Cassazione Penale, Sez. 4, 01 ottobre 2020, n. 27237 - Infortunio nella ditta di lavorazione pellami e responsabilità del datore di lavoro. Prescrizione
La Corte di appello di Venezia il 13 settembre 2018 ha integralmente confermato la sentenza con cui il Tribunale di Vicenza il 3 febbraio 2017, all'esito del dibattimento, ha riconosciuto M.M. responsabile del reato di lesioni colpose gravi nei confronti del lavoratore dipendente S.O., con violazione della disciplina antinfortunistica, fatto commesso 1'8 novembre 2011, in conseguenza condannandolo, senza il riconoscimento di circostanze attenuanti, alla pena - condizionalmente sospesa - di quattro mesi di reclusione.
2. Il fatto, in sintesi, come ricostruito concordemente dai giudici di merito. L'8 novembre 2011 M.M., legale rappresentante della s.r.l. "Spaccatrice M.M." con oggetto lavorazione di pellami e, dunque, datore di lavoro dell'operaio dipendente, stava personalmente manovrando il braccio del caricatore idraulico ("ragno") con il quale si appoggiavano le pelli in un cassone per poi essere successivamente pressate: avendo M.M. abbandonato temporaneamente le leve di manovra ed essendosi per errore una di esse infilata nel giubbotto dell'agente, il braccio del caricatore idraulico ha colpito S.O., il quale, attendendo il caricamento del cassone per azionare la pressa, si trovava in piedi sulla pedana nel raggio di azione della pressa, cagionando allo stesso lesioni politraumatiche guarite in 115 giorni.
Si è ritenuto, in buona sostanza, che il datore di lavoro, oltre all'errore di manovra allo stesso direttamente addebitabile e causativo dell'infortunio, abbia, "a monte", omesso in concreto di rispettare in prima persona e di fare rispettare le misure organizzative, pur astrattamente previste dall'azienda (nel piano di valutazione dei rischi), atte ad evitare che i lavori si trovassero in situazione di pericolo in prossimità della zona di lavorazione.
3. Ricorre per la cassazione della sentenza l'imputato, tramite difensore di fiducia, affidandosi a cinque motivi con i quali denunzia violazione di legge (il primo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo) e difetto di motivazione (tutti).
3.1. Con il primo motivo, in particolare, lamenta violazione degli artt. 500, 512, 526, 191 e 192 cod. proc. pen., inosservanza di norme stabilite a pena di nullità ed inutilizzabilità e, nel contempo, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla dichiarazione di irreperibilità della persona offesa ed alla conseguente acquisizione ed utilizzazione delle dichiarazioni rese dalla stesse nel corso delle indagini ed alla omessa valutazione circa la attendibilità della testimonianza resa in udienza, anche a seguito delle contestazioni, da un collega dell'infortunato, S.S..
Premette il ricorrente di avere già censurato con l'atto appello la ritenuta illegittimità dell'acquisizione delle sommarie informazioni testimoniali rese dalla persona offesa sulla base di una irreperibilità che si ritiene essere stata non verificata e non motivata, l'avere trascurato il reale contributo conoscitivo del teste S.S., la ritenuta inattendibilità delle fotografie, scattate anni dopo l'infortunio, e «l'omessa illegittima ed immotivata considerazione di tutte quelle risultanze probatorie agli atti, sia documentali che orali che, di fatto, ricostruivano la dinamica dell'infortunio in modo diverso da quello indicato in sentenza escludendo la sussistenza del reato ascritto e comunque la responsabilità dello stesso in capo all'imputato o comunque dimostravano un importante concorso di colpa da parte dell'infortunato, valutabile anche ai fini della concessione delle attenuanti generiche e della diminuzione della pena» ( così alla p. 3 del ricorso) e di avere già sostenuto che la causa dell'incidente è da rinvenirsi esclusivamente nel comportamento abnorme ed imprevedibile della persona offesa. Ricostruita, quindi, quella che la difesa sostiene essere la effettiva dinamica dell'infortunio, ritiene che nell'occasione l'imputato si sia comportato con le consuete diligenza, prudenza e perizia e, richiamata la motivazione della sentenza impugnata, sottopone la stessa a censura.
La Corte di merito non avrebbe spiegato la effettuazione di previe rigorose ricerche per accertare lo stato di irreperibilità della persona offesa, presupposto per l'acquisizione delle dichiarazioni rese nelle indagini, peraltro a distanza di cinque mesi dall'infortunio, non avrebbe verificato che sia da escludersi che la causa della irreperibilità derivi da una libera scelta, non avrebbe dato atto della esistenza di idonei elementi di conferma dell'attendibilità delle stesse, così violando gli artt. 512, 526 e 192 cod. proc. pen., come interpretati dalla giurisprudenza di legittimità, infine poggiando l'affermazione di condanna «in via esclusiva e comunque significativa e predominante sulle dichiarazioni rilasciate in sede di SIT dalla persona offesa S.O., illegittimamente acquisite, mancandone i presupposti di legge» (così alla p. 11 del ricorso).
Inoltre, ponendo a confronto il contenuto delle dichiarazioni rese da S.S. nelle indagini e a dibattimento, si evidenzia la attendibilità delle prime, più vicine ai fatti, e la non credibilità invece di quelle, difformi e confuse, rese nel processo ed oggetto di contestazione ex art. 500 cod. proc. pen.
3.2. Con il secondo motivo censura manifesta illogicità della motivazione e mancanza di apparato giustificativo quanto al contenuto di due importanti atti istruttori, e cioè l'interrogatorio in data 26 settembre 2014, con il quale M.M. ricostruiva la propria versione dei fatti, atto acquisito all'udienza del 3 febbraio 2017, ed il rapporto sull'infortunio redatto dallo S.P.I.S.A.L. (acronimo di: Servizio di prevenzione igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro) della A.S.L. In particolare, il richiamo, pur effettuato in sentenza (alla p. 3), alle dichiarazioni dell'imputato sarebbe in realtà parziale, superficiale inadeguato.
3.3. Il ricorrente si duole inoltre promiscuamente della violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. e della mancanza di motivazione circa le lesioni patite dalla vittima e la durata delle stesse, della inutilizzabilità delle certificazioni dell'I.N.A.I.L., atti «di natura amministrativa e non medica», privi di contenuto sanitario, nell'assenza - si afferma - di «qualsivoglia certificazione medica attestante le lesioni patite dal sig. S.O.» (così alla p. 17).
3.4. Mediante il quarto motivo M.M. denunzia violazione degli artt. 62-bis e 133 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione allorché la stessa nega - sottolinea il ricorrente - la concessione delle attenuanti generiche per non avere l'imputato ammesso la propria responsabilità e liquida come un mero "refuso" la vistosa contraddizione ed incertezza in tema di trattamento sanzionatorio che si ravvisa nella decisione di primo grado e che era stata puntualmente denunziata con l'appello. Basando il diniego esclusivamente sulla mancanza di confessione, si sarebbe leso il diritto di difendersi dell'imputato, richiamandosi al riguardo il precedente di Cass., Sez. 6, n. 44630 del 17/10/2013, Faga, Rv. 256963-01.
Si sarebbero trascurati inoltre plurimi elementi positivi quali l'incensuratezza, le condizioni personali e sociali (imprenditore con famiglia e figli), il lieve grado della colpa (comprovati dall'essere la condotta corretta prescritta nei documenti aziendali e dall'avere M.M. invitato i lavoratori ad allontanarsi dalla zona pericolosa durante le manovre) ed il comportamento successivo al fatto (avendo l'imputato adempiuto alle prescrizioni amministrative imposte dalla A.S.L. ed essendo stato, quindi, ammesso al pagamento della sanzione amministrativa).
3.5. Infine, con l'ultimo motivo il ricorrente lamenta violazione dell'art. 133 cod. pen. e carenza di motivazione quanto alla pena, indicata solo come "adeguata" (nella sentenza di primo grado) o "congrua" (in quella impugnata) senza riferimento ad alcuni degli specifici parametri di cui all'art. 133 cod. pen. ed in contrasto con le favorevoli emergenze processuali (le stesse elencate nella parte finale del punto che precede).
Si chiede, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata.
Diritto
1.Osserva il Collegio che sussistono i presupposti per rilevare, ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen., l'intervenuta causa estintiva del reato per cui si procede, essendo spirato il relativo termine di prescrizione massimo pari a sette anni e sei mesi dal fatto (fatto dell'8 novembre 2011 + sette anni e sei mesi = 8 maggio 2019; nessuna sospensione; sentenza impugnata del 13 settembre 2018; atti pervenuti alla Cancelleria della S.C. il 23 gennaio 2020).
Deve infatti rilevarsi che il ricorso in esame non presenta profili di inammissibilità, per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perché basato su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l'intervenuta prescrizione: e ciò con particolare riferimento al tema del trattamento sanzionatorio, tenuto conto (anche volendo prescindere dal "refuso" - così definito a p. 4 della decisione impugnata - di cui all'ultima pagina della sentenza di primo grado, ove si concedono e nel contempo si negano le attenuanti generiche) della inadeguatezza della relativa motivazione, prevedendo l'art. 590 cod. pen. alternativamente la pena della reclusione o della multa, sicché la sanzione in concreto applicata non può certo dirsi "prossima al minimo".
Pertanto, sussistono presupposti, discendenti dalla intervenuta instaurazione di un valido rapporto processuale di impugnazione, per rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. maturate, come nel caso di specie, successivamente rispetto all'adozione della sentenza impugnata.
E' poi appena il caso di sottolineare che risulta superfluo qualsiasi approfondimento al riguardo, proprio in considerazione della maturata prescrizione: invero, a prescindere dalla fondatezza o meno degli assunti del ricorrente, e ben noto che, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, qualora già risulti una causa di estinzione del reato, non rileva la sussistenza di eventuali nullità, addirittura pur se di ordine generale, in quanto l'inevitabile rinvio al giudice di merito è incompatibile con il principio dell'immediata applicabilità della causa estintiva (cfr. Sez. U, n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220511-01) e non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in presenza, come nel caso di specie, di una causa di estinzione del reato, quale la prescrizione (v. Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275-01).
Non emergendo, dunque, all'evidenza circostanze tali da imporre, quale mera "constatazione" cioè presa d'atto, la necessità di assoluzione (Sez. U., n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274-01), discende, di necessità, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per essere il reato contestato estinto per prescrizione.
2. Motivazione semplificata, dovendosi fare applicazione nel caso di specie di principi giuridici già reiteratamente affermati dalla S.C. e condivisi dal Collegio, ricorrendo le condizioni dì cui al decreto del Primo Presidente n. 84 dell'8 giugno 2016.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato e estinto per prescrizione.
Così deciso il 15/09/2020.