; che nessuna indagine è stata svolta sulla sussistenza del nesso causale fra la condotta omissiva contestata e l'evento morte. Il Tribunale ha, inoltre, considerato che D.DF. manomettendo il pannello, in modo che ciò non fosse visibile, aveva posto in essere un comportamento che, di per sé , aveva costituito un ostacolo alle ricerche; che il datore di lavoro aveva ottemperato alla prescrizioni impartite dal medico in relazione alla prestazione lavorativa, consistenti nel non adibire il lavoratore al lavoro notturno, al lavoro in quota o su carrelli, al lavoro in ambiente confinato o in solitario. Invero, D.DF. operava in ambiente aperto, in postazioni che potevano essere monitorate dai colleghi di lavoro, da una delle quali si era allontanato senza motivo noto o plausibile, per recarsi in un ambiente totalmente chiuso, manomettendo un pannello per entrarvi. Egli aveva, pertanto, messo in atto un comportamento abnorme ed imprevedibile dal datore di lavoro, cui non era richiesto di tenere il lavoratore sotto controllo continuo e costante, ma solo di non contravvenire alle prescrizioni impartite, cui aveva regolarmente adempiuto. Il datore di lavoro, dunque, non aveva posto in essere alcuna condotta omissiva e mancava, in ogni caso, il nesso causale con la morte del lavoratore.
3. La Corte di appello, confermando la sentenza di primo grado, ha ripercorso il compendio probatorio inerente alla ricostruzione del fatto, ribadendo le modalità di accadimento come accertate dal primo giudice. Indi si è soffermata sull'assenza della condotta colposa ascritta, rilevando che, pur non potendo escludersi che altri, oltre a D.DF., avessero frequentato l'area in questione, nondimeno, nessuna prova era stata raggiunta sulla conoscenza di detto uso improprio da parte della dirigenza, né tantomeno che il fatto fosse tollerato, tanto che il collega A.F., nel corso delle sue ricerche, neppure si era accorto della manomissione del pannello. Ciò, secondo la Corte, fa venir meno la contestazione della violazione dell'art. 64, lett. c) ed e) d.lgs. 81/2008, inerente alla salvaguardia delle condizioni igieniche dei luoghi di lavoro. Così come è da escludere la violazione dell'art. 19, lett. f) d.lgs. 81/2008, non essendo in alcun modo dimostrato che la dirigenza - e quindi gli imputati- fossero a conoscenza dell'utilizzo di quel locale, chiuso con una porta recante un lucchetto. Quanto alla contestazione dell'omessa vigilanza sul lavoratore affetto da epilessia, la Corte territoriale ha sottolineato che l'ambiente lavorativo nel quale operava D.DF. non poteva dirsi ambiente confinato, Nessuna negligenza nel sistema organizzativo aziendale, né alcuna omissione di vigilanza sul lavoratore, è dunque configurabile, sicché non sussistono le condotte omissive contestate, il che di per sé è sufficiente ad escludere il reato. La Corte, peraltro, affronta anche il profilo del nesso causale, concludendo, come il primo giudice, sulla sussistenza del comportamento abnorme del lavoratore, consistito nell'introdursi, nel corso dell'orario di lavoro, in un'area chiusa, il cui accesso era precluso da una porta bloccata con un lucchetto, provvedendo a rimuovere un pannello, senza alcuna ragione plausibile.
4. Avverso la sentenza della Corte di appello propone ricorso per cassazione la parte civile, a mezzo del suo difensore, formulando un unico articolato motivo.
5. Con la doglianza fa valere la violazione della legge penale ed il vizio di della marifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, nonché l'erronea valutazione delle risultanze istruttorie ed il travisamento del fatto. Ricorda che D.DF. era stato ritenuto idoneo al lavoro, con il divieto di svolgere lavorazioni in solitario o in ambiente confinato. Ricorda che A.F. ha raccontato che la mattina del fatto egli aveva lavorato con D.DF. sino alle ore 7.45, quando si era allontanato dalla propria postazione per qualche minuto. Al suo ritorno non aveva trovato D.DF., ma non si era preoccupato dell'assenza del collega, nonostante questa si fosse prolungata, non essendo a conoscenza della sua patologia, posto che lavorava in quella postazione solo da alcuni giorni, tanto è vero che si era recato a cercarlo, anche nei pressi dell'area box, solo per curiosità. Al contrario, M.DS., cui era nota la patologia di D.DF., avvedendosi pochi minuti prima delle dieci, della sua assenza, dopo avere chiesto a A.F. dove fosse, informava subito la collega P.P., che, allarmatasi, si recava immediatamente nei pressi del vecchio box, avvedendosi del pannello inferiore della porta aperto, e dopo aver chiamato a gran voce D.DF., lo rinveniva a terra, in stato di incoscienza. Dunque, il primo giudice, secondo il quale, dopo l'intervento di A.F., si sarebbero intensificate per due ore consecutive, risultando comunque difficoltose per la peculiarità dell'area, chiusa a terzi e buia, oltre che di notevoli dimensioni, non rifletterebbe quanto riferito dai testimoni. La Corte, inoltre, nel ripetere la medesima valutazione, in modo avulso dalla realtà processuale, avrebbe ritenuto insussistente l'omessa vigilanza sul lavoratore, considerando non previsto il monitoraggio costante del medesimo. E ciò senza tenere conto delle importanti limitazioni previste alla sua prestazione, né del fatto che il medesimo non poteva lavorare in solitario e che al suo fianco era stato posto, da pochi giorni, un operaio non a conoscenza delle sue condizioni di salute, il che deve ritenersi equivalente al lavoro 'in solitario'. L'assenza di attenzione della società, inoltre, era ricavabile anche dalla deposizione del teste M., secondo cui l'area cui era assegnato D.DF. 'era particolarmente libera' e che al medesimo venivano riconosciute libertà di movimento e possibilità di fruire di lunghe pause, perché i controlli sulla sua produttività venivano effettuati solo a fine turno. Osserva che se si ritiene che non vi fosse onere di vigilanza da parte dei colleghi, ciò significa che il lavoratore non veniva sottoposto a sorveglianza alcuna, tanto è vero che solo casualmente il collega M.DS. si avvedeva della sua assenza. Dunque, l'area nella quale operava D.DF., per l'assenza di controlli è da ritenersi 'ambiente confinato' e la prestazione del medesimo 'lavoro in solitario', non essendo prevista neppure la presenza di un team leader che si occupasse di gestire le pause ed effettuare i controlli sulle singole postazioni di lavoro. Ciò, nondimeno, dimostra la negligenza del sistema organizzativo aziendale, apoditticamente liquidata dai giudici di merito con l'assenza della previsione di un obbligo di controllo continuativo del dipendente. Sostiene che la contraddittorietà della motivazione risulta evidente laddove si consideri che la ricostruzione dell'ambiente come non confinato, perché D.DF. lavorava a fianco di altri lavoratori, collide con quella per cui i medesimi non avevano onere di controllo su di lui. Sottolinea che la stessa adibizione di D.DF. a due postazioni diverse, di cui una non visibile da A.F. -che infatti ha riferito di avere pensato che il collega si fosse recato proprio all'altra postazione- dimostra la negligenza del datore di lavoro e dei suoi preposti nell'organizzazione dell'impresa e nella vigilanza sul lavoratore affetto da così grave patologia, che ha reso possibile che la sua assenza perdurasse per un tempo così lungo, senza alcuna allerta. Sostiene che, inoltre, dalla documentazione fotografica è emerso che l'area box si trovava in stato di estremo degrado, con la presenza di stracci, sigarette, rifiuti organici e che il fatto che fosse accessibile è dimostrato dalla circostanza che i lavoratori M.DS. e P.P. abbiano cercato D.DF. proprio lì e che P.P. abbia visto il pannello aperto, non notato da A.F., che lavorava nel settore da pochi giorni. Né appare possibile che M.DS. e P.P. intendessero controllare solo la parte antistante la porta chiusa con il lucchetto, dove gli operai lasciavano borse ed effetti personali, perché A.F. non poteva non avere riferito di aver già controllato •il locale. La ricostruzione dei giudici di merito che non tiene conto del reale contenuto delle dichiarazioni dei lavoratori -ed in particolare di quella di A.F., secondo il quale P.P. conosceva il passaggio segreto della porta, costituito dal pannello inferiore rimosso- e si appalesa, pertanto, contraddittoria rispetto al compendio probatorio acquisito, risultando chiaro che la possibilità di accesso al locale in cui trovato D.DF. era nota ad una pluralità di lavoratori, il che dimostra la negligenza aziendale nell'assicurare le condizioni igienico sanitarie del luogo di lavoro, avendo tollerato un simile utilizzo del locale. Conclude per l'annullamento della sentenza impugnata.
6. Con requisitoria scritta, ai sensi dell'art. 23, comma 8 d.l. 137/2020 il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
7. Con memoria difensiva ritualmente depositata A.B., a mezzo del suo difensore, chiede pronunciarsi l'inammissibilità del ricorso, o, subordinatamente il suo rigetto. Fa valere l'inammissibilità per genericità dei motivi, prospettanti una mera lettura alternativa del compendio probatorio; per difetto di interesse, essendo le sentenze sostenute da plurime ragioni, ciascuna fondante il verdetto assolutorio, avendo i giudici di merito affermato l'assenza di condotte colpose in capo agli imputati, ma anche la sussistenza di un comportamento abnorme del lavoratore, aspetto quest'ultimo con il quale la parte civile ha omesso il confronto. Deduce, comunque, l'infondatezza del ricorso, sottolineando che le cause della morte del lavoratore non sono state identificate con certezza, neppure essendo stato accertato se un intervento più tempestivo avrebbe potuto evitarne la morte.
8. Con distinte memorie difensive, entrambe ritualmente depositate F.D. e G.D., formulano considerazioni del medesimo contenuto e concludono per l'inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del ricorso.
Diritto
1. Il ricorso deve essere rigettato.
2. In primo luogo, il confronto o di impugnazione ed il testo della sentenza qui impugnata consente di constatare che le censure proposte in questa sede altro non sono che la ripetizione di quelle già oggetto del precedente gravame. La giurisprudenza di legittimità ha, invero, chiarito in plurime occasione come sia inammissibile per genericità "il ricorso per cassazione che riproduce e reitera gli stessi motivi prospettati con l'atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione. (Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970) e ciò perché la pedissequa reiterazione dei motivi già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, non assolve la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso" (Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014 - dep. 28/10/2014, Carialo e altri, Rv. 260608; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 6, n. 34521 del 27/06/2013, Ninivaggi, Rv. 256133; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009 , Amone e altri, Rv. 243838).
3. La critica alla sentenza impugnata, si realizza, infatti, attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.
4. Si tratta di un principio generale, enunciato per tutte le forme di impugnazione che debbono enucleare in modo specifico il vizio denunciato esponendo le ragioni della sua decisività rispetto al percorso logico-giuridico seguito dal provvedimento impugnato, in modo da chiarire il contenuto della violazione di legge od il vizio di motivazione, che se eliminati secondo conducono ad una decisione nel senso richiesto.
5. Ciò spiega perché se il motivo di ricorso in sede di legittimità si limita a ripetere quanto già chiesto al giudice precedente, riproponendo le medesime doglianze fallisce lo scopo dell'impugnazione, perché non critica la decisione che ne forma oggetto, che diviene indifferente rispetto alla stessa richiesta, ma quella del grado precedente. Questo di per sé giustifica l'inammissibilità del ricorso.
6. Nondimeno, neppure superando siffatto motivo di inammissibilità, può darsi ingresso alla valutazione della fondatezza della censura e ciò perché, come di recente ribadito: "Anche a seguito della modifica apportata all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito" (ex multis: Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; Sez. 3, n. 38431 del 31/01/2018 - dep. 10/08/2018, Ndoja, Rv. 273911).
7. Ora, la doglianza proposta, pur molto articolata, consiste proprio nella richiesta di un nuovo vaglio del materiale probatorio, rivolto alla verifica dell'erroneità della ricostruzione dei giudici di merito, per effetto della rilettura delle deposizioni testimoniali, rese in sede di indagini preliminari, nonché della deposizione del teste M., cui era stata condizionata la richiesta di giudizio abbreviato.
8. Nemmeno qualificando il motivo, introdotto come vizio di motivazione per travisamento del fatto derivante dalla 'erronea valutazione delle prove e non adeguata valutazione delle risultanze istruttorie', quale censura relativa al travisamento della prova -perché in tal modo sembra argomentare il ricorso nello svolgimento della doglianza, nonostante la diversa intitolazione- è possibile esaminarne il contenuto, posto che le dichiarazioni testimoniali che si intendono fraintese non sono state allegate al ricorso in esame.
9. D'altro canto, va ricordato che "Nell'ambito dei motivi di ricorso per cassazione, con riferimento all'ipotesi di cd. "doppia conforme", pur quando il giudice dell'impugnazione abbia preso in considerazione, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice, sussiste comunque la preclusione alla deducibilità del vizio di travisamento della prova di cui all'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., in relazione a quelle parti della sentenza che abbiano esaminato e valutato in modo conforme elementi istruttori, suscettibili di autonoma considerazione, comuni al primo ed al secondo grado di giudizio. (Sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017 Cadore, Rv. 269906). Nel caso di specie, ciò che si contesta è proprio ciò che non può essere dedotto in questa sede, nei termini nei quali viene dedotto.
10. Ciò posto, in ordine ai profili di ricostruzione del fatto, occorre soffermarsi su altri due aspetti che vengono sollevati dalla censura.
11. Il primo è inerente la configurabilità della condotta omissiva descritta nell'imputazione, riguardante l'omessa vigilanza sul lavoratore, pur essendo la sua attività soggetta ad una serie di prescrizioni a tutela del suo stato di salute.
La condotta sarebbe consistita nell'avere collocato il lavoratore in un'area che non consentiva un controllo costante sul medesimo, il quale, infatti, aveva potuto allontanarsi indisturbato, senza che la sua assenza, pur prolungata, destasse preoccupazione per un lungo periodo di tempo.
Ora, la questione involge due profili.
L'uno riguardante gli obblighi del datore di lavoro, a fronte della conoscenza di un problema grave di salute del lavoratore e del contenuto delle prescrizioni del medico del lavoro, subordinanti l'idoneità al lavoro e la prestazione dell'attività.
L'altro inerente all'asserito obbligo di coinvolgere altri lavoratori nella sorveglianza delle condizioni di salute di un dipendente, anche tenendo conto della normativa in ordine alla privatezza dei dati sensibili.
12. Nel caso di specie, infatti, la prescrizione del medico del lavoro -che pure ha dichiarato idoneo il lavoratore allo svolgimento delle mansioni affidategli comprendeva disposizioni non solo sul tipo di prestazione (divieto di lavoro in quota o su carrelli), ma sulla conformazione dei locali nei quali detta attività doveva essere prestata, essendo stata formulata la prescrizione di non adibire il lavoratore ad attività in 'ambiente confinato', e sulla modalità, essendo previsto che egli non svolgesse lavori 'in solitario'.
Ebbene, deve ritenersi che le prescrizioni mediche sullo svolgimento della prestazione lavorativa, sono rivolte a rendere compatibile la condizione soggettiva del lavoratore con le esigenze produttive del datore di lavoro, al fine di consentire al primo di intraprendere e proseguire l'attività lavorativa, nonostante le deteriorate condizioni di salute, ed al secondo di limitare le modifiche dell'organizzazione del lavoro alle prescrizioni imposte, in modo da assicurare il diritto alla salute del lavoratore, ma anche l'utilità della prestazione lavorativa.
Peraltro, iniziative che oltrepassino le prescrizioni imposte dal medico del lavoro costituiscono per il datore di lavoro l'assunzione di fatto di un rischio, generatore di responsabilità, laddove esse si rivelino dannose per la salute fisica o psichica del lavoratore.
Dunque, non può ritenersi imposto al datore di lavoro alcun altro obbligo se non quelli prescritti, né è possibile ipotizzare alcuna estensione applicativa dei medesimi, se non a costo di far assumere al datore di lavoro responsabilità ulteriori non rientranti fra quelle espressamente previste.
Fatta questa precisazione, occorre chiedersi che cosa significhi 'ambiente confinato', muovendo dal significato dell'aggettivo, di 'chiuso entro confini' ovverosia isolato o relegato, o ancora, in senso trasposto, appartato o lontano. Un ambiente cioè che non presenta comunicazioni con altri, che non consente di rapporti, relazioni o interventi.
Il divieto di lavoro 'in solitario' non si sovrappone a quello di lavoro in ambiente non confinato, ben potendo un luogo che consente comunicazione con altri prevedere postazioni non visibili a terzi e pertanto 'solitarie', nel senso di 'separate' dalle altre.
Così definiti i termini, appare corretta l'interpretazione data dai giudici di merito, secondo i quali l'ambiente nel quale operava il lavoratore non era 'confinato', trattandosi di luogo in cui erano presenti più dipendenti. Tanto è vero che proprio un collega di lavoro si accorse che l'assenza di D.DF. si prolungava oltre un tempo compatibile con un allontanamento non sospetto.
Né è possibile prendere in considerazione la contestazione formulata dalla parte civile secondo la quale, benché in luogo non confinato, il lavoratore che operava su due postazioni all'interno dello stesso ambiente, potesse considerarsi addetto ad un lavoro 'in solitario', non essendo la seconda visibile da altri dipendenti, pur operanti nel medesimo luogo. E ciò, non solo perché non risulta dalle sentenze, ma perché, per le ragioni supra esposte, si tratta di una circostanza che non può essere vagliata in questa sede.
13. Viene, a questo punto, in esame il secondo aspetto, relativo alla possibilità, per il datore di lavoro, di esigere da altri lavoratori di assicurare la sorveglianza sul lavoratore affetto da patologie, che quando si manifestino impongano un pronto intervento. La parte civile, infatti, sostiene che siffatto dovere sia una declinazione dell'obbligo di non adibire il lavoratore ad attività in 'ambiente confinato' arrivando ad ipotizzare la necessità del suo affiancamento continuo, o della necessità di affidare il reparto nel quale il medesimo operava ad un 'team leader'.
14. Ebbene, la predisposizione di una simile organizzazione lavorativa richiede, in primo luogo, che terzi soggetti, i colleghi di lavoro appunto, siano messi a parte, proprio dal datore di lavoro delle informazioni sullo stato di salute del lavoratore. Ciò, nondimeno, implica, ai sensi dell'art. 26 del c.d. Codice della Privacy, che l'interessato esprima per iscritto il suo consenso alla diffusione dei dati sanitari in possesso del datore di lavoro, non essendo a questi consentito diffonderli autonomamente, neppure ai sensi dell'art. 24 del medesimo codice, nella versione vigente all'epoca del fatto, secondo cui la diffusione per la salvaguardia dell'incolumità del soggetto interessato è consentita solo con il suo consenso, o nell'impossibilità di ottenerlo, con il consenso di soggetti quali l'esercente legale della potestà o un prossimo congiunto. Ciò è ribadito dall'art. 51 delle linee guida emesse dal Garante della privacy, vigenti all'epoca, secondo cui "La conoscenza dei dati personali relativi ad un lavoratore da parte di terzi è ammessa se l'interessato vi acconsente" rimanendo impregiudicata la facoltà del datore di lavoro di disciplinare le modalità del proprio trattamento designando i soggetti, interni o esterni, incaricati o responsabili del trattamento, che possono acquisire conoscenza dei dati inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, in relazione alle funzioni svolte e a idonee istruzioni scritte alle quali attenersi (artt. 4, comma 1, lett. g) e h), 29 e 30). Ma nulla autorizza a diffondere notizie sulla salute del lavoratore ai colleghi che operino con il medesimo.
15. Né, tantomeno, è possibile ipotizzare che la 'sorveglianza' su un collega rientri fra gli obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, sicché non è possibile da parte del datore di lavoro neppure richiedere una simile prestazione. Del tutto fuorviante, dunque, è l'assunto della parte civile, secondo il quale il datore di lavoro avrebbe dovuto informare i colleghi che operavano con D.DF., affinché lo sorvegliassero adeguatamente, e pretendere da loro siffatto costante controllo.
16. E qui, si ritorna alle prescrizioni impartite dal medico al datore di lavoro sulla conformazione dell'attività del lavoratore alla sua patologia. Invero, la disposizione relativa all'ambiente 'non confinato' ed alla modalità non 'in solitario', sono rivolte -proprio tenendo conto della non esigibilità della sorveglianza continuativa del lavoratore da parte dei colleghi ed al divieto di rendere nota la patologia senza il consenso dell'interessato- a porre il lavoratore in una condizione di 'visibilità' da parte dei terzi, essendo ovvio che allorquando un collega di lavoro si sente male e perde i sensi, come accade nelle crisi epilettiche del tipo descritto, è immediato l'allarme di coloro che lavorano nelle vicinanze.
17. Questa prescrizione imposta al datore di lavoro è, dunque, quella di apprestare una postazione lavorativa che consente di 'favorire' il soccorso, non certo quella di 'sorvegliare continuativamente' l'interessato, ponendogli accanto un 'lavoratore sentinella', che lo segua ovunque egli ritenga di recarsi, nel corso della giornata lavorativa.
18. Anche in questo caso, pertanto, deve ritenersi esclusa la condotta ascritta.
19. In relazione, infine, all'ultima contestazione introdotta dalla parte civile, inerente all'utilizzo del box, da parte dei lavoratori ed alla condizione di insicurezza, anche igienica nella quale il locale versava, non può - anche qui che richiamarsi quanto in precedenza osservato sui limiti del sindacato del giudice di legittimità in ordine alla ricostruzione del fatto. Ed invero, per verificare quanto sostenuto dalla parte civile, in ordine alla conoscenza ed utilizzazione dell'area da parte di una pluralità di lavoratori sarebbe necessario un nuovo vaglio delle dichiarazioni testimoniali, precluso in questa sede.
20. Ma, in ogni caso, la sentenza impugnata, pur escludendo in radice la sussistenza delle condotte colpose ascritte agli imputati, sottolinea comunque l'abnormità della condotta del lavoratore che, consapevole della sua malattia, si allontana dalla sua postazione per recarsi in un luogo appartato, buio e molto difficile da raggiungere, sinanco nascosto, senza avvertire nessuno e per ragioni ignote. Con queste considerazioni, nondimeno, il ricorso non si confronta.
21. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 14/1/2021