Cassazione Penale, Sez. 4, 30 settembre 2021, n. 35842 - Omesso inserimento del perno di sicurezza e ribaltamento della piattaforma-cestello. Responsabilità del datore di lavoro e dell'operatore/vittima: aporie della sentenza di appello
Fatto
1. La Corte di appello di Milano il 25 settembre 2020, in parziale riforma della sentenza con la quale il Tribunale di Lecco il 6 maggio 2019, all'esito del dibattimento, ha riconosciuto M.V. e D.C. responsabili, in cooperazione tra di loro ex art. 113 cod. pen., del reato di lesioni colpose gravi nei confronti di N.B. e gravissime nei confronti dello stesso D.C., fatto commesso il 7 novembre 2013, con violazione della disciplina antinfortunistica, in conseguenza condannando ciascuno, con le attenuanti generiche stimate equivalenti all'aggravante, alla pena di giustizia, oltre che il solo M.V. anche al risarcimento dei danni, in forma generica, alla parte civile N.B.., ha annullato le statuizioni civili; con conferma nel resto.
2. Il fatto, in estrema sintesi, come ricostruito dai giudici di merito.
M.V. e D.C. sono stati ritenuti responsabili di avere, il primo in veste di datore di lavoro - legale rappresentante, amministratore delegato della s.r.l. "Impresa M.V." - ed il secondo come dipendente della ditta - operatore abilitato di carrello telescopico cui era agganciata una piattaforma procurato colposamente, con violazione della disciplina antinfortunistica, lesioni a N.B., altro lavoratore dipendente, e allo stesso D.C., lesioni durate, rispettivamente, 180 giorni e 262 giorni.
Il 7 novembre 2013 D.C. e N.B. si trovavano entrambi dentro una piattaforma-cestello all'altezza di sette metri da terra, mentre erano in corso lavori di smantellamento di impianti interni di capannoni dismessi.
I comandi elettronici della piattaforma-cestello erano affidati a D.C..
Secondo i giudici di merito, la piattaforma, dopo avere per errore urtato contro un serbatoio installato sulla parete del capannone, si è ribaltata: N.B. è stato sbalzato fuori e poco dopo anche D.C. è precipitato a terra insieme alla piattaforma.
La causa dell'incidente è stata ricondotta a colpa sia generica (negligenza, imprudenza ed imperizia) sia specifica, in particolare per non avere D.C., in qualità di operatore abilitato di carrello telescopico, prima dell'inizio delle operazioni, inserito un perno di sicurezza (dietro la coppiglia di chiusura) che assicura lo stabile agganciamento della piattaforma al braccio telescopico, come emerso dalle indagini tecniche svolte.
Il datore di lavoro, che è risultato recarsi in cantiere circa una volta al giorno, è stato ritenuto responsabile per non avere vigilato, direttamente o indirettamente cioè tramite preposto (essendosi escluso che tale potesse essere D.C.), sull'effettivo rispetto delle norme di sicurezza nel cantiere (art. 20 del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81), così rendendo possibile la negligenza di D.C., cioè responsabile per la scelta organizzativa di avere affidato alla autoresponsabilità dei lavoratori l'intero flusso di lavoro che si realizzava tramite piattaforma. Ulteriori indici di disattenzione del datore di lavoro ai profili della sicurezza sono stati individuati: nell'essere emerso che i due, lavorando in quota, si sarebbero dovuti assicurare con imbracature, mentre ciò non è accaduto; nella omissione della transennatura della zona sottostante l'area di azione della piattaforma; nel fatto che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non era fisicamente presente in cantiere al momento del fatto.
3. Ciò posto, ricorrono per la cassazione della sentenza gli imputati, tramite separati ricorsi curati da distinti difensori (OMISSIS), denunziando sia violazione di legge che difetto di motivazione.
4. In particolare, il ricorso nell'interesse di M.V. si affida a quattro motivi, con i quali lamenta vizio di motivazione, anche per travisamento.
4.1. Con il primo motivo censura manifesta illogicità e contraddittorietà della sentenza in punto di individuazione in capo all'imputato di condotte colpose causalmente efficienti a procurare l'evento.
Rammenta il ricorrente che i giudici di merito hanno ritenuto carente nel caso di specie la vigilanza del datore di lavoro sulla effettività circa il rispetto delle norme cautelari, come emergerebbe da tre circostanze: 1) l'essere emerso che i due lavoratori, pur agendo in quota, non erano assicurati mediante imbracatura; 2) il non essere stata transennata la zona sottostante l'area di azione della piattaforma; 3) l'essere assente quel giorno dal cantiere il responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
Ciò posto, si sottolinea come nessuna di tali circostanze abbia avuto concreta rilevanza quanto al nesso eziologico tra condotta ed evento e che, anzi, l'uso delle cinture avrebbe avuto effetti peggiorativi, sicché verrebbe a mancare l'interferenza probatoria tra le premesse e le conclusioni, con conseguente vizio - si assume - di illogicità della motivazione.
Si sottolinea, inoltre, come emerga documentalmente che vi erano, in realtà, in cantiere più figure di riferimento, che si indicano, con mansioni attinenti alla sicurezza. Ciò dimostrerebbe che l'assunto circa la confusione o addirittura la mancanza di ruoli nel cantiere sarebbe percorso argomentativo introdotto solo allo scopo di creare la suggestione di un'impresa improvvida ed improvvisata, ciò che, però, sarebbe decisamente da escludersi nel caso di specie. A riprova, come emerso a dibattimento, l'ultimo verbale del coordinatore per la sicurezza, risalente solo a pochi giorni prima dell' infortunio, descrive una situazione di cantiere soddisfacente.
4.2. Mediante il secondo motivo M.V. si duole di contraddittorietà della motivazione, anche per travisamento, e di mancata valutazione della prova, quanto alla caratterizzazione della condotta di omessa vigilanza da parte dell'imputato come colposa, quanto alla prevedibilità dell'evento quale effetto della condotta omissiva e quanto alla minima importanza ex art . 114 cod. pen. dell'opera prestata dall'imputato M.V..
Si rammenta il contenuto dell'impugnazione di merito, in cui si sottolineava, tra l'altro, che dall'istruttoria (richiamati anche il contributo del tecnico della ASL Pizzagalli all'udienza del 7 novembre 2017) era emerso che D.C., dipendente da lungo tempo, aveva ricevuto idonea formazione, che era in grado e tenuto a condurre il cestello in condizioni di sicurezza e che l'inserimento del perno di sicurezza era attività facile, veloce e scontata, invocando la esclusione della responsabilità del datore di lavoro ovvero, in linea subordinata, la riconduzione del suo agire alla partecipazione di minima importanza.
A fronte di tali doglianze, la Corte di appello si sarebbe limitata ad affermare che D.C. non avrebbe avuto adeguata formazione per le piattaforme elevabili, così incorrendo in un vizio di motivazione per travisamento e per omessa valutazione delle prove.
4.2.1. Travisamento in quanto, come riconosciuto dalla stessa sentenza di primo grado, il corso specifico seguito da D.C. lo abilitava all'utilizzo dei carrelli semoventi elevabili con conducente a bordo, abbinati a qualunque strumento di lavoro, compresa la navicella per il sollevamento delle persone.
Inoltre, come documentalmente emerso, il lavoro in quota era previsto sia nel piano di sicurezza e coordinamento sia nel documento di valutazione dei rischi.
Non corrisponderebbe al vero, poi, né sarebbe stato condiviso dal Tribunale, che il corso frequentato da D.C. non sarebbe stato in linea con quanto disposto dall'accordo del 22 febbraio 2012 all'esito della Conferenza permanente Stato - Regioni - Province autonome, in quanto il punto Al si limita ad individuare attrezzature di lavoro, mentre il punto A3 descrive requisiti dei corsi che paiono rispettati, anche alla stregua delle dichiarazioni rese dall'imputato sul unto all'udienza del 15 maggio 2018.
4.2.2. Omessa valutazione delle prove, poi, per non avere la Corte di merito preso in considerazione le emergenze istruttorie evidenziate dalla difesa nel secondo e nel terzo motivo di appello (pp. 5-14 dell'impugnazione di merito).
4.3. Con l'ulteriore motivo denunzia manifesta illogicità della motivazione quanto al giudizio di bilanciamento delle circostanze operato dai giudici di merito nel senso della equivalenza, avendo disatteso la Corte territoriale la richiesta di prevalenza delle attenuanti.
4.4. Con l'ultimo motivo M.V. lamenta mancanza di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio, che si stima eccessivo, avendo il giudice applicato una sanzione detentiva, anziché, come invocato dalla difesa, una multa, sanzione detentiva che, però, poi convertita in multa, si risolve in una pena pecuniaria assai prossima al massimo edittale previsto dal comma 1 dell'art. 590 cod. pen., quindi distante dal minimo.
In ogni caso, sarebbero stati trascurati gli argomenti svolti dalla difesa a sostegno di una richiesta di attenuazione del trattamento sanzionatorio.
S. Il ricorso nell'interesse di D.C. è articolato in due motivi, con i quali censura vizio di motivazione (il primo motivo) e violazione di legge (entrambi i motivi).
5.1. Con il primo motivo si duole della inosservanza, erronea e falsa applicazione dell'art. 20, commi 1 e 2, lett. c), e) e g) del d. lgs. n. 81 del 2008 e di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione sia intratestuale che per contrasto con le risultanze probatorie in ordine alla ritenuta sussistenza della violazione da parte dell'imputato D.C. dell'art. 20 del richiamato d.lgs. n. 81 del 2008 ed alla ritenuta sussistenza degli estremi degli elementi costitutivi del contestato reato di cui all'art. 590 cod. pen. in cooperazione colposa ex art. 113 cod. pen. con il datore di lavoro M.V..
Riassunte le sentenze di merito, sottolinea il ricorrente cosa sia e come funzioni il "carrello elevatore telescopico", che, come risultante dalla stessa sentenza di appello (p. 19), il mezzo non era provvisto di un meccanismo di sicurezza che, riconoscendo o meno la presenza del perno, blocchi automaticamente il funzionamento ove il perno non sia correttamente inserito o non lo sia affatto,· e che il perno, ove non fosse stato correttamente apposto, sarebbe inevitabilmente rimasto "appeso", per forza di gravità, ad una catena sotto il cestello e, quindi, sarebbe stato molto visibile dal basso.
Tanto premesso in fatto, osserva il ricorrente che il fondamento della condanna sta nella violazione da parte del dipendente del dovere di controllo sul previo inserimento del perno di sicurezza, dovere che, ad avviso del ricorrente, «prescinderebbe da chi, in concreto, dovesse inserirlo e preparare la P.L.E. [acronimo di piattaforma elevabile estensibile] al lavoro» (così alla p. 6 del ricorso): tale fatto - si rammenta - sarebbe inquadrabile nella previsione dell'art. 20, commi 1 e 2, lett. c), e) e g), del d. Lgs. 81 del 2008, non oggetto - si sottolinea - di previa contestazione da parte del P.M, rammentando che anche il lavoratore è un "garante della sicurezza" nell'ambito delle proprie competenze.
Il passaggio motivazionale (pp. 12 e 19 della sentenza impugnata) ove si evidenzia che il lavoratore, a causa della propria misconoscenza dei requisiti di sicurezza, si sarebbe dovuto astenere dal lavorare con simili attrezzature ed avrebbe dovuto immediatamente segnalare il pericolo al datore di lavoro, sarebbe, però, illogico e contraddittorio, avendo la stessa Corte di appello, in altra parte della stessa sentenza (pp. 14-16), spiegato che il dipendente aveva ricevuto una formazione generalista ma che non aveva ricevuto una preparazione specifica relativa all'uso della piattaforma elevabile e a gestire i rischi derivanti dall'uso della stessa con a bordo non già cose ma persone e che la carenza di formazione resta un profilo colposo ascrivibile al datore di lavoro; ciò, peraltro, conformemente a risultanze, sia documentali che testimoniali, dell'istruttoria che si richiamano nel ricorso.
Risulterebbero smentite sia le dichiarazioni del coimputato nell'esame sia la sostenibilità dell'assunto secondo cui (sentenza impugnata, p. 16, ultime righe) il perno metallico di sicurezza sotto la piattaforma era talmente visibile che anche solo una breve interazione telefonica tra D.C. ed il datore di lavoro avrebbe dissipato ogni eventuale dubbio circa la necessità di infilare lo stesso.
Alla p. 19 della sentenza, poi, si sottolinea come ulteriore profilo di colpa addebitabile al datore di lavoro quello di non avere fatto inserire un meccanismo elettronico che bloccasse automaticamente il sollevamento del braccio telescopico ove risultassero assenti il perno e la coppiglia.
Ebbene, l'avere ampiamente riconosciuto che D.C. aveva seguito corsi non specialistici e che non poteva ritenersi formato per gestire i rischi connessi al trasporto di persone, non già cose, in elevazione dimostra che lo stesso non poteva avere piena contezza di tutti i pericoli generati dalla piattaforma elevabile. In conseguenza, «non si comprende come la Corte - a fronte di tali emergenze - abbia potuto sostenere che il D.C., nel momento in cui si è dedicato a manovrare la PLE e contemporaneamente a compiervi lavori in quota, era concretamente in condizione di percepire che tali sue azioni, non precedute da specifica formazione sulle PLE e sull'attivazione dei relativi dispositivi di sicurezza, potevano compromettere la sicurezza sua propria e dell'odierna parte civile, quindi cagionavano una condizione di pericolo di cui egli doveva avvedersi» (così alla p. 13 del ricorso) e che, a fronte della propria misconoscenza dei requisiti di sicurezza, egli avrebbe dovuto astenersi dall'utilizzare il mezzo e segnalare immediatamente al sovraordinato la condizione di pericolo, che, in realtà, poteva non avere colto ed apprezzato, appunto perchè inadeguatamente formato per quello specifico rischio.
Si tratterebbe di affermazione gravemente illogica, irrazionale e manifestamente contraddittoria per vizi di rilievo intratestuale.
Peraltro, ove i due lavoratori in quota fossero stati assistiti da un collega a terra (buona prassi prevista dalla linee-guida della regione Lombardia, pubblicate con decreto n. 6551 del 2014), questi si sarebbe reso conto che il perno penzolava, non essendo inserito, e l'incidente non sarebbe avvenuto perché certamente si sarebbe fatto scendere il braccio telescopico e si sarebbe correttamente apposto il perno.
L'operatore a terra avrebbe anche potuto percepire l'ostacolo ed evitare l'impatto contro la parete, che si è ritenuto essere causa scatenante l'infortunio.
Tenendo anche presente che è dovere dell'imprenditore prevedere le negligenze dei dipendenti mediante presidi che possano scongiurarne gli effetti, si ritiene da parte della difesa di D.C. che le reiterate condotte, attive ed omissive, del datore di lavoro sotto il profilo della violazione della disciplina antinfortunistica elidono, sotto il profilo causale, qualsiasi profilo di colpa del lavoratore dipendente e ciò sia se si ritenga che D.C. abbia dimenticato di inserire il perno sia che si ritenga che lo abbia scorrettamente inserito sia, infine, che si ritenga che abbia omesso di controllare che- il perno fosse stato previamente inserito.
Da ultimo, sottolinea il ricorrente che, «se si vuole dare una spiegazione minimamente razionale (anche se antigiuridica) a quanto affermato in sentenza - e cioè che le condotte colpose del lavoratore e del datore di lavoro, nella specie, coesistono senza che l'una possa elidere l'efficacia eziologica dell'altra - questa può essere ricercata in una errata e falsa applicazione delle norme giuridiche invocate dalla Corte per ascrivere una colpa a specifica al lavoratore, vale a dire l'art. 20 primo e secondo comma lett. C), E) e G) del D.lgs. 81/2008>> (così alla p. 15 del ricorso).
Non avere controllato l'inserimento del perno avrebbe rilievo come condotta colposa del lavoratore (pp. 11-12 della sentenza impugnata).
Tale ricostruzione, tuttavia, trascura che l'art. 20, comma 1, del richiamato d. lgs. n. 81 del 2008 (la cui lettura deve illuminare le successive disposizioni), prescrive - sì - che «Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle alte persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni» ma - prosegue la norma - «conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro» (così alla p. 16 del ricorso).
Ebbene, l'avere i giudici di merito riconosciuto, in più passaggi motivazionali, il dipendente privo di formazione specifica per quel tipo di attività pericolosa, dovendo, appunto, i doveri autoprotettivi del lavoratore essere correlati alla sua formazione (riconosciuta inadeguata), conduce ineluttabilmente, ad avviso della difesa, alla esclusione in capo a D.C. di qualsiasi profilo di colpa specifica correlata al richiamato art. 20 del d.lgs. n. 81 del 2008.
Tenuto anche conto che deve escludersi, ad avviso del ricorrente, «che al prevenuto D.C. possa essere imputata la violazione dell'art. 71 comma 4 lett. a) D.Lvo 81/2008 (richiamato nel capo di imputazione a lui diretto), che è norma che presuppone un reato proprio del datore di lavoro, ciò provoca il dissolvimento motivazionale della necessaria correlazione della sentenza con l'accusa, anche con le conseguenze di cui all'art. 522 c.p.p. e cioè la nullità della decisone pronunciata, nullità che, ex art. 522 co. 2 c.p.p., investirà [... il] capo di condanna dell'odierno imputato» (così alla p. 17 del ricorso).
Si richiamano, infine, i consolidati principi giurisprudenziali secondo cui:
«Non è configurabile la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l'infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli» (ex plurimis, Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255);
e «In tema di infortuni sul lavoro, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti dei lavoratori non è invocabile da parte del datore di lavoro, il quale, per la sua posizione di garanzia, risponde dell'infortunio sia a titolo di colpa diretta per non aver negligentemente impedito l'evento lesivo ed eliminato le condizioni di rischio che a titolo di colpa indiretta, per aver erroneamente invocato a sua discriminante la responsabilità altrui qualora le misure di prevenzione siano state inadeguate» (tra le altre, Sez. 4, n. 16890 del 14/03/2012, Feraboli, Rv. 252544).
5.2. Con l'ulteriore motivo D.C. lamenta la violazione dell'art. 529 cod. proc. pen., in correlazione all'art. 590, commi 1 e 5, cod. pen., per essere il reato ascritto all'imputato estinto per omessa querela della persona offesa.
Essendo stato dimostrato, ad avviso del ricorrente, che nessun profilo di colpa specifica ex art. 590, comma 3, cod. proc. pen. possa addebitarsi a D.C., mai potrebbe condannarsi l'imputato per colpa generica ed il reato dovrà essere derubricato nella violazione del comma 1 dell'art. 590 cod. pen.: non avendo, però, la persona offesa N.B. sporto querela, dovrà emettersi sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. per mancanza della condizione di procedibilità.
Entrambi gli imputati chiedono, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata.
6. La difesa dell'imputato M.V. ha chiesto il 27 aprile 2021 la trattazione orale del processo.
Diritto
1. I ricorsi sono fondati e devono essere accolti, per le seguenti ragioni.
2. Colgono nel segno le censure sviluppate con i primi due motivi dalla difesa di M.V. e nel primo motivo della difesa di D.C., mentre risultano assorbiti gli ulteriori.
La sentenza, infatti, è intrinsecamente contraddittoria ed illogica (art. 606, comma 1, lett. e, prima parte, cod. proc. pen.), oscillando vistosamente l'ossatura della struttura motivazionale tra l'affermazione che il dipendente era - sì - formato per il lavoro che doveva svolgere e quella, opposta alla prima, secondo cui non lo era oppure non lo era abbastanza.
La Corte di appello, affermato, conformemente al Tribunale, che il perno di sicurezza del cestello non era stato inserito (pp. 9-10 della sentenza impugnata) e che il mancato inserimento, causativo dell'incidente (pp. 13-14), era da ricondurre a D.C. (pp. 11-12), afferma, assai contraddittoriamente, che D.C. non era a conoscenza «dei requisiti di sicurezza per lavorare con tali attrezzature [... sicchè] se ne doveva astenere e doveva segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza la condizione di pericolo» ma anche, nel contempo, che lo stesso «era tenuto, nella sua veste di operatore materiale della macchina che ha cagionato le lesioni patite da lui stesso e dalla parte civile, ad inserire prima dell'inizio del lavoro in quota il perno di sicurezza idoneo ad assicurare al braccio meccanico del macchinario da lui utilizzato, denominato Merlo, la PLE [cioè la piattaforma]» (così alla pp. 12, righe 19-25).
Nonostante il tentativo di spiegazione, ulteriormente contraddittorio, che si rinviene in sentenza, incentrato sui corsi seguiti da D.C. (nessuno dei quali, però, finalizzato ad insegnargli come gestire i rischi connessi all'uso della piattaforme, p. 13, righe 15-16, e nessuno dei quali «riguarda[nte] le piattaforme di lavoro mobili, PLE», così alla p. 15, righe 29-30; inoltre, «tutti i corsi da lui frequentati riguardavano la gestione di rischi legati alla movimentazione di cose, quindi non erano equiparabili alla movimentazione di una PLE, destinata per definizione al lavoro in quota di persone», così alla p. 15, ultime 3 righe) e sulle schede di sicurezza ricevute dallo stesso (p. 13, righe 27- 28), non si comprende come una persona riconosciuta ignara dei requisiti di sicurezza, per accertata «carenza della formazione ricevuta» (così alla p. 12, riga 26), fosse, comunque, tenuta ad attivare efficacemente uno di essi né come, appunto in ragione della accertata «misconoscenza dei requisiti di sicurezza per lavorare con tali attrezzature» (p. 12, righe 22-23) da parte del lavoratore, lo stesso potesse apprezzare una situazione di pericolo e, in conseguenza di ciò, dovesse attivarsi per segnalarla.
Quanto osservato ha rilievo, ovviamente, non solo sulla posizione del dipendente ma anche su quella, nella concreta vicenda assai strettamente interconnessa, del datore di lavoro, nella valutazione della cui posizione di garanzia occorre tenere conto della circostanza, affermata dai giudici di merito (p. 15, righe 12 e 15), che il lavoratore D.C. era esperto ma anche che «Contrariamente a quanto asserito dall'imputato M.V. nel proprio esame [...], D.C. non aveva quindi mai frequentato alcun corso idoneo a impartirgli la formazione necessaria a montare e manovrare un mezzo meccanico del tipo di quello che, nel suo uso, ha dato luogo alla caduta che ha cagionato le lesioni per cui si procede. Non essendo stato formato per il montaggio di una PLE, è irrilevante che D.C. avesse già in passato svolto simili lavorazioni, osservato il funzionamento del macchinario e di fatto svolto mansioni che lo avevano posto a contatto con la cautela, in specie omessa, di inserire il perno di sicurezza. La carenza di formazione del lavoratore resta profilo colposo ascrivibile al datore di lavoro» (così alla p. 16, righe 12-20).
La sentenza, inoltre, sempre trattando la posizione del datore di lavoro, ritiene, non troppo chiaramente, avere lo stesso nel caso di specie operato una «scelta organizzativa [...] consistita nell'affidare all'autoresponsabilità dei lavoratori l'intero flusso di lavoro in cui si sostanziava l'uso della PLE mediante il braccio meccanico», da un lato, (p. 16) e, dall'altro (p. 17), esclude essersi in presenza di una delega di funzioni, per poi affermare che «la visione diretta delle fotografie prodotte all'udienza del 07.11.2017 consente di apprezzare quant'era agevolmente visibile il perno metallico sottostante la PLE, sicché una breve interazione telefonica o diretta con il lavoratore D.C. avrebbe certamente consentito una comunicazione non ambigua a proposito della necessità dell'inserimento di tale presidio di sicurezza [ossia il perno] all'interno della coppiglia sottostante la PLE» (p. 16, ultime sei righe): in tal modo la decisione ribadisce l'errore concettuale, di cui si è già detto, consistito nel ritenere il lavoratore, che la Corte di appello ritiene esperto - sì - ma non di piattaforme che trasportano in alto persone per lavoro in quota, onerato di avvedersi di una situazione di pericolo, per cui non è stato formato, e di avvisare della stessa il datore di lavoro affinchè M.V. fornisca concrete indicazioni operative sull'operazione di inserimento del perno di sicurezza, operazione che, in altra parte della sentenza (p. 12, righe 19-22), si ritiene comunque doverosa da parte di D.C., nonostante il deficit formativo ed informativo emerso.
3. Le aporie segnalate minano irrimediabilmente la tenuta logica dell'intera sentenza ed importano, di necessità, l'annullamento della stessa, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Milano - diversa Sezione.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.
Così deciso il 15/06/2021.