Cassazione Penale, Sez. 4, 27 marzo 2020, n. 10664 - Amputazione delle dita della mani con una cesoia a ghigliottina priva di protezione fissa idonea ad impedire il contatto

sentenze cassazione sicurezza lavoro
2020

1. La Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano che ha dichiarato T.M. responsabile del reato ascrittogli, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia.
2. L'imputato è stato chiamato a rispondere del reato di cui all'art. 590, commi 1, 2 e 3 cod. pen., con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, perché in qualità di amministratore unico della CM INDUSTRY SRL e, quindi, di datore di lavoro, cagionava al lavoratore dipendente, Z.A., lesioni personali consistite nell'amputazione delle dita delle mani (esclusi i pollici), da cui derivava malattia, con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per gg. 203, nonché con indebolimento permanente della funzionalità di entrambe le mani. Unitamente alla colpa generica, è contestata all'imputato la colpa specifica di avere omesso di prendere le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro messe a disposizione dei lavoratori fossero utilizzate in conformità alle istruzioni d'uso e, comunque, sottoposte a manutenzione in modo da assicurare la permanenza nel tempo dei requisiti di sicurezza. In particolare, al predetto Z.A., presso l'unità operativa della CM INDUSTRY SRL, che doveva eseguire operazioni di taglio di lamiere di piccole dimensioni, veniva messa a disposizione una cesoia a ghigliottina Ermaksan 3000 priva della prescritta protezione fissa, idonea ad impedire il contatto tra le mani dell'operatore e i pressori e la lama a ghigliottina della macchina, protezione che risultava essere stata rimossa. Nell'eseguire tali operazioni, mentre il lavoratore era intento a riposizionare sulla macchina un pezzo di lamiera, la lama si abbassava, cagionandogli le lesioni sopra ricordate.
3. Avverso la sentenza di appello interpone ricorso il difensore dell'imputato affidandolo sostanzialmente ad otto motivi, atteso che quello indicato dal ricorrente come primo afferisce unicamente allo svolgimento del processo, di talché si procederà partendo dal secondo, con il quale si deduce contraddittorietà della motivazione in punto di concorso di colpa della persona offesa, la cui condotta si afferma essere stata abnorme ed esuberante, poiché si trovava in azienda di domenica [giorno in cui si è verificato l'infortunio] e non era abilitata ad operare sul macchinario in questione.
La Corte territoriale, pur richiamando la sentenza di primo grado, che aveva accertato un concorso di colpa del lavoratore, contradditoriamente lo escluderebbe. Ciò comporta la conseguenza di consegnare al giudice civile, cui è rimessa la quantificazione del danno, un provvedimento totalmente ambiguo. Da queste considerazioni scaturisce e si sviluppa anche il tema del quinto motivo, con cui si eccepisce la violazione del divieto di reformatio in peius, di cui all'art. 597, comma 3, cod. proc. pen., il quale deve trovare applicazione, si sostiene, anche con riguardo alle statuizioni civili. La sentenza di primo grado, infatti, affermava esplicitamente la sussistenza di un concorso di colpa della persona offesa, disponendo che di esso dovesse tener conto il giudice civile, in sede di quantificazione del danno. Tale statuizione, pur in assenza di appello ad opera della parte civile, risulta totalmente riformata nella sentenza impugnata, con evidenti ripercussioni sul piano risarcitorio. In ciò si concreta, sostiene il ricorrente, la violazione dell'art. 593, comma 3, cod. proc. pen.
Con il terzo motivo, si eccepisce violazione degli arti. 234, 240 e 191 cod. proc. pen. La presenza in azienda della persona offesa "per recuperare il giorno di assenza" è principalmente desunta dalla denuncia/comunicazione dell'infortunio fatta all'INAIL. Si tratta, tuttavia, di documento prestampato e privo di qualsiasi sottoscrizione. Ne discende la sua inutilizzabilità ai sensi dell'art. 240, comma 1, cod. di rito. Esso, inoltre, non è dotato dell'efficacia probatoria di cui all'art. 234 cod. proc. pen. che ammette l'acquisizione di scritti "che rappresentano fatti". Con il quarto motivo, si lamenta la violazione degli artt. 493,comma 3, 514 comma 1 e 191 cod. proc. pen. A sostegno della tesi che la persona offesa stesse svolgendo regolare attività lavorativa in un giorno festivo, la sentenza impugnata valorizza altresì le sommarie informazioni rese alla p.g. da S.R., il cui verbale veniva surrettiziamente inserito nel fascicolo ad opera della parte civile in allegato a memoria difensiva, in spregio al contraddittorio e senza che neppure fosse avanzata richiesta di parziale rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. Con il sesto motivo, ci si duole della mancanza di motivazione con riguardo alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa costituitasi parte civile. Il settimo motivo afferisce alla mancanza di motivazione con riferimento alla violazione delle mansioni assegnate alla persona offesa. Con l'ottavo motivo, si deduce travisamento della prova, giacché il Giudice di appello, nel valutare la denuncia di infortunio inviata all'INPS, ne ha fornito un resoconto parziale e travisato giacché nella stessa si legge che il lavoratore non era mai stato autorizzato ad utilizzare la cesoia e che ne aveva rimosso la protezione. Con il nono motivo, infine, si denuncia la violazione degli artt. 590 cod. pen. e 71, comma 4, d. Lgs. 81/08. Contrariamente a quanto sostenuto dall'infortunato, il macchinario era dotato di idonea protezione. La sentenza impugnata, peraltro, disattendendo il motivo di appello dedicato all'identificazione del tempo, delle modalità e dell'autore della rimozione, richiama un sistema di sicurezza previsto per una protezione diversa da quella installata.
4. La parte civile INAIL ha depositato una memoria con cui chiede che il ricorso dell'imputato venga rigettato.




Diritto




1. Il ricorso è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.
2. Entrambe le sentenze di merito - sulla base della descrizione dei fatti offerta dai tecnici della ASL, intervenuti nell'immediatezza, della testimonianza di S.R. e della documentazione fotografica - ricordano che il datore di lavoro, odierno ricorrente, ha messo a disposizione degli operai una cesoia a ghigliottina priva di quelle segregazioni indispensabili ad impedire ogni contatto degli organi di lavoro con qualsiasi parte del corpo degli operai, come espressamente disposto nell'allegato 5 del d.lgs. n. 81 del 9 aprile 2008. Rammentano, altresì, che il 12/05/2013, giorno in cui si è verificato l'infortunio, all'interno della CM INDUSTRY SRL si trovavano, quantomeno, due operai, S.R. e Z.A. e che la cesoia a ghigliottina Ermaksan 3000 era collegata alla corrente e, perciò, pronta a funzionare. Il ricorrente ascrive l'intera responsabilità dell'infortunio alla persona offesa, della cui condotta asserisce l'abnormità e l'esuberanza perché, di propria, autonoma, iniziativa, si trovava in azienda di domenica e non era abilitata ad operare sul macchinario in questione. Sul punto, la sentenza di appello disattende gli assunti difensivi, richiamando il contenuto della denuncia/comunicazione di infortunio fatta all'INAIL dal mandatario del datore di lavoro (ivi indicato con nome e con indirizzo pec), ove si legge che la vittima "era presente in azienda in giorno festivo per recuperare il giorno di assenza durante la settimana"; nonché le testimonianze del teste oculare S.R. e del teste P., soccorritore della Croce Azzurra di Buscate, il quale, intervenuto nell'immediatezza, affermava che l'infortunato era "vestito da lavoro", con scarpe antinfortunistiche e guanti. È vero, come sostiene il ricorrente, che la sentenza di primo grado ha manifestato delle perplessità al riguardo, reputando sussistere profili di colpa del lavoratore infortunato per essersi egli recato al lavoro in un giorno che «pare improbabile fosse previsto come lavorativo [...]», ma deve evidenziarsi come questo profilo di doglianza si appalesi del tutto secondario rispetto alla questione, dirimente, della condotta omissiva del datore di lavoro, così come contestata. Del resto, è la stessa pronuncia del Tribunale, invocata a più riprese dal ricorrente, ad escludere qualsivoglia condotta abnorme del lavoratore, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 41 cpv. cod. pen. e a ritenere pacificamente provata la responsabilità del datore di lavoro, che, in quanto titolare dell'Impresa, è destinatario dell'obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro.
4. Si tratta di conclusione giuridicamente corretta. Sul punto, invero, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, ai sensi del quale, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, percausa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (ex multis, Sez. 4, n. 7364 del 14/01/2014, Scarselli, Rv. 259321; Sez. 4, n. 37986 del 27/06/2012, Battafarano, Rv. 254365).
In questa prospettazione, le addotte circostanze - se il lavoratore si fosse recato di domenica nel luogo di lavoro per recuperare il giorno di assenza infrasettimanale e se fosse stato o meno autorizzato ad usare la cesoia a ghigliottina in questione - non valgono ad escludere la responsabilità dell'odierno imputato, dovendo ritenersi ricompreso, entro l'ambito delle responsabilità di quest'ultimo, l'obbligo di prevenire anche l'ipotesi di una condotta imprudente o negligente del lavoratore, «dovendosi stimare prevedibile il prodursi di eventi del genere di quello verificatosi in danno della p.o.».
In tema, questa stessa Corte ha sottolineato come l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti dei lavoratori non è invocabile da parte del datore di lavoro, il quale, per la sua posizione di garanzia, risponde dell'infortunio, sia a titolo di colpa diretta, per non aver negligentemente impedito l'evento lesivo ed eliminato le condizioni di rischio, che a titolo di colpa indiretta, per aver erroneamente invocato a sua discriminante la responsabilità altrui qualora le misure di prevenzione siano state inadeguate (Sez. 4, n. 16890 del 14/03/2012, Feraboli, Rv. 252544).
Il datore di lavoro, infatti, in quanto destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente, rientrante nelle mansioni che gli sono proprie, sia assolutamente abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia consistito in qualcosa di radicalmente e ontologicamente diverso dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell'esecuzione del lavoro. Si è, così, affermato che non è configurabile la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l'infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza, approntato dal datore di lavoro, presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255;
Sez. 4, n. 22813 del 21/04/2015, Palazzolo, Rv. 263497). Perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo è, dunque, necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia [Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016 (dep.2017), Gerosa e altri, Rv. 269603; Sez. 4, n. 7955 del 10/10/2013 (dep.2014), Rovaldi, Rv. 259313].
Non questa è la situazione verificatasi nel caso di specie, atteso che entrambe le sentenze di merito - anche quella di primo grado, che pur ha riconosciuto un profilo di colpa in capo al lavoratore infortunato (nei termini sopra ricordati) - hanno escluso, con motivazione congrua e rispettosa dei principi appena richiamati, che la condotta del lavoratore infortunato possa qualificarsi in termini di abnormità o di assoluta estraneità al processo produttivo e alle mansioni dell'infortunato, poiché ciò che, in modo assorbente, rileva è la mancata installazione dell'accessorio di protezione del macchinario. Così inquadrata la questione, correttamente la Corte di appello afferma l'irrilevanza di stabilire «chi, come e quando avesse rimosso le paratie di protezione, in quanto una macchina strutturata a norma di legge e mantenuta dal datore di lavoro in modo idoneo al suo uso» deve avere un dispositivo automatico e non eliminabile che intervenga a bloccare il dispositivo nel caso in cui, per qualsiasi ragione, vengano rimosse le paratie di segregazione degli organi in movimento.
In conclusione sul punto, con riguardo alle doglianze avanzate dal ricorrente nel secondo motivo, in relazione all'asserito concorso di colpa del lavoratore nella causazione del fatto dannoso dallo stesso sofferto, osserva il Collegio come la Corte territoriale, con motivazione completa ed esauriente, immune da vizi d'indole logica o giuridica, abbia correttamente escluso il ricorso, nella specie, di un comportamento abnorme del prestatore di lavoro infortunato. Risultano, in conseguenza, assorbiti i motivi terzo, quarto, settimo, ottavo e nono.
5. Il quinto motivo, con cui il ricorrente lamenta la violazione del divieto di reformatio in peius con riguardo alle statuizioni civili, è manifestamente infondato. Rispetto al contenuto del divieto di reformatio in peius, l'indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità, che ha ricevuto l'autorevole avallo delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 53153 del 27/10/2016, C, Rv. 268179; ex multis, Sez. 3, n. 35570 del 09/03/2016, Ardita, non mass.; Sez. 5, n. 25520 del 18/05/2015, Vincenti Mattioli, Rv. 265147), esclude che la disposizione dettata dall'art. 597, comma 3, cod. proc. pen., abbia portata tale da estendersi alle statuizioni civili, trattandosi di norma che, ponendo un limite alla pretesa punitiva dello Stato, non si applica all'istanza risarcitoria, oggetto dell'azione civile. Il divieto di reformatio in peius involge, dunque, unicamente le statuizioni penali della sentenza, rispondendo esso ad una sedimentata tradizione codicistica, in forza della quale il giudice di appello, in caso di impugnazione del solo imputato, non può aggravare la pena originariamente inflitta, nel senso di inasprimento del trattamento sanzionatorio, anche rispetto ai già concessi benefici o con riguardo all'adozione di una formula di proscioglimento meno favorevole. Pertanto, il divieto di reformatio in peius, come recepito nel vigente rito penale, costituisce un limite legale esterno, imposto al potere cognitivo del giudice di appello, che involge le statuizioni penali della sentenza, sulla base di specifiche scelte compiute dal legislatore, la cui portata non può essere estesa, in via interpretativa, ad ipotesi diverse da quella disciplinata.
Ciò detto, deve osservarsi che non vi è stata, nel caso di specie, alcuna riforma delle statuizioni civili, avendo, anzi, la Corte di appello espressamente confermato la decisione del Tribunale che, condannato l'imputato al risarcimento del danno subito dalla parte civile, ne aveva demandato la determinazione al giudice civile, il quale ben potrà tener conto della colpa concorrente del lavoratore infortunato, la cui condotta, comunque, non è qualificabile, come stabilito in entrambi i gradi del giudizio di merito, come abnorme.
6. Parimenti infondata la doglianza sulla asserita mancanza di motivazione con riguardo alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa costituitasi parte civile (sesto motivo), atteso che la sentenza impugnata, come quella di primo grado, hanno ritenuta provata la responsabilità dell'imputato non solo per le dichiarazioni della persona offesa ma altresì perché queste, come si è più sopra detto, hanno trovato riscontro 
nella ricostruzione del fatto operata dai tecnici dell'Asl intervenuti, nella deposizione del teste S. e nella documentazione fotografica.
6. Sulla base delle argomentazioni esposte, accertata l'integrale infondatezza dell'impugnazione proposta dall'imputato, dev'essere pronunciato il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.




P.Q.M.




Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 20 novembre 2019


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