Cassazione Penale, Sez. 1, 23 marzo 2020, n. 10504 - Lesioni colpose e disastro ambientale. Patologie tumorali e morte di lavoratori addetti a processi di lavorazione di fibre tessili

sentenze cassazione sicurezza lavoro
2020

l. Con sentenza pronunciata in data 19 dicembre 2014 il Tribunale di Paola mandava assolti perchè il fatto non sussiste gli imputati S.S., F.A., D.DJ., L.C., R.A., L.B., B.V., C.S., C.I.,F.G., P.L. e M.P. in relazione ai reati loro rispettivamente ascritti di omicidio colposo plurimo aggravato (capi a), a-bis), b), c), i), I)), di lesioni colpose aggravate (capo e), di disastro ambientale aggravato (capo g) e di rimozione o omissione aggravata di cautele antinfortunistiche (capo h).
Secondo l'accusa elevata a loro carico, i predetti imputati nelle rispettive qualità per ciascuno di essi specificate nelle singole imputazioni, di responsabili del reparto tintoria, di direttori della produzione e di responsabili dello stabilimento, di legali rappresentanti delle società Lanerossi s.p.a., già Mariane s.p.a., e Manifattura Lane Gaetano M.P. e figli s.p.a., rispettivamente proprietarie dal 1970 al 1986 la prima e dal 1987 al 1996 la seconda dello stabilimento industriale, sito In Praia a Mare, presso il quale sino alla sua chiusura, avvenuta in data 4 aprile 2004, si erano resi responsabili del decesso o delle gravi malattie contratte da oltre un centinaio di dipendenti, addetti ai processi di lavorazione di fibre tessili, compresi la tintura e la rifinitura, condotti nella mancata adozione di misure organizzative, strutturali ed igieniche a tutela della salute dei lavoratori. In particolare, si addebitava di avere per colpa, cooperando tra loro, posto i lavoratori a contatto con ammine aromatiche e metalli pesanti, sostanze altamente nocive ed impiegate nelle fasi del ciclo produttivo, in assenza di accorgimenti precauzionali e di dotazioni protettive quali guanti e mascherine, di qualsiasi monitoraggio ambientale, dell'installazione di impianti di aspirazione meccanica delle polveri e vapori, nonostante la carenza di areazione naturale, di controlli medici periodici e di prove biologiche di contaminazione, azioni ed omissioni realizzate in violazione delle disposizioni di legge sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, e di avere determinato l'insorgenza di patologie tumorali, dalle quali era derivata la morte di oltre un centinaio di lavoratori, nonché di avere cagionato il disastro ambientale dell'area circostante lo stabilimento per l'inquinamento del suolo, nel quale erano stati sversati ed interrati fanghi ed altri rifiuti speciali di origine industriale, pericolosi perché intrisi di sostanze tossiche e nocive, quali coloranti azoici utilizzati per le colorazioni, metalli pesanti, incluse sostanze cancerogene quali il cromo esavalente, l'amianto e la lana di vetro, provenienti dalla ristrutturazione dello stabilimento.
1.2 Il Tribunale, rilevava che la struttura dell’accusa ascrive la responsabilità agli imputati in base alle mansioni apicali, direttiva ed organizzativa senza operare differenziazioni temporali circa il loro operato e le cariche ricoperte in relazione alle quali gli stessi hanno rivestito posizioni di garanzia, né precisare sul piano cronologico i momenti di insorgenza delle patologie che avrebbero condotto a morte le vittime, in una dimensione astorica dei fatti contestati, rispetto ai quali anche l'istruttoria dibattimentale -in specie gli apporti dichiarativi offerti dai testi- ha offerto soltanto dati di conoscenza sulla durata del rapporto di lavoro e sul reparto di svolgimento dell'attività, mentre i prelievi dei materiali per l'accertamento del reato ambientale si erano svolti tra il 2006 ed il 2007, quindi a due-tre anni dalla cessazione dell'attività produttiva, già sensibilmente ridotta dal 1997 in poi per la chiusura del reparto tintoria, riteneva che le risultanze acquisite non avessero offerto riscontro alla tesi accusatoria della omissione dolosa di cautele contro gli infortuni (capo h), ascritta agli imputati L.C., B.V., R.A., P.L. e F.G..
Per il Tribunale la tesi dell'accusa, della causazione delle patologie tumorali nei dipendenti indicati nell'imputazione, insorta in correlazione all'esposizione incontrollata nel corso delle lavorazioni ad ammine aromatiche e cromo esavalente, in base alle perizie e consulenze tecniche d'ufficio espletate in parallele controversie civili e previdenziali, intentate da alcuni ex dipendenti ed alla documentazione acquisita, non sarebbe avvalorata. Era emerso che: sin dagli anni '70 erano stati installati nello stabilimento Mariane otto impianti di ventilazione ed umidificazione ed altri macchinari di condizionamento aria; il reparto di tintoria tops, ove era stato utilizzato il cromo come fissante del colore sulle fibre tessili, era stata dismessa nel 1996; Il ciclo di lavorazione della tintoria pezze era stato ammodernato ed automatizzato; pertanto, la situazione lavorativa era stata descritta anche dai testi come progressivamente migliorata nel tempo e alcuni di essi avevano riferito di avere ricevuto dispositivi protettivi sin dal loro ingresso in fabbrica e che i responsabili del personale avevano controllato l'effettivo impiego di tali misure, sanzionando i lavoratori riottosi ad impiegarle. Secondo il Tribunale, la perizia e le consulenze tecniche di parte non avevano consentito di verificare sul piano tecnico, per l'assenza di documentazione, i livelli di efficienza degli impianti in relazione al livello di concentrazione delle polveri, non erano stati provati la denominazione delle sostanze utilizzate ed i loro effetti, la quantità nel tempo dell'agente di rischio, né le condizioni di lavoro col superamento del limite soglia, come introdotto dalla direttiva europea 2002/61/CE; non era stato accertato il livello quantitativo di esposizione al rischio, né la frequenza con cui quel fattore di rischio era presente nell'ambiente, né i tempi di permanenza.
Quanto all'uso di dispositivi personali di protezione dei lavoratori, la perizia aveva accertato tramite gli elenchi dei materiali acquistati l'esistenza presso lo stabilimento di guanti, mascherine, divise, scarpe, occhiali, consegnati ai dipendenti e la sola circostanza della mancata dimostrazione di ulteriori acquisti per il periodo 1982-1991 non era sufficiente a provare la responsabilità degli imputati poiché la mancanza delle fatture non costituisce dato provante, essendo illogico che i dispositivi fossero stati acquistati soltanto nel periodo precedente ed in quello successivo, non in quello intermedio. I periti incaricati, secondo il Tribunale, avevano evidenziato l'impossibilità di compilare un elenco completo delle sostanze impiegate nelle lavorazioni e dei relativi quantitativi, ma dalle consulenze in atti, dall'analisi delle schede di sicurezza, dalle testimonianze escusse e dai risultati delle analisi chimiche realizzate all'esterno ed all'interno dello stabilimento era emerso l'impiego di cromo esavalente, classificato in classe 1 come agente . cancerogeno per l'uomo, di trielina, classificata in classe 2A quale agente probabilmente cancerogeno, e di lanalbina bipolv, contenente idrossilammina, classificata in classe 2 siccome sospettata di provocare malattie tumorali, coloranti azoici ritenuti pericolosi per la salute perché in grado di sviluppare in ambiente acido una reazione di idrolisi con liberazione di ammine aromatiche, senza però che nel caso specifico fosse stato provato con certezza che quelli impiegati, come risultanti dalle schede di sicurezza, avessero sviluppato una delle ventidue ammine aromatiche cancerogene.
Inoltre, l'indagine epidemiologica condotta dai periti aveva dimostrato che del gruppo dei 984 dipendenti dello stabilimento Mariane, 161 erano deceduti, 823 erano vivi e vi era stato un incremento dei tumori polmonari e dei tumori alla vescica, ma che solo cinque casi di patologie neoplastiche erano in eccesso rispetto ai decessi per quelle cause attesi nella popolazione della Calabria e che poteva dirsi accertato il nesso di causalità tra malattia contratta ed attività lavorativa soltanto nel caso di tumore vescicale, contratto da L.P. ed in tre casi di tumore polmonare, contratto dai lavoratori B.F., A.M. e R.P.. Ciò nonostante, ad avviso del Tribunale, non era possibile individuare la causa individuale delle patologie che avevano colpito i lavoratori in quanto nessuno studio scientifico ha evidenziato dei rischi di cancerogenicità per l'uomo delle lavorazioni svolte nell'industria tessile ed erano mancati i dati di conoscenza su tutte le circostanze del caso, quali la storia professionale del malato, le sue condizioni familiari, le abitudini di vita, le cause preesistenti, l'esposizione a fattori di rischio alternativi a quelli insiti nell'attività lavorativa.
Quanto ai delitti di omicidio e lesioni personali colpose, il Tribunale riteneva che la situazione di dubbio insuperabile compromettesse tutto il paradigma accusatorio; dall'istruttoria era risultata l'introduzione di una sorveglianza medica generalizzata ed adeguata anche prima della legge 626/1994 e nel periodo 1997-2004 ed in ogni caso difettava l'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 437 cod. pen. nella forma del dolo eventuale per non esservi prova che gli impianti fossero diversi da quelli che il miglior imprenditore del settore avrebbe impiegato e che gli imputati avessero consapevolmente agito per massimizzare il profitto-o per ragioni commerciali, essendo stati molti di loro impegnati nell'attività di direzione di reparto e di stabilimento, svolta al suo interno, con la conseguente esposizione personale al medesimo rischio dei lavoratori subordinati, sicché al più si sarebbe potuto ravvisare un atteggiamento colposo, ma non doloso.
In merito all'imputazione di disastro ambientale aggravato, contestato al capo g) agli imputati B.V., L.C., R.A., B.L., J.DJ., S.S., F.A. e M.P. in forma commissiva quanto allo sversamento ed interramento di sostanze pericolose per la salute, il Tribunale rilevava che, per la genericità e contraddittorietà delle dichiarazioni dei testi escussi, sul piano oggettivo non vi era prova della verificazione di un evento distruttivo delle risorse naturali, fonte di pericolo per la pubblica incolumità. Gli accertamenti condotti dai consulenti delle parti, pur avendo rilevato nelle zone sottoposte a prelievo la presenza di sostanze inquinanti, estremamente pericolose per la salute umana e per l'ecosistema, riconducibili ad attività industriale nel settore tessile, non erano stati risolutivi, pretendendo l'effettuazione di ulteriori indagini sul suolo, sottosuolo e sulle falde acquifere nell'area di interesse. I risultati dell'indagine peritale indicavano la verificazione del disastro ambientale, in quanto, pur avendo l'istruttoria accertato l'attività protratta di sversamento ed interramento di rifiuti speciali pericolosi di origine industriale e tintura di filati, nonché di bidoni e fusti con residui di coloranti azoici e di materiale quale lana di vetro, non si era verificata in concreto una situazione di pericolo per la pubblica incolumità, atteso che era mancata la contaminazione delle matrici ambientali costituite da suolo, sottosuolo ed acque poiché le sostanze rinvenute non hanno avuto la capacità di migrare verso le predetti matrici e quelle cause di migrazione individuate dai periti, ossia vento, dilavazione del terreno superficiale, incendio, appaiono irrealistiche, stante l'interramento che rende non ipotizzabile il trasporto e la combustione diretta, mentre l'aumento della temperatura negli strati profondi del terreno a causa di incendio dovrebbe verificarsi sino al raggiungimento di 500 gradi, perchè si realizzi la diffusione di sostanze irritanti derivanti dai rifiuti, cosa non verificabile. Inoltre, non erano stati individuati dai periti nella popolazione dei comuni di Praia a Mare e Tortora significativi aumenti di patologie neoplastiche o correlabili alle sostanze rintracciate nell'ambiente circostante.
1.3 Proposto appello da parte del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Paola e dalle parti civili Comune di Praia a Mare, Comune di Tortora, CGIL FILCTEM-Cgil, GCIL Calabria, FILCTEM-Cgil Castrovillari e Camera del Lavoro di Castrovillari, in persona dei rispettivi legali rappresentanti, la Corte di appello di Catanzaro con sentenza in data 25 settembre 2017:
-dichiarava inammissibile per rinuncia l'appello proposto dal Comune di Praia a Mare nei confronti degli imputati S.S., F.A., J.DJ., L.C., R.A., B.L., C.S., C.I., B.V., F.G., P.L. e M.P.;
-dichiarava inammissibile l'appello del PM nei confronti degli imputati S.S., F.A., J.DJ., L.C., R.A., B.L., B.V. e M.P. in ordine al reato di cui al capo h);
-dichiarava inammissibile l'appello del pubblico ministero nei confronti degli imputati S.S., J.DJ., B.L., B.V. e M.P. in ordine al reato di cui al capo g);
-rigettava l'appello del pubblico ministero proposto nei confronti degli Imputati L.C., F.A. e R.A. in ordine al reato di cui al capo g);
-confermava nel resto la sentenza impugnata.
La Corte di appello respingeva in primo luogo la richiesta di rinnovazione dell'Istruttoria dibattimentale, avanzata da tutti gli appellanti in relazione alla parzialità dell'indagine peritale svolta ed all'incompetenza del collegio incaricato dal Tribunale, non integrato dalla partecipazione di un esperto chimico, in quanto superflua perché riguardante aspetti marginali e contraddetta nella sua indispensabilità per la decisione dalla stessa deduzione del Procuratore Generale presente in udienza, per il quale il materiale scientifico acquisito consentiva di affermare la responsabilità degli imputati. Quindi giustificava la ritenuta inammissibilità dell'appello del pubblico ministero per avere il rappresentante dell'accusa presente in udienza concluso per il proscioglimento degli Imputati dai reati di cui ai capi g) e h) in quanto estinti per prescrizione, causa della sopravvenuta carenza d'interesse all'impugnazione.
Quanto all'appello proposto dal pubblico ministero nei confronti degli imputati L.C., F.A. e R.A. in ordine al reato di cui al capo g), la Corte territoriale, premessa come incontestata la non corretta gestione dei rifiuti prodotti dai cicli di lavorazione dello stabilimento Mariane, non conferiti in discarica secondo procedimenti legali di smaltimento, sulla scorta di quanto accertato dal collegio peritale e dal consulenti delle parti civili, riteneva essersi verificato sul piano oggettivo un effettivo disastro ambientale, ma escludeva l'acquisizione di prova certa dell'elemento soggettivo nella forma del dolo intenzionale in capo agli imputati e del contributo dato da ciascuno di essi alla verificazione dell'evento. E ciò a ragione del limitato periodo di svolgimento di mansioni di responsabilità, dell'assenza di elementi sintomatici di precisa conoscenza di quanto avveniva nello stabilimento e di dati informativi per porre in relazione l'attività di sversamento o interramento delle sostanze pericolose ed i periodi di espletamento del rispettivi incarichi con la conseguente Impossibilità di verificare il ruolo svolto da ciascuno di essi.
1.4 Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Catanzaro, il Comune di Tortora ed il responsabile civile M.P. s.p.a..
1.4.1 II Procuratore Generale ha investito della sua impugnazione il capo della sentenza che aveva respinto l'appello avverso la sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti degli imputati L.C., F.A. e R.A. in ordine al capo g) per il periodo di condotta non estinto per prescrizione. Ha dedotto violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. per inosservanza degli arti. 434 cod.pen. e 220 cod.proc.pen. e per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Secondo il ricorrente, la Corte di appello, dopo avere respinto la richiesta di integrazione istruttoria avanzata con l'atto di gravame e reiterata dal procuratore presente in udienza, ha contraddittoriamente riscontrato la carenza di prova sulla storicità degli sversamenti, carenza che avrebbe potuto essere rimediata mediante affidamento di ulteriore incarico peritale ad un esperto chimico, che accertasse la quantità annua e la natura delle sostanze utilizzate nel ciclo produttivo della Mariane nel periodo 2001-2004, nel quale si erano succeduti al vertice dell'azienda gli imputati L.C., F.A. e R.A.. Ritenuta dimostrata la verificazione del disastro ambientale, la Corte di appello avrebbe dovuto diversamente considerare il ruolo ricoperto da ciascuno di costoro. In particolare, L.C. era stato responsabile del reparto di tintoria per quindici anni e, sebbene preposto alla vigilanza ed al controllo delle lavorazioni effettuate con manipolazione di sostanze pericolose e da cui si sprigionavano i vapori tossici, aveva omesso di vigilare sull'osservanza delle norme di sicurezza da parte dei lavoratori, di segnalare ai superiori la necessità di adeguamenti strutturali e di investimenti sui macchinari a tutela della salute dei lavoratori, come del resto ammesso dallo stesso circa il non generalizzato utilizzo di mascherine da parte di tutti i lavoratori del reparto tintoria. Inoltre, nella relazione del 14 marzo 1977, avente ad oggetto impianto di depurazione acque reflue dello stabilimento Mariane a firma dello stesso L.C. era stato descritto il funzionamento dell'impianto di depurazione ed evidenziato che "la parte secca dei fanghi addensati sul tamburo viene raschiata e successivamente interrata in apposite buche... tutti gli scarichi di fondo delle diverse vasche sono convogliati in un pozzo assorbente ricavato nelle vicinanze dell'impianto su terreno di proprietà Lanerossi ". Per il ricorrente, si è acquisita la prova del compimento di condotta, causa del pericolo di diffusione di sostanze pericolose per la salute umana, come il cromo VI, tenuto conto della morfologia del terreno, della vicinanza al mare e della prossimità di falde acquifere. Inoltre, non è stato considerato quanto riferito dal teste G.DF., operaio della Mariane, il quale all'udienza del 24 maggio 2013 ha dichiarato: di avere lavorato dal 1963 al 2001, prima in filatura e poi, dagli anni '70, alla manutenzione; il depuratore di cui aveva la cura non funzionava mai, soprattutto di notte, in quanto andava in blocco continuamente; le acque di lavorazione uscivano fuori ed andavano nel terreno; spesso finivano sulla spiaggia e lui e C. andavano a coprirle con una pala su incarico di T.; una volta avevano raggiunto la strada comunale tra il comune di Praia e quello di Tortora; negli anni '90, su incarico di T., aveva effettuato un bypass, facendo confluire i fanghi nel depuratore comunale di Praia a Mare; il sabato e la domenica i bidoni e i residui di lavorazione venivano da lui stesso gettati, insieme ad altri operai, nella fossa esterna comune posta a 4-5 metri; una volta un bidone si era aperto, rendendo visibile il colorante giallo al suo interno; i bidoni erano in plastica o in vetro; questo lavoro di interramento era effettuato da operai esterni quali G.R., L.D. e G.F.; tanto si era verificato dal 1980 al 2001; i bidoni erano sistemati dappertutto nel raggio di 500 mt.. Alla luce di tali dichiarazioni non rileva in senso contrario che L.C. per gli anni 2002 e 2003 avesse dichiarato di avere prelevato ottanta tonnellate di fanghi dal depuratore comunale, poiché nel periodo in cui aveva diretto lo stabilimento si era verificato il disastro ambientale, anche perché dai dati dei registri carico e scarico rifiuti emerge che le quantità smaltite regolarmente non coincidono per difetto con quelle prodotte dallo stabilimento, pari a 750 tonnellate l'anno nel 1993 ed a 400 tonnellate Canni nel 2000 e manca del tutto qualsiasi annotazione per il periodo 1993-1995, per il 1998 e per il 2004.
F.A. ha rivestito la carica di amministratore delegato del Gruppo M.P. nel novembre 2001 e, quale titolare della posizione di garanzia, aveva l'obbligo giuridico di redigere ed aggiornare il documento di valutazione dei rischi a tutela della salute dei lavoratori, mentre si era del tutto disinteressato dell'attività dello stabilimento Mariane e dei problemi relativi allo smaltimento dei rifiuti.
1.4.2 Il Comune di Tortora in persona del sindaco pro-tempore, a mezzo del difensore avv.to Luciano Conte ha dedotto:
a) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 573-576 cod. proc. pen. relativamente all'ipotesi di reato di cui all'art. 437 cod. pen. (capo h) per non avere la Corte di appello preso in considerazione la domanda risarcitoria proposta dalla stessa ricorrente parte civile che pure aveva proposto rituale impugnazione, nonostante l'accertamento incidentale della responsabilità degli imputati sotteso alla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Inoltre, la stessa Corte non ha motivato in ordine alle doglianze proposte con il proprio appello, che avrebbero imposto di dichiarare estinto il reato per prescrizione con la condanna di tutti gli imputati al risarcimento dei danni.
b) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 589 e 157 cod. pen. per non avere la Corte di appello rilevato che per i delitti di omicidio colposo di cui ai capi a) in danno di F.I., deceduto il 20.11.2004, di LN.A., deceduto il 13.3.2004; di M.R., deceduta il 13.3.2005; di S.N., deceduto il 4.2.2007; di cui al capo a-bis) in danno di R.F., deceduto il 19.5.2010; di cui al capo b) in danno di G.R., deceduto il 6.5.2004; capo c) in danno di L.V., deceduto in data 12,5,2007, non era maturata la prescrizione perché il termine massimo é pari ad anni quindici (sez. 4, n. 13582 del 23/01/2019, Grandi ed altri, rv. 275800; sez. 4, n. 51959 del 24/11/2016, Manca, rv. 268249; sez. 4, n. 23944 del 17/04/2013, Re, Corrado ed altri, rv. 255462).
c) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 43, 575 C.p. nella forma del dolo eventuale. La Corte territoriale non ha affatto motivato in ordine alle doglianze difensive della ricorrente in ordine alla diversa qualificazione giuridica da questa ritenuta in ordine ai decessi che andavano qualificati ex artt. 43, 575 cod. pen., sorretti da dolo eventuale. Le risultanze dell'istruttoria dibattimentale consentono di cogliere tutti gli elementi indicatori specifici del supporto psicologico della condotta da parte dei quadri dirigenziali e dei responsabili dell'azienda Mariane, rappresentati da: lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; personalità e pregresse esperienze dell'agente; durata e ripetizione dell'azione; comportamento successivo al fatto; fine della condotta e compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; la probabilità di verificazione dell'evento; conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione; contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione, nonché a possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento, tutti indicatori che emergono dai motivi di appello.
d) Vizio di motivazione per travisamento della prova e violazione dei criteri di valutazione della prova di cui all'art. 192 cod. proc. pen. in relazione all'art. 434 cod. pen.. La Corte territoriale, nell'escludere l'elemento soggettivo del reato sviluppa un percorso argomentativo assolutamente carente, senza tenere conto delle statuizioni civili da adottare e con laconica motivazione quanto ai profili di responsabilità degli imputati. L'istruttoria ha fornito elementi di conoscenza certi sui periodi di compimento dell'attività di sversamento dei rifiuti tramite le deposizioni dei testi L.P., Cu., C., G.DF., O., non contestate dalle difese degli imputati e dei responsabili civili, periodi che vanno sino al 1987 per la proprietà Eni, dal 1987 al 2004 per la proprietà M.P., sicché gli amministratori ed i dirigenti delle due società, ancorché succedutisi nel tempo, sono da ritenersi responsabili per tutti gli eventi lesivi verificatisi nel periodo precedente e successivo a quello in cui avevano svolto i loro incarichi e ciò a ragione del principio di equivalenza delle cause secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, l'imputato L.C. ha posto in essere una condotta commissiva tra il 1973 ed il 1988 e poi dal 2002 al febbraio 2003 volta a far sversare i rifiuti tossici e nocivi nell'area antistante lo stabilimento Mariane. All'imputato R.A., direttore di stabilimento dal febbraio 2003 all'aprile 2004, va addebitata la mancanza del formulario rifiuti nello stesso periodo nonostante la loro produzione; l'imputato F.A., amministratore delegato della s.p.a. M.P. era stato a conoscenza delle doglianze delle persone offese per il ricorso al giudice del lavoro proposto nel 1995 da L.P. in relazione alla malattia professionale contratta, per l'escussione dei dirigenti dello stabilimento da parte dei Carabinieri nel 1998, per l'instaurazione di procedimento penale per i reati di omicidio e lesioni personali colpose nei confronti di B.V. e di P. nel 2002, per le richieste risarcitorie avanzate dai congiunti di ex lavoratori deceduti a causa dell'attività lavorativa.
Inoltre, la Corte di appello non ha Individuato la data di consumazione della fattispecie contestata, che si colloca nel momento in cui il reato perfetto raggiunge la massima gravità riferibile alla fattispecie astratta, come affermato dalla sentenza della Corte di cassazione sez. 1 n. 7941 del 19/11/2014 nel caso Eternit.
1.4.3 Il responsabile civile società M.P. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro-tempore, per il tramite del proprio difensore, avv.to Guido Carlo Alleva, ha dedotto:
a) illogicità della motivazione in relazione al contrasto tra dispositivo e motivazione per avere la Corte di appello, dapprima nel dispositivo dichiarato in parte inammissibili, in parte respinto gli appelli proposti dal pubblico ministero e dalle parti civili in termini di conferma della sentenza di primo grado, che aveva mandato assolti gli imputati perché il fatto non sussiste, mentre poi in motivazione ha ritenuto di escludere soltanto l'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 434 cod. pen., rilievo che avrebbe imposto l'adozione di altra formula di proscioglimento e che la ricorrente ha interesse a far valere per il pregiudizio subito per effetto di pronuncia giudiziale che accerta la realizzazione del disastro ambientale senza poter esprimere un giudizio di responsabilità individuale a carico degli imputati.
b) Erronea applicazione della legge penale in riferimento all'art. 434 cod. pen. quanto all'individuazione dell'evento della fattispecie di disastro, che nell'accezione accreditata dalla giurisprudenza, anche costituzionale, e dalla dottrina individua un accadimento caratterizzato sul piano quantitativo da un fenomeno distruttivo di proporzioni non comuni, contrassegnato da danni gravi, complessi ed estesi e sul piano qualitativo dall'esposizione a concreto pericolo della vita e dell'incolumità fisica di un numero indeterminato di persone. Nel caso specifico, la Corte di appello si è affidata a criteri di accertamento privi di contenuto scientifico per avere ritenuto verificato un disastro per effetto di contaminazione del suolo, quale matrice ambientale, derivante da sversamenti di sostanze pericolose, così confondendo i rifiuti con la matrice a causa della considerazione delle analisi sui rifiuti quali dati indicativi della contaminazione del suolo, senza che comunque il fenomeno abbia assunto proporzioni notevoli per estensione e complessità, che sia stata condotta l'analisi specifica di rischio sanitario ed ambientale sito e che le considerazioni del Tribunale sulla irrealizzabilità dei processi di migrazione dei rifiuti tossici, individuate dai periti, siano state confutate.
c) Vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del disastro. La Corte di appello ha travisato le singole relazioni tecniche agli atti per averne condotto una disamina parziale o per avere omesso di valutare l'apporto dichiarativo degli esperti talvolta dal tenore correttivo o contrario a quanto esposto nelle relazioni, nonché per non avere offerto risposta alle censure o alle ricostruzioni alternative svolte dalle difese degli imputati e dei responsabili civili. In primo luogo, resta smentito in via documentale da copiosa produzione di atti e da testimonianze non considerate che presso lo stabilimento Mariane si siano gestiti i rifiuti in modo illecito, per avere la proprietà avviato i rifiuti in discarica ed avere curato tutti gli adempimenti prescritti e fatto eseguire le analisi di laboratorio da parte delle imprese incaricate di smaltire i fanghi industriali senza fosse emerso il superamento dei limiti legali, come confermato anche dal consulente prof.ssa De Rosa quanto ai campioni di acqua prelevati dai piezometri P7 e P15.
Inoltre, la Corte di appello non ha considerato che non vi è certezza sulle sostanze utilizzate nei cicli produttivi gestiti da Mariane poiché anche gli stessi periti ne individuano alcune come soltanto probabili e non di sicuro impiego. I periti si sono avvalsi degli accertamenti della prof. De Rosa, che però presentano errori in relazione a: confusione tra nozione di rifiuto e di sito ed effettuazione di campionamenti non rappresentativi della matrice ambientale, per la quale i limiti di concentrazione di sostanze chimiche sono di gran lunga inferiori a quelli valevoli per i rifiuti, di per sé destinati allo smaltimento; identificazione ambigua dei campioni e carenza dei test di validazione dei metodi impiegati; mancata verificazione della identificazione di sostanze inquinanti del tipo ammine con composti di riferimento, soprattutto in riferimento al campione denominato Z4-2, rispetto al quale non si è considerato che esso non era rappresentativo del sito, che la concentrazione di colorante azoico presente non è riferibile all'intera area di rinvenimento e che detto colorante era commercializzato liberamente in proporzioni superiori ad una tonnellata e non era rischioso per la salute; erronea interpretazione dei risultati analitici ottenuti e mancata risposta alle richieste di chiarimento con la conseguente inattendibilità del giudizio di inquinamento delle zone sottoposte a prelievo, affermato nonostante l'assenza di contaminazione secondo quanto sostenuto nella consulenza del prof. Galletti. 
In realtà, per quanto affermato dal consulente De Rosa i campioni di acqua di falda e di suolo non presentavano concentrazioni di sostanze pericolose superiori ai livelli di CSC ed il sito non avrebbe potuto essere considerato inquinato ai sensi del D Lgs. n. 152/2006.
Ad analoghi rilievi si espongono anche gli accertamenti del consulente dell'accusa Chiappetta, posto che dei due reperti 2514 e 2515 soltanto nel primo vi sarebbe la presenza di cromo totale eccedente i limiti ammessi e che comunque lo stesso non proviene da una matrice ambientale, ma da un rifiuto come affermato dallo stesso consulente, sicché doveva essere considerato in base ai criteri dettati dal D. Lgs. n. 152/2006 ed al D.M. 27/09/2010 che ha recepito la tabella 5 del precedente D.M. 3/08/2005 in vigore all'epoca del fatti, in base al quale i dati rinvenuti dal consulente in realtà sono inferiori di un ordine di grandezza rispetto al limite di legge per I rifiuti non pericolosi ed il cromo esavalente non è preso in considerazione dal test di cessione.
Anche la consulenza Brancati è stata erroneamente valutata in quanto la Corte di appello non si è avveduta che II predetto esperto, oltre ad avere utilizzato riferimenti normativi errati, ossia quelli del D.M. n. 471 del 1999, superato dal D.Lgs. n. 152/2006, ha inserito nel programma informatico impiegato dati di cui alla tabella 3 espressi in PPB (parti per miliardo), mentre egli li ha considerati come valori espressi In PPM (parti per milione) con la conseguente falsificazione dei risultati conseguiti perché le concentrazioni ottenute risultano superiori di tre ordini di grandezza rispetto al dati cui si riferiscono.
La valorizzazione della consulenza Magnanimi e Nicoletti non trova riscontro negli elementi probatori acquisiti al processo, poiché dalla relazione emerge il mancato rilevamento di ammine e metalli pesanti all'interno ed all'esterno dello stabilimento.
d) Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità in relazione al contributo tecnico del prof. Mario Russo, sebbene la parte civile Comune di Praia a Mare non avesse nominato un consulente e non lo avesse indicato nella lista ex art. 468 cod. proc. pen. ed avesse depositato fuori udienza una memoria con all'interno il contributo del prof. Russo, che non avrebbe potuto essere utilizzato.
e) Mancanza di motivazione quanto alle consulenze tecniche prodotte dalle difese degli imputati e dei responsabili civili, la cui valutazione si è limitata al rilievo circa la loro inidoneità a sovvertire il quadro offerto dai periti e dagli altri consulenti perché in grado di evidenziare solo marginali incoerenze. Manca una disamina compiuta di tali apporti e la motivazione è soltanto apparente, non contenendo l'esposizione delle ragioni della preferenza accordata ad una delle più tesi contrapposte.
1.5 In data 18 ottobre 2019 il Comune di Tortora ha depositato dei motivi nuovi, con i quali ha dedotto:
a) violazione di norme processuali in relazione al disposto dell'art. 585 cod. proc. pen. per essere il ricorso proposto dal responsabile civile M.P. s.p.a. inammissibile in quanto depositato il 4 aprile 2018 fuori termine, venuto a scadere Il 2 aprile 2018 e comunque per essere carente di interesse a seguito della formula assolutoria prescelta dalla Corte di appello.
b) In relazione al motivo quarto del ricorso principale, la Corte di appello non ha considerato che il reato di cui all'art. 434 cod. pen. ha natura permanente; nel corso del giudizio di appello, in data 5 ottobre 2016, i difensori degli imputati e del responsabile civile M.P. s.p.a. con memoria avevano dedotto che nel giugno 2016 era stata ultimata l'attività di caratterizzazione dell'area antistante lo stabilimento Mariane di Praia a Mare e che dai prelievi effettuati era risultato che il sito non era inquinato per il mancato superamento dei valori delle concentrazioni soglia di contaminazione di cui al comma 43 dell'art. 2 del D.Lgs. n. 4 del 16/1/2008, se non con riferimento al manganese, sostanza non impiegata nei processi produttivi di Mariane. In realtà, i punti indagati dal piano di caratterizzazione non hanno riguardato le zone sulle quali ARPACAL nel 2006 ed il consulente del pubblico ministero De Rosa nel 2007 avevano effettuato accertamenti, ossia la zona lato ovest e quella lato est dell'area prospiciente lo stabilimento, sicché tanto rileva per poter affermare che la consumazione del reato permanente non è cessata per la persistenza del pericolo per la salute pubblica in conseguenza della condotta commissiva dolosa del responsabile civile, che ha proceduto a bonifica inadeguata dei luoghi contaminati.
c) In relazione al terzo motivo del ricorso principale ed alla diversa qualificazione giuridica proposta dalla parte civile Comune di Tortora in ordine alla verificazione dei decessi da ricondurre alla fattispecie di omicidio volontario, sorretto da dolo eventuale, secondo la nozione delineata dalle Sez. Unite nella sentenza n. 38843 del 24/4/2014, l'omessa motivazione già denunciata emerge dalla mancata considerazione:
-della natura dei cicli produttivi di Mariane, ben conosciuti dal suoi dirigenti, della loro gestione in violazione della normativa vigente nel periodo 1970-2004 quanto ad aspetti strutturali ed impiantistici, nonché ambientali, dell'inidoneità degli impianti di ventilazione, del mancato rispetto delle norme di sicurezza ed igiene dei lavoratori, dell'inosservanza delle convenzioni internazionali sul rischio cancerogeno e sul rischio chimico, della totale assenza di sorveglianza sanitaria tra il 1970 ed il 1993-1994;
-del numero esorbitante di lavoratori deceduti per patologie tumorali, 65 accertati dal decreto di rinvio a giudizio e 42 affetti da tumore, aumentati nel corso del giudizio a 94 e 65 su un totale di circa 500 dipendenti, pari al 30%; 
-delle lamentele dei lavoratori, posti di fronte all'alternativa di accettare le condizioni insalubri o di essere licenziati e della descrizione effettuata nell'ambito delle rispettive testimonianze delle modalità di svolgimento delle lavorazioni in un ambiente unico indiviso con propagazione di vapori e polveri provenienti dal settore tintoria, non adeguatamente eliminati dagli impianti di aspirazione mal funzionanti, situazione confermata dai periti e dai consulenti di parte e dagli accertamenti condotti sugli intonaci dei muri interni dello stabilimento col rilievo della presenza della benzidina, sostanza cancerogena e sui cunicoli con rinvenimento di metalli pesanti, sostanze poi presenti anche nell'area esterna;
-dei dati di conoscenza forniti dalle schede di sicurezza dei prodotti coloranti impiegati;
-dell'insufficienza delle misure adottate a tutela dei lavoratori, quali la consegna di buste di latte a scopo disintossicante;
-del numero e della natura dei 27 infortuni sul lavoro, verificatisi tra il 1970 ed il 1993 per effetto del contatto con sostanze chimiche, e dei 49 infortuni per inalazione di polveri, a riprova della mancanza o insufficienza dei dispositivi di protezione individuale, circostanza confermata anche nella relazione di consulenza Magnanimi e Nicoletti;
-dei verbali di ispezione dell'Ispettorato del lavoro e di contravvenzione per inosservanza di disposizioni in materia di prevenzione infortuni e di tutela della salute dei lavoratori proprio in riferimento all'accumulo di polveri ed al trasporto ed impiego di acidi, nonché all'effettuazione di visite mediche periodiche;
-dell'assoluta insufficienza dei dispositivi di protezione acquistati dall'impresa rispetto alle necessità dei lavoratori esposti a rischio, secondo quanto accertato dai periti nominati dal Tribunale;
-dell'immediata comunicazione al datore di lavoro dell'assenza e della relativa causa da parte dei lavoratori affetti da patologie tumorali, che erano stati collocati in prepensionamento, oppure licenziati subito dopo il decesso, in modo da non risultare deceduti quando ancora alle dipendenze della Mariane.
1.6 La parte civile Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare col patrocinio del l'Avvocatura Generale dello Stato ha depositato memoria difensiva, con la quale ha chiesto l'annullamento della sentenza di appello, laddove ha respinto l'appello del pubblico ministero in relazione al delitto di cui al capo g) nei confronti degli imputati L.C., F.A. e R.A.. Ha rappresentato che, richiamati i motivi di ricorso posti a fondamento dell'impugnazione del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Catanzaro anche quanto all'elemento psicologico del reato, le emergenze processuali indicano la responsabilità degli imputati in ordine a fattispecie di reato, accertato nella sua materialità, fonte di ingenti danni patrimoniali e non patrimoniali, incluso il danno d'immagine per lo Stato, secondo quanto dedotto nell'atto di costituzione di parte civile. Ha quindi chiesto che, ai sensi dell'art. 311, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, gli imputati siano condannati al ripristino dei luoghi inquinati, ovvero al risarcimento dei danni per equivalente.
1.7 Le parti civili Associazione Italiana per il World Wide Fund for nature (W.W.F. Italia) ong-onlus e Verdi Ambiente e società onlus-V.A.S., in persona dei rispettivi legali rappresentanti, con memoria hanno dichiarato di condividere i motivi proposti dal Procuratore Generale presso la Corte di appello di Catanzaro.
1.8 L'imputato F.A. a mezzo dei difensori, avv.ti Niccolò Ghedinl e Paolo Giacomazzo, ha dedotto l'inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Catanzaro, perché: a)proposto avverso una doppia pronuncia conforme di assoluzione, sicché il ricorso a norma dell'art. 608, comma 1-bis, cod. proc. pen. è ammesso soltanto per dedurre i vizi di cui all'art. 606, comma 1 lett. a), b) e c) che si sostanziano in violazioni della legge; b) contenente la deduzione di questioni attinenti al merito della vicenda e quindi non consentite nel giudizio di legittimità; c) relativo a fattispecie di reato di cui al capo g), che si è estinta per prescrizione nell'aprile 2019 o al più a luglio 2019 con la conseguente sopravvenuta carenza d'interesse. Ha altresì eccepito l'inammissibilità del ricorso proposto dal Comune di Tortora per i motivi che avevano inficiato anche l'appello della stessa parte civile e perché incentrato su doglianze non consentite nel giudizio di cassazione. Ha quindi dedotto che nel successivo procedimento penale intentato dalla Procura di Paola a carico anche di F.A. il collegio peritale incaricato dal Tribunale ha escluso la presenza di sostanze pericolose all'esterno ed all'Interno dello stabilimento Mariane, il che conferma l'insussistenza del delitto di disastro ambientale.
1.9 L'imputato R.A. per il tramite del difensore, avv.to Francesco Paolo Sisto, ha dedotto l'inammissibilità del ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di appello di Catanzaro, in quanto:
a) il primo motivo attiene a profili di merito sulla mancata individuazione di qualità e quantità delle sostanze sversate nel terreno antistante lo stabilimento Mariane, all'omessa rinnovazione dell'istruttoria per effettuare nuovo accertamento peritale, questione che non può costituire motivo di ricorso per cassazione, a carenze motivazionali non deducibili ai sensi dell'art. 608, comma 1 -bis, cod. proc. pen.;
b) il secondo motivo deduce ulteriori vizi non deducibili, perché afferenti alla motivazione della sentenza impugnata;
c) nessuno specifico riferimento è dato rinvenire alla posizione dell'ing. R.A. ed alla ritenuta sua estraneità ai reati contestati, rispetto alla quale la statuizione assolutoria è corretta e tiene conto del limitato periodo di espletamento delle mansioni di direttore dello stabilimento tra 2003 e la sua definitiva chiusura del 2004 e dell'avvenuta bonifica delle vasche di depurazione finalizzate allo smaltimento dei fanghi residui, attività conclusasi nel settembre 2015, come attestato dal compartimento marittimo della Guardia Costiera di Vibo Valentia, il che rende superfluo un nuovo eventuale accertamento peritale.
1.10 In data 23 ottobre 2019 il Comune di Tortora ha depositato memoria di replica alle deduzioni proposte dalla difesa di F.A., sostenendone l'inammissibilità, perché volte a proporre censure che non sono state oggetto di rituale deduzione mediante ricorso per cassazione; inoltre, ha rappresentato che la perizia espletata in altro procedimento penale pendente innanzi al Tribunale di Paola è stata oggetto di contestazioni per la parzialità degli accertamenti, ma che la stessa conferma la natura permanente del reato e la sua perdurante consumazione sino al momento attuale.








Diritto




I ricorsi proposti dal Procuratore Generale e dal responsabile civile M.P. s.p.a. sono inammissibili, mentre va accolta l'impugnazione proposta dalla parte civile Comune di Tortora nei confronti di tutti gli imputati indicati nell'atto di accusa, ad eccezione che di M.P., deceduto nelle more della presente decisione, con il conseguente parziale annullamento della sentenza impugnata e rinvio per nuovo giudizio al giudice civile, competente per valore in grado di appello, secondo la disposizione di cui all'art. 622 cod. proc. pen..
1.L'iniziativa impugnatoria della parte pubblica, come già esposto, investe il solo capo della sentenza di appello che ha confermato l'assoluzione degli imputati L.C., F.A. e R.A. dal delitto di disastro innominato, di cui al capo g).
1.1 La verifica circa la fondatezza dell'impugnazione è preclusa in questa sede dalla considerazione dell'intervenuta maturazione, al momento attuale e successivamente alla sentenza di appello, della causa estintiva del reato della prescrizione. Tale conclusione necessita di alcune premesse in punto di fatto e di rilievi esplicativi in punto di diritto.
1.2 Sotto il primo profilo, è pacifico in atti e non contestato nemmeno dal Procuratore ricorrente, che l'attività produttiva di Manifattura Lane Gaetano P. e figli s.p.a. e l'utilizzo a fini industriali dello stabilimento e del sito di Praia a Mare sono cessati in via definitiva il 4 aprile 2004 e che con essa è terminata anche l'attività materiale che ha dato luogo al disastro, secondo quanto accertato nella sentenza di appello.
1.3 Il delitto di disastro ambientale, incriminato dall'art. 434 cod. pen., costituisce fattispecie penale a consumazione anticipata, in quanto la realizzazione del pericolo concreto del disastro è già idonea di per sé a consumare il reato, mentre il verificarsi di un fenomeno distruttivo funge da circostanza aggravante rientrante nella previsione testuale di cui al comma 2.
Nella definizione fornita con esemplare chiarezza da sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, P.C., R.C. e Schmidheiny, rv. 262788, che ha recepito le indicazioni ermeneutiche della giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenza n. 327 del 2008) e richiamato il comune significato del termine, evocativo di calamità o evento catastrofico, la nozione giuridica di disastro identifica "un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi" e "sul piano della proiezione offensiva, l'evento deve provocare - in accordo con /'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la "pubblica incolumità") - un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti”.
Per la sua integrazione è richiesto il dolo, che è ritenuto intenzionale rispetto all'evento di disastro, eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità: tale ricostruzione, suggerita da autorevole dottrina e recepita dalla giurisprudenza, è indotta dalla formulazione testuale della norma incriminatrice, richiedente il compimento di un fatto "diretto a cagionare il crollo...o un altro disastro", da ritenersi il risultato perseguito dalla condotta, quando "dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità", ossia dal fatto diretto .a cagionare il disastro possa verificarsi anche un più grave evento che esponga a rischio la pubblica incolumità (sez. 1, n. 41306 del 7/10/2009, Scola, in motivazione, in cui si afferma che, con riferimento all'evento-disastro, è «possibile ipotizzare la tipologia teoretica del dolo eventuale soltanto allorché la legge non richieda, espressamente, che il soggetto agente si sia determinato aita consumazione della condotta con un determinato fine»; sez. 1, n. 1332 del 14/12/2010, dep. 2011, Zonta, rv. 249283; sez. 4, n. 36626 del 5/5/2011, Mazzei, rv. 251428).
La struttura quale delitto di attentato, eventualmente aggravato dall'evento costituito dalla verificazione del disastro, comporta conseguenze anche ai fini dell'individuazione del momento che segna la sua consumazione, che assume rilievo per la soluzione del tema relativo all'operatività della prescrizione. Richiamata la distinzione, accreditata dalla dottrina, tra perfezione e consumazione del reato ed individuata la prima nella realizzazione di tutti gli elementi della fattispecie nel loro contenuto "minimo" preteso dal legislatore, che supera lo stadio del tentativo, la seconda nel momento in cui si chiude l'iter criminoso ed il reato perfetto raggiunge la massima gravità concreta riferibile alla fattispecie astratta (sez. 4, n. 15444 del 18/01/2012, Tedesco, rv. 253501; sez. 3, n. 46189 del 14/07/2011, Passarlello, rv. 251592; sez. 4, n. 36626 del 05/05/2011, Mazzei, cit.; sez. 1, n. 1332 del 14/12/2010, Zonta, cit.; sez. 1, n. 7629 del 24/01/2006, Licata, rv. 233135), deve aderirsi all'impostazione secondo la quale nel reato di pericolo aggravato dall'evento, che costituisce la finalità della condotta, la consumazione coincide col momento della sua verificazione (sez. 4, n. 48548 del 25/09/2018, Semeraro, rv. 274493; sez. 4, n. 18384 del 20/12/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Medicina Democratica, rv. 273262; sez. 4, n. 36626 del 05/05/2011, Mazzei, cit.; sez. 1, n. 2181 del 13/12/1994, Graniano, rv. 200414). Pertanto, una volta riferite tali considerazioni di principio al delitto di cui all'art. 434, comma 2, cod. pen., deve convenirsi con i precedenti di questa Corte che "la realizzazione dell'evento disastro funge da elemento aggravatone ma la data di consumazione del reato comunque coincide con // momento in cui l'evento si è realizzato" (sez. 1, n. 7941/2015 citata).
1.4 Tanto premesso, assume il ricorrente Comune di Tortora nel contesto dell'ultimo motivo di ricorso che la Corte di appello non avrebbe individuato la data di consumazione dell’ipotesi delittuosa contestata, che appartiene alla categoria dei reati permanenti o ad effetti permanenti, in quanto il disastro ambientale, "pregiudicando la salubrità dell'ambiente e creando pericolo per la salute delle persone è un fatto che si realizza proprio con l'amplificarsi dell'evento previsto dal comma 2 ma anche con l'insorgenza di nuove concrete situazioni di pericolo in altre persone fintanto che l’agente, che aveva dato inizio alla serie causale, ometta di fare quanto è nelle sue possibilità per impedire che ciò che aveva iniziato continui a sviluppare ed amplificare tali pericoli”. Nella prospettazione della predetta ricorrente anche dopo la cessazione del cicli produttivi e l'abbandono dell'area l'omessa esecuzione di interventi di bonifica avrebbe amplificato l'evento della compromissione distruttiva dell'ambiente, che verrebbe a costituire un ulteriore segmento dei comportamenti illeciti contestati.
Ad avviso del Collegio, l'assunto non può essere condiviso, perché viene a collocare la consumazione del reato, non nel momento della verificazione dell'evento dell'alterazione peggiorativa dello stato dei luoghi, fonte di pericolo per l'incolumità pubblica e conseguenza della condotta tenuta dagli imputati, ma la considera come protratta in dipendenza e sino al perdurare nel tempo della situazione di pericolo insita nella contaminazione dell'area.
Non considera però che, nell'accezione pacificamente accreditata da tutti gli interpreti, sono definibili reati permanenti, per i quali, a norma dell'art. 158 cod. pen., la prescrizione decorre dalla cessazione della consumazione, quelli nei quali la consumazione prosegue oltre il momento di inizio della realizzazione della condotta illecita in dipendenza del volontario protrarsi nel tempo della condotta stessa (Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro, rv. 221400; Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Lauriola, rv. 213932), caratteristica che li distingue dai reati istantanei ad effetti permanenti, nei quali si verifica il perdurare delle sole conseguenze dannose del reato, non già del comportamento antigiuridico che ne costituisce la causa, sicché la prescrizione inizia a decorre dal momento della realizzazione della condotta tipica, delineata dalla norma incriminatrice.
Deve piuttosto aderirsi e ribadirsi quanto già osservato in una situazione fattuale analoga di disastro ambientale, derivante dalla diffusione di polveri di amianto, nella citata sentenza di questa sezione n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, citata, ossia che, se "il disastro è da intendere.... come un fenomeno distruttivo naturale di straordinaria importanza (Corte cost. n. 327 del 2008)" e se "il pericolo per la pubblica incolumità, in cui risiede la ragione della incriminazione e che individua il bene protetto, funge da connotato ulteriore del disastro e serve a precisarne sul piano della proiezione offensiva le caratteristiche (Corte cost. n. 327 cit.); il persistere del pericolo, e tanto-meno il suo inveramento quale concreta lesione dell'incolumità, non sono richiesti per la realizzazione del delitto (Corte cost. cit.) e non essendo elementi del fatto tipico non possono segnare la consumazione del reato", dovendosi differenziare sul piano concettuale l'evento costituito dal pericolo dagli effetti che ne sono derivati. Ne discende che: «Nel delitto previsto dal capoverso dell'art. 434 cod. pen., il momento di consumazione del reato coincide con l'evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione; ne consegue che non rilevano, ai fini dell'individuazione del "dies a quo" per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro».
In altri termini i pregiudizi effettivi per la salute di singoli individui o l'ulteriore deterioramento del sito, verificatisi successivamente al realizzarsi del disastro, non sono idonei a determinare lo slittamento in avanti del momento di decorrenza iniziale del termine prescrizionale, che va individuato nel tempo della cessazione dell'attività produttiva, dalla quale si era generata la contaminazione dell'ambiente lavorativo e del territorio circostante, ossia nella data del 4 aprile 2004.
Né, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso proposto dal Comune di Tortora, può assegnarsi rilievo aN'omessa bonifica del sito nel periodo successivo alla chiusura dello stabilimento: da un lato si tratta di comportamento omissivo, che non è contemplato nell'imputazione di cui al capo g), quindi non è incluso nella contestazione formale dell'accusa e non può ritenersi ad essa implicito, riguardando aspetti fattuali distinti rispetto alle condotte dirette a cagionare un disastro in essa descritte come: "riversamento continuo e ripetuto sull'area antistante il predetto stabilimento di rifiuti speciali pericolosi di origine industriale" ed interramento nel 
suolo "di bidoni e fusti -alcuni dei quali contenenti residui di coloranti azioici....nonché materiale (amianto e lana di vetro) proveniente dalle attività di ristrutturazione dello stabilimento". Inoltre, la norma incnmmatnce non contempla e non punisce una condotta omissiva distinta e successiva a quella commissiva, consistente nella mancata rimozione della situazione illecita determinata, sicché ritenere la stessa Implicita nella contestazione di un comportamento antigiuridico attivo comporterebbe la violazione del principio di tipicità e di tassatività, che presidiano il sistema di diritto penale sostanziale. In tal senso si è già osservato da parte di questa Corte nella sua più autorevole espressione in ordine alla configurabilità del reato permanente che alla condotta lesiva del bene giuridico protetto non inerisce anche "un obbligo secondario di rimozione e se // suo contenuto fosse quello di ripristinare l'assetto degli interessi offesi con l'azione o di attuare gli scopi negletti con l'omissione, non si comprenderebbe perché tale obbligo non dovrebbe operare rispetto a ogni fattispecie che non contempli la distruzione del bene protetto, qualificando come permanente ii relativo reato (in tal modo, il furto o la ricettazione - universalmente riconosciuti come reati istantanei - dovrebbero essere considerati reati permanenti fino alla restituzione al proprietario del bene sottratto)" (Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro, cit.; Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Laurlola, cit.).
In definitiva, stante l'inizio del decorso del termine di prescrizione dal 4 aprile 2004, non occorrendo accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, al momento attuale sono trascorsi oltre i quindici anni, -pari al termine massimo di dodici anni, prorogato di un quarto-, previsti per la maturazione della prescrizione del delitto di cui all'art. 434, comma 2, cod. pen. dall'art. 157 cod. pen..
1.5 II rilievo dell'intervenuta estinzione per prescrizione del reato non è impedito dalla considerazione della questione sollevata in punto di diritto dalla difesa dell'imputato, perché questa Corte ne facesse oggetto di valutazione ufficiosa in assenza di ricorso proposto dalla stessa parte, secondo la quale, per effetto dell'introduzione nell'ordinamento delle nuove fattispecie di delitti ambientali, operata dalla legge 22 maggio 2015, n. 68, si sarebbe verificato un fenomeno di successione nel tempo di norme penali diverse.
Il legislatore ha inserito nel libro II del codice penale il nuovo Titolo VI bis, dedicato ai delitti contro l'ambiente; con l'art. 452-quater cod. pen. alla rubrica "disastro ambientale" ha sanzionato chiunque abusivamente cagioni un disastro ambientale, definito al secondo comma in via alternativa come: alterazione irreversibile deH'equilibrio di un ecosistema (nr. 1); alterazione deM'equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali (nr. 2); offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l'estensione della compromissione o dei suoi effetti 
lesivi, ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo. E' chiara la configurazione delle ipotesi criminose previste nei primi due numeri del secondo comma quali reato di evento, mentre per la terza i primi commentatori si sono orientati a ravvisarvi una fattispecie di pericolo concreto; altrettanto evidente il forte inasprimento del trattamento punitivo.
L'art. 452-ò/s cod. pen. punisce, invece, la meno grave fattispecie di inquinamento ambientale, definito quale «compromissione e deterioramento significativi e misurabili» dell'ecosistema, rispetto al quale l'art. 452-quater cod. pen. assume un ruolo sussidiario.
L'analisi comparativa delle fattispecie dei reati ambientali rispetto a quella di disastro innominato induce ad escludere che quest'ultima sia interessata da abrogazione espressa o implicita per effetto dell'introduzione delle nuove ipotesi di reato, posto che l'art. 434 cod. pen., operante quale norma di chiusura del sistema di protezione del bene giuridico tutelato, è riferito alla più vasta categoria del disastro doloso, è posto a salvaguardia della pubblica incolumità, ossia della vita e dell'integrità fisica delle persone e non del solo ambiente, che di per sé può essere compromesso senza arrecare pregiudizi a quanti vi siano insediati, e presenta una diversa formulazione rispetto al nuovo art. 452-quater. L'art. 434 al comma 1 configura un delitto di attentato che anticipa la tutela rispetto al prodursi del disastro e, in riferimento all'ipotesi delineata al comma 2, neN'inserire quale evento il disastro avvenuto, pretende la verificazione di un fenomeno naturale di ampia dimensione, diffusivo e di straordinaria importanza, che pregiudica il bene protetto in misura più grave rispetto aN'inquinamento significativo e misurabile dell'ambiente di cui aN'art. 452-ò/s, caratterizzato da una portata offensiva di gran lunga inferiore rispetto al fatto disastroso, ma anche della forma di maggiore gravità prevista daN'art. 452-quater, comma 1, n. 3).
Nella lettura offertane dalla dottrina e dalle prime pronunce di legittimità occupatesi del tema, sono emersi plurimi profili di differenziazione tra le fattispecie a raffronto, consistenti, oltre che nel diverso bene giuridico protetto, nei requisiti di necessaria alterazione compromissoria dell'ambiente e dell'abusività della condotta, pretesi soltanto per i nuovi reati ambientali, così da qualificare il rapporto con l'art. 434 cod. pen. quando in fatto il disastro investa l'ecosistema in termini di autonomia e non di continuità normativa e di specialità (sez. 3, n. 29901 del 18/06/2018, Nicolazzo ed altri, rv. 273210). Il che porta ad escludere che possa parlarsi di successione di norme penali, destinate a tutelare il medesimo interesse sostanziale; al contrario la loro compresenza nell'ordinamento giuridico si deve risolvere alla luce della presenza di una clausola di riserva, introdotta dal legislatore proprio allo scopo di risolvere le difficoltà di coordinamento con l'assetto regolatore preesistente. Nell'incipit dell'art. 452-quater cod. pen. è inserita la 
seguente previsione: «fuori dai casi previsti dall'art. 434», che, secondo le indicazioni ricavabili dai lavori preparatori e tenuto conto della mancata esplicita abrogazione deH'art. 434 cod. pen., assolve alla funzione di garantire la perdurante applicazione di quest'ultima disposizione, la cui vigenza si è inteso mantenere in riferimento ai processi per fatti commessi prima dell'intervento novellatore.
Sotto diverso profilo la clausola autorizza ad escludere che I fatti di disastro ambientale commessi prima della riforma possano essere ritenuti leciti, perché non rientranti nella previsione più specifica dell'art. 452-quater cod. pen. e, al contrario, che gli stessi siano ad essa rapportabili in conseguenza della sua applicazione con effetti retroattivi: in questo caso l'operazione interpretativa, comportando più elevati limiti di pena, si risolverebbe in un pregiudizio per l'autore del reato in contrasto con quanto disposto daN'art. 2 cod. pen.. L'indicazione fornita dal legislatore per la perdurante vigenza dell'art. 434 cod. pen. per le vicende illecite verificatesi prima della legge n. 68/2015 conferma la non riconoscibilità di un fenomeno di successione nel tempo di leggi diverse ed esclude che all'art. 452- quater sia affidata la funzione di incriminazione di comportamenti in precedenza leciti: la nuova norma detta una definizione dell'evento disastroso che colpisca l'ambiente in termini più puntuali e specifici quanto alla descrizione degli elementi costitutivi della fattispecie, in precedenza delineati in modo più generico dall'art. 434 cod. pen., col recepimento di indicazioni ermeneutiche già fornite dall'elaborazione giurisprudenziale, in funzione di una maggiore tipizzazione del fatto di reato, nonché l'inasprimento dell'apparato sanzionatorio.
Né a conclusioni diverse può pervenirsi dall'analisi comparativa tra l'art. 434 ed il nuovo art. 452-ò/s, che incrimina l'inquinamento ambientale: la descrizione normativa degli elementi tipici del delitto rivela il rapporto con il successivo art. 452-quater perché entrambe le figure criminose sono poste a tutela dello stesso bene giuridico, di cui reprimono l'aggressione in modo diversificato a ragione delle caratteristiche e degli effetti di graduale e crescente gravità, nel senso che da una forma meno lesiva di compromissione o di deterioramento di singole componenti ambientali o dell'ecosistema perché non totale ed assoluta, ma suscettibile di misurazione e di rimedio, contemplata dalla prima disposizione, si passa all'alterazione definitiva ed irreversibile o eliminabile in base a procedure di particolare onerosità o mediante misure eccezionali, prevista dalla seconda. Per tali ragioni la clausola di riserva a favore dell'applicazione deN'art. 434 cod. pen., inserita formalmente nel solo testo dell'art. 452-quater, deve ritenersi operante anche in riferimento alla previsione dell'art. 452-b/s, norma che, pertanto, non è applicabile ai processi in corso di celebrazione per fatti di disastro ambientale, commessi prima della sua entrata in vigore (sez. 1, n. 58023 del 17/05/2017, Pellini ed altri, rv. 271840). 
Infine, resta escluso che possano rilevarsi nel presente giudizio di legittimità le condizioni di applicabilità della speciale attenuante di cui all'art. 452-decies cod. pen., che ha introdotto il ravvedimento operoso in materia ambientale. Per quanto si tratti di disposizione più favorevole rispetto alla disciplina vigente sino all'anno 2004, anche a volerne ammettere la riferibilità, tutt'altro che agevole sul piano testuale, al delitto di disastro innominato, il suo riconoscimento non può comportare effetti favorevoli per la posizione del ricorrente. In primo luogo la deduzione non è apprezzabile, perché da un lato è Impedita dall'assoluta carenza di dati conoscitivi sull'effettiva bonifica dell'area e sull'eliminazione dei pregiudizi arrecati, la cui indisponibilità non può essere supplita con la produzione documentale che la difesa dell'imputato F.A. ha offerto, tratta dal compendio probatorio di distinto processo, ma comunque non acquisibile nel processo di cassazione perché, riportando la data del 7 febbraio 2019, non previamente sottoposta alla cognizione del giudice di appello e comunque riguardante questioni fattuali da dibattere nei gradi di merito (ex multis: sez. 1, n. 42817 del 06/05/2016, Tulli, rv. 267801; sez. 3, n. 5722 del 07/01/2016, Sanvitale, rv. 266390) e nel rispetto della sbarramento temporale dell'apertura del dibattimento di primo grado, dall'altro la stessa non sortirebbe effetto in grado di ostacolare la declaratoria di prescrizione del reato di disastro innominato, perché incidente in via esclusiva sul trattamento punitivo, di cui consente la diminuzione da metà a due terzi, senza però escludere la responsabilità penale e quindi anche civile.
Tali rilievi pregiudicano ogni possibilità di sollevare incidente di incostituzionalità, secondo quanto dedotto dalla difesa del F.A., in relazione all'art. 434 cod. pen. nella parte in cui non contempla la possibilità, riconosciuta dalle norme sopravvenute introdotte dalla legge n. 68 del 2015, di riferire al disastro ambientale l'attenuante del ravvedimento operoso per difetto di rilevanza della questione. Anche la pronuncia da parte della Consulta di eventuale sentenza additiva, che incidesse sulle previsioni della norma denunciata come
incostituzionale sotto il profilo dedotto, non potrebbe sortire l'effetto di impedire la declaratoria di estinzione del reato e nemmeno di escluderne i presupposti applicativi in funzione del disposto dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. e della prioritaria formula assolutoria sotto il profilo della prova evidente e non contestabile dell'insussistenza del fatto di reato, della mancata commissione da parte dell'imputato, della carenza dell'elemento soggettivo o della mancata previsione dello stesso come reato.
1.6 La constatazione dell'estinzione del reato, per il quale era intervenuta pronuncia assolutoria, pregiudica per carenza d'interesse l'ammissibilità del ricorso del Procuratore Generale, il cui eventuale accoglimento non potrebbe sortire nessun esito concreto ai fini dell'affermazione della responsabilità degli imputati 
contro i quali è stato diretto, dovendo sempre prevalere la declaratoria della causa estintiva.
6.1 Si è già affermato in giurisprudenza, e qui si ribadisce, che quando l'impugnazione del pubblico ministero deduca profili di carenza nell'accertamento dei fatti sottostante a pronuncia assolutoria la maturazione nel frattempo intervenuta della causa estintiva della prescrizione del reato determina l'inammissibilità del mezzo di impugnazione, che non può conseguire un risultato, oltre che giuridicamente corretto, favorevole sul piano pratico (sez. 4, n. 16029 del 28/02/2019, Pg in proc. Briguglio, rv. 275651; sez. 1, n. 2209 del 10/01/2018, P.G. in proc. Conti e altri, rv. 272367; sez. 4, n. 23178 del 15/03/2016, P.G. in proc. Tremontini, rv. 267940; sez. 6, n. 16147 del 02/04/2014, Pg in proc. Re, rv. 260121; sez. 6, n. 27355 del 15/03/2013, Benazzo, rv. 255740), né tendere alla tutela di un interesse concreto, obiettivamente riscontrabile, anche se rispondente a una ragione esterna al processo (sez. 5, n. 30939 del 24/06/2010, P.G. in proc. Mangiafico, rv. 247971), interesse che, nel caso di specie, il ricorrente non ha allegato.
La nozione di interesse a impugnare va intesa, nell'accezione utilitaristica dettata dall'art. 568, comma 4, cod. proc. pen., quale condizione dell'impugnazione e quale requisito soggettivo del diritto esercitato attraverso la sua proposizione. Il profilo utilitaristico si ravvisa, in negativo nella finalità processuale di rimuovere la situazione di svantaggio derivante dalla decisione giudiziale alla quale si reagisce, in positivo nel conseguimento di decisione più vantaggiosa in luogo di quella contestata. Sul punto, giova richiamare l'orientamento consolidato di questa Corte, per il quale "Nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul concetto di soccombenza - a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti - ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un'utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo» (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, rv. 251693). In conseguenza l'interesse, oltre a presentarsi come immediato, concreto ed attuale, deve sussistere, sia al momento della proposizione dell'impugnazione, sia in quello della sua decisione, affinché questa possa produrre effetti incidenti sulla situazione giuridica devoluta alla verifica del giudice dell'Impugnazione.
6.2 Inoltre, non può prescindersi dalla considerazione che il ricorso del Preocuratore Generale ha devoluto anche il riscontro di vizi motivazionali che 
inficerebbero la decisione assolutoria, vizi che però, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità, in quanto l'eventuale annullamento con rinvio avrebbe l'effetto di imporre al giudice di merito nel prosieguo del giudizio l'obbligo di rilevare immediatamente la causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, rv. 244275), cosa che vanificherebbe ogni effetto vantaggioso per la parte pubblica e protrarrebbe indebitamente la durata del processo.
6.3 Diverse conclusioni non sono consentite nemmeno in ragione della partecipazione al processo delle parti private, che hanno agito, almeno una, anche nel presente grado nei riguardi degli imputati e dei responsabili civili. Ed infatti, l'interesse di tali parti civili ad una pronuncia che riconosca la fondatezza delle loro pretese risarcitone può legittimare un annullamento della sentenza assolutoria, in presenza della sopravvenuta causa di estinzione, per i soli profili della responsabilità civile, secondo quanto disposto dagli artt. 576 e 622 cod. proc. pen., tutelabili ad iniziativa esclusiva delle stesse parti e non del pubblico ministero, neppure in funzione vicaria (Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006, Negri ed altro, rv. 233918; sez. 6, n. 16147 del 02/04/2014, Re, rv. 260121; sez. 2, n. 46257 del 17/10/2013, Ranocchia, rv. 257429; sez. 5, n. 9638 del 24/11/2011, Banchero, rv. 249713).
Va dunque ribadito che nessun interesse, concreto ed attuale, sorregge l'iniziativa impugnatoria del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Catanzaro, il che pregiudica la possibilità di condurre la disamina nel merito delle doglianze proposte.
2. Analoghe conclusioni vanno raggiunte quanto al ricorso proposto dal responsabile civile M.P. s.p.a..
2.1 In primo luogo, si rileva la tempestiva proposizione deN'impugnazione, siccome avvenuta mediante deposito presso la cancelleria del Tribunale di Milano in data 30 marzo 2018, in conformità alle modalità di presentazione consentite alle parti private ed ai difensori dall'art. 582, comma 2, cod. proc. pen.. Non rileva dunque il momento di trasmissione dell'atto alla cancelleria di questa Corte, adempimento esecutivo successivo, che non deve avvenire nel rispetto del termine prescritto dall'art. 585 cod. proc. pen..
2.2 Nel suo contenuto di contestazione il ricorso si appunta sul denunciato contrasto tra il dispositivo e la motivazione della sentenza di appello, che, pur avendo confermato l'assoluzione degli imputati L.C., F.A. e R.A. dal delitto di cui al capo g), disposta dal Tribunale di Paola perché ¡1 fatto non sussiste, nel giustificare la decisione ha argomentato sulla ravvisata carenza del solo elemento soggettivo del dolo.
2.3 Osserva la Corte che la lettura della sentenza impugnata avvalora 
l'illustrazione compiutane in modo puntuale e convincente dal Procuratore Generale nel corso della discussione orale. In primo luogo, il dispositivo esprime testualmente la decisione di inammissibilità dell'appello del pubblico ministero in ordine ai reati di cui ai capi h) e g) nei confronti di tutti gli imputati, ad eccezione di Lomononaco, F.A. e R.A. e di rigetto della stessa impugnazione quanto al reato di cui al capo g) nei confronti di questi ultimi, cui segue la statuizione di conferma della sentenza di primo grado. Pertanto, anche qualora fosse ravvisabile un'effettiva insanabile contraddizione con l'apparato giustificativo della stessa sentenza, la prevalenza del dispositivo, -che condensa ed esterna mediante lettura alle parti in udienza la statuizione giudiziaria-, consente di escludere una modifica in senso peggiorativo per gli imputati, e di conseguenza anche per i responsabili civili, delle determinazioni già assunte all'esito del primo grado di giudizio.
2.4 Inoltre, seppur con un percorso argomentativo tutt'altro che felice, la Corte distrettuale, dopo avere esposto le ragioni della ravvisata materialità del delitto contestato al capo g) nella forma aggravata del disastro ambientale verificatosi, ha riscontrato un'insuperabile carenza dimostrativa del ruolo individualmente svolto da ciascun imputato e dell'apporto causale al verificarsi della contaminazione degli ambienti lavorativi e del suolo circostante lo stabilimento, focalizzando la propria disamina "sul limitato periodo di responsabilità individuato per ogni singola posizione, sulla mancanza di elementi sintomatici di precisa conoscenza di quanto avveniva nella fabbrica di Praia a Mare, sul versante dello smaltimento delle sostanze, sulla assenza di precisa correlazione tra i periodi di sversamento e quelli di individuata responsabilità...La mancanza di prova -quasi l'impossibilità- sulla 'storicità' degli sversamenti che abbiano inciso profondamente sulle dimensioni del rischio ambientale, non consente di correlare il profilo di responsabilità personale con la specifica attività di inquinamento del terreno antistante la fabbrica Mariane, nei periodi dell'attività aziendale indicati". Ha finito per concludere che: "risulta quindi impossibile identificare e diversificare il ruolo causale svolto da ciascuno degli imputati, di tal che, ove mentalmente ricollocato il giudizio sulla responsabilità individuale dei tre imputati oggetto dell'odierna impugnazione alla prima fase processuale, la formula assolutoria corretta non sarebbe potuta andare oltre quella "per non aver commesso il fatto" o "perché il fatto non costituisce reato".
Tanto convince del fatto che, pur a fronte di enunciati non sempre espressi in termini chiari e con perfetta padronanza degli istituti giuridici affrontati, la sentenza finisce per negare la addebitabilità a ciascun imputato di una specifica porzione di condotta e quindi di un apporto individuabile e causalmente efficiente nel determinismo di produzione dell'evento disastro, il che equivale ad escludere la componente oggettiva prima ancora che l'elemento psicologico del reato. Da ciò la 
riconoscibile sovrapponibilità di decisioni nei due gradi di merito e l'assenza di qualsiasi pregiudizio per la posizione sostanziale dei responsabili civili.
2.4 L'art. 575, comma 1, cod. proc. pen. detta la disciplina dell'impugnazione del responsabile civile, stabilendo che essa può essere proposta "contro le disposizioni della sentenza riguardanti la responsabilità dell'imputato e contro quelle relative alla condanna di questi e del responsabile civile alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese processuali", mentre al terzo comma completa la previsione nel senso che "il responsabile civile può altresì proporre impugnazione contro le disposizioni della sentenza di assoluzione relative alle domande proposte per il risarcimento del danno e per la rifusione delle spese processuali", ossia alle domande dallo stesso proposte nei confronti della parte civile o del querelante ai sensi degli artt. 541, comma 2, e 542 cod. proc. pen. per conseguire il risarcimento del danno, causato per colpa grave dalla proposizione della domanda civile respinta o il ristoro delle spese processuali.
La norma circoscrive l'ambito oggettivo nel quale è consentita l'impugnazione del responsabile civile alle statuizioni, di condanna o di assoluzione, che nei termini predetti spiegano effetti, in modo immediato e diretto, sul rapporto processuale tra lo stesso ed il danneggiato in relazione al comportamento illecito tenuto dall'imputato ai sensi degli artt. 185 cod. pen. e 2043 e ss. cod. civ.. La considerazione delle limitazioni imposte dall'art. 575 citato alla luce del principio di tassatività delle impugnazioni, dettato dall'art. 568 cod. proc. pen., induce a negare che il responsabile civile sia legittimato ad impugnare sentenza di assoluzione, che non ne leda sotto qualsiasi profilo gli interessi, perché non ne ha stabilito la condanna, né a risarcire i danni o a disporre la restituzione, né al rimborso delle spese di costituzione in giudizio, in favore della parte civile. Né a conclusioni difformi può pervenirsi a ragione del vantaggio conseguibile da un diverso percorso argomentativo che sorregga il verdetto assolutorio, pur confermato nel grado di appello, perché, a fronte di immutato esito del giudizio che consolida la statuizione di esenzione da ogni forma di responsabilità, difetta anche l'interesse concreto ed attuale a contestare e rimuovere sentenza che non arreca nessun pregiudizio. Conclusione questa avvalorata dalla considerazione che nel quadro delle disposizioni dettate dall'art. 652 cod. proc. pen. le sentenze penali di assoluzione fanno stato nel giudizio civile o amministrativo, promosso dal danneggiato, quanto all'accertamento di insussistenza del fatto, di mancata commissione da parte dell'imputato, o della sua commissione a fronte di adempimento di un dovere o nell'esercizio di legittima facoltà e nel caso specifico.
La sentenza impugnata dalla M.P. s.p.a., non soltanto non contiene decisione di condanna a suo carico, ma nemmeno respinge eventuali sue domande proposte contro la parte civile ai sensi degli artt. 541, comma 2, e 542 cod. proc. pen.. In forza di tutte le precedenti argomentazioni deve, conclusivamente, inferirsi che il ricorso è inammissibile perché proposto al di fuori delle condizioni di legittimazione ed interesse pretese dall'art. 575 cod. proc. pen., il che ne preclude la trattazione nel merito delle questioni dedotte.
3. Resta da esaminare il ricorso proposto dalla parte civile Comune di Tortora.
3.1 L'impugnazione va dichiarata inammissibile limitatamente alla domanda civile azionata nei confronti dell'imputato M.P., deceduto dopo la sentenza di appello, con la conseguente sopravvenuta cessazione del rapporto processuale, sia penale, che civile (sez. 1, n. 36220 del 29/09/2010, Grasso e altro, rv. 248292; sez. 4, n. 49457 del 08/01/2003, Paolillo, rv. 227069; sez. 4, n. 58 del 08/11/2000, dep. 2001, Pitruzzella, rv. 219149). Né al riguardo possono trovare applicazione le regole che nel processo civile disciplinano gli effetti dell'evento morte della parte che determina, se dichiarato, l'interruzione del processo (sez. 6, n. 27309 del 3/06/2010, Pg , pc in proc. Ferruzzi, rv. 247782; sez. 6, n. 2071 del 16/12/1995, dep. 1996, P.M., P.C. in proc. Ghezzi ed altri, rv. 204154), poiché, essendo l'azione civile inserita nel processo penale, devono prevalere le regole specifiche che lo disciplinano e che non stabiliscono al riguardo nessuna possibilità di interromperne il corso e provocare l'intervento di eventuali eredi. Il rilievo della sopravvenuta causa di inammissibilità non comporta per la parte privata ricorrente condanna, né al pagamento di spese processuali, né a sanzioni pecuniarie.
3.2 Con la precisazione svolta, il ricorso è fondato quanto a tutti i motivi proposti, il che impone l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei termini che verranno specificati. Vanno però esaminate in via prioritaria le eccezioni preliminari sollevate dalle difese dell'imputato F.A., del responsabile civile Eni s.p.a. e degli imputati R.A.,S.S., B.V., B.L., Cr. e C.I. in ordine all'inammissibilità del ricorso del Comune di Tortora.
3.2.1 F.A. deduce l'inammissibilità del ricorso in esame per tre distinti ordini di ragioni, già illustrate nelle note conclusive scritte, depositate nel giudizio di appello e prodotte in allegato alla propria memoria.
3.2.1.1 In primo luogo, assume che l'atto di appello del Comune di Tortora sarebbe stato proposto in data 30 aprile 2015 senza che il difensore designato, avv.to Luciano Conte, fosse stato previamente a ciò incaricato e fosse munito dei necessari poteri di rappresentanza tecnica.
L'assunto è infondato per difetto dei relativi presupposti fattuali. Dagli atti processuali, cui questa Corte ha facoltà di accesso diretto, necessario per la delibazione della fondatezza della questione in rito sollevata, risulta che nel processo di primo grado il Comune di Tortora col patrocinio dell'avv.to Luciano Conte, si era costituito parte civile con un primo atto del 18 aprile 2011 nei confronti di tutti gli imputati in relazione al delitto di cui all'art. 434 cod. pen. in forza di procura speciale rilasciata dal sindaco pro-tempore, a ciò autorizzato con delibera della Giunta comunale n. 66 dell'8 aprile 2011, che testualmente gli conferiva "ampio mandato e procura speciale a costituirsi parte civile nell'indicato procedimento penale, in tutti i gradi di giudizio, contro tutti gli imputati e per le ipotesi di reato già contestate e che saranno contestate, richiedere la citazione del responsabile civile, nominare consulenti ....redigere, sottoscrivere e depositare motivi d'appello e/o ricorso per cassazione avverso la sentenza e/o le ordinanze comunque emesse...". La procura rilasciata attribuiva dunque al difensore i più ampi poteri di rappresentanza, prevedendone espressamente l'esercizio in tutti i gradi del processo e nella fase di esecuzione, nonché la facoltà di impugnazione mediante appello e ricorso per cassazione contro sentenze ed ordinanze, che fossero state pronunciate nello sviluppo dell'iter processuale.
In data 24 giugno 2011 lo stesso legale depositava ulteriore atto di costituzione di parte civile per conto del Comune di Tortora nello stesso procedimento in riferimento a tutti gli imputati ed al delitto di cui all'art. 437 cod. pen. in forza di nuovo atto di procura speciale, redatto in calce del 23 giugno 2011 e del medesimo tenore testuale del precedente, conferito in forza dell'autorizzazione concessa al sindaco dalla Giunta comunale con delibera n. 113 del 17 giugno 2011, allegata anch'essa, con la quale si era precisato che, ad integrazione della precedente n. 66 dell'8 aprile 2011, l'autorizzazione riguardava la costituzione di parte civile e la nomina del difensore per gli ulteriori reati di cui agli artt. 437, 589 e 590 cod. pen.. Infine, in data 20 luglio 2012 la costituzione del Comune di Tortora era estesa anche in riferimento ai delitti, oggetto di contestazione suppletiva compiuta all'udienza dell'8 giugno 2012.
A sostegno dell'eccezione, non è quindi sufficiente citare la convenzione, conclusa tra il legale designato ed il Comune nell'anno 2014, -peraltro non prodotta nel giudizio di legittimità e quindi non valutabile per difetto di autosufficienza-, ove erano stati regolati i rapporti economici, dipendenti dall'attività difensiva espletata nel corso del giudizio di primo grado, poiché l'atto negoziale non revocava, smentiva, riduceva i poteri conferiti con i mandati difensivi già rilasciati su regolare autorizzazione dell'autorità competente, che hanno reso pienamente legittima la proposizione dell'atto di gravame e poi del ricorso all'odierno esame.
3.2.1.2 Per quanto attiene al profilo contenutistico dell'appello ed alla lamentata mancata trattazione della posizione specifica di F.A., si osserva che i rilievi svolti dalla parte civile, come già dal pubblico ministero nel suo atto di gravame, in riferimento al delitto di cui al capo g) di cui all'art. 434 cod. pen. coinvolgevano anche la sua persona, nei confronti della quale si era espressamente chiesta la riforma della sentenza di primo grado, sicché non può dirsi che l'impugnazione avesse omesso una critica specifica alle ragioni di fatto e di diritto, poste a fondamento della decisione avversata anche nei suoi riguardi.
3.2.1.3 Nel corso della discussione sono state reiterate dalla difesa di F.A., ma anche da quella di altre parti, le contestazioni già prospettate al Tribunale di Paola in ordine alla carente legittimazione del Comune di Tortora a costituirsi parte civile perché ente locale, nel cui territorio non insisteva lo stabilimento Mariane e quindi non interessato dai fenomeni di contaminazione del sito, né danneggiato dalle altre condotte criminose ascritte agli imputati.
Le eccezioni erano state respinte con ordinanza dell'8 giugno 2012 che, come ammesso anche nella memoria del responsabile civile Eni s.p.a. depositata nel giudizio di appello e non contraddetto da nessun elemento di segno difforme, non aveva imposto nessuna limitazione, né in riferimento agli imputati contro i quali era stata esercitata l'azione civile, né ai reati per i quali si era chiesto il risarcimento del danno.
Non sussistono valide ragioni per discostarsi dalla decisione assunta in primo grado: con la costituzione In giudizio il Comune di Tortora aveva chiesto di essere risarcito da tutti i danni subiti in conseguenza dei fatti criminosi ascritti gli imputati. Aveva dedotto, quanto al delitto di disastro ambientale, la prossimità spaziale del proprio territorio al luogo di insediamento dello stabilimento industriale Mariane e dello sversamento illecito di rifiuti speciali tossici e nocivi in pregiudizio della salute collettiva, del pregio turistico e naturalistico dei luoghi, delle attività commerciali e ricettive, delle possibilità di sviluppo economico della zona, della capacità dell'ente politico di svolgere i propri compiti istituzionali, del suo prestigio e della sua immagine, valori che, oltre ad essere dotati di rilievo costituzionale, per disposizioni statutarie l'ente stesso è preposto a perseguire e proteggere nell'interesse della comunità di cittadini ivi stanziata. Con riferimento al delitto di cui all'art. 437 cod. pen. aveva esercitato le proprie istanze risarcitone in relazione alla violazione degli obblighi imposti al datore di lavoro dall'art. 2087 cod. civ. e dalla disciplina sulla prevenzione degli infortuni, causa di un disastro, evento stigmatizzato come verificatosi in pregiudizio della collettività di lavoratori e di soggetti gravitanti nell'area ed in contrasto con gli interessi protetti e con gli impegni assunti dal Comune nel settore della difesa della vita umana, della famiglia, della popolazione e con la sfera funzionale attribuitagli. Infine, in ordine ai delitti di omicidio e lesioni personali aggravati, l'azione civile era stata proposta per conseguire il risarcimento del danno morale In relazione al turbamento ed ai timori suscitati nella collettività di residenti per i continui decessi e il deterioramento grave delle condizioni di salute di suoi appartenenti, già dipendenti dello stabilimento Mariane.
Ebbene, il riconoscimento della legitimatio ad causam in capo alla predetta parte civile rispetta gli orientamenti interpretativi, espressi da questa Corte, secondo la quale la configurabilità di un danno non patrimoniale, nell'accezione di «danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica», è possibile anche in capo alle persone giuridiche, compresi gli enti territoriali esponenziali, in ordine ai pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti della personalità compatibili con l'assenza di fisicità, quali il diritto all'esistenza, all'identità, al nome, alla reputazione, all'immagine, all'esercizio delle funzioni istituzionali (Cass. civ., sez. 1, n. 7642 del 10/7/1991, rv. 473053; sez. 1, n. 12951 del 5/12/1992, rv. 479918; sez. 3, n. 2367 del 3/3/2000, rv. 534529; sez. 1, n. 11600 del 2/8/2002, rv. 558165; sez. 1, n. 15233 del 29/10/2002, rv. 558861; sez. 1, n. 2130 del 13/2/2003, n.m. sul punto; sez. 1, n. 5664 del 10/4/2003, rv. 563513; sez. 1, n. 6022 del 16/4/2003, n.m. sul punto; sez. 1, n. 2570 dell'11/2/2004, n.m. sul punto; sez. 3, n. 14766 del 26/6/2007, rv. 597850 ). In tal senso si è affermato: "In tema di danno morale da reato, non vi è dubbio che un disastro costituente fatto reato di enorme gravità, per il numero delle vittime e per le devastazioni ambientali dei centri storici determini, come fatto - evento, la lesione del diritto costituzionale dell'ente territoriale esponenziale (il comune) alla sua identità storica, culturale, politica, economica costituzionalmente protetta. Da ciò consegue che è insita la lesione della posizione soggettiva e che l'ente ha legittimazione piena e titolo ad esigere il risarcimento del danno" (sez. 3, n. 3807 del 15/04/1998, rv. 514499).
Ed ancora è stato riconosciuto un danno non patrimoniale in capo all'ente collettivo, quanto al danno all'immagine, nella diminuzione della considerazione della persona giuridica, nel quale si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della Incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ne ricoprano gli organi e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati In genere o di settori o di categorie di essi, con i quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca (Cass. civ. sez. 3, n. 4542 del 22/3/2012, rv. 621596; sez. 3, n. 12929 del 4/6/2007, rv. 597309).
Inoltre, si ricorda che, con specifico riferimento al settore dei reati ambientali, le iniziative processuali intraprese in sede penale a tutela degli interessi civili da enti locali sono state già riconosciute come sorrette da legittimazione attiva. Per fatti di reato commessi in data antecedente al 29 aprile 2006, ossia prima dell'entrata in vigore del D.lgs. n. 152/2006, la legge 8 luglio 1986, n. 349, art. 18, comma 3, attribuiva allo Stato e agli enti territoriali sui quali Insistono i beni oggetto del fatto lesivo la legittimazione a promuovere la relativa azione per il risarcimento del danno, anche se esercitata in sede penale; il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 318, comma 2, lett. a) ha però abrogato l'art. 18, ad eccezione del solo comma 5, che riconosceva alle associazioni ambientaliste il diritto di intervenire nei giudizi per danno ambientale, attribuendo soltanto allo Stato, o meglio al Ministro dell'ambiente, il potere di agire per il risarcimento del danno ambientale pubblico in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, anche esercitando l'azione civile in sede penale. Secondo la nuova disciplina, le regioni, gli enti locali, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o potrebbero essere colpite dal danno ambientale, se da un lato possono presentare denunce ed osservazioni nell'ambito di procedimenti finalizzati all'adozione di misure di prevenzione, precauzione e ripristino, oppure possono sollecitare l'intervento statale a tutela dell'ambiente, dall'altro non sono legittimate ad agire in via autonoma per il risarcimento del danno ambientale. La giurisprudenza di questa Corte, formatasi dopo l'intervento normativo di modifica, ha però riconosciuto la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali anche all’ente pubblico territoriale ed ai soggetti privati, ammessi a far valere il diritto al risarcimento dell'ordinario danno patrimoniale o non patrimoniale, risarcibile secondo la regola generale di cui all'art. 2043 cod. civ., quando provino di aver subito dalla medesima condotta offensiva dell'ambiente anche la lesione di altri loro diritti particolari. In particolare, la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta a riconoscere la risarcibilità del danno derivante dal reato ambientale, sia di natura patrimoniale, sia morale, quanto al pregiudizio arrecato all'attività svolta dall'ente costituitosi parte civile per la valorizzazione e la tutela del territorio, sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo (sez. 1, n. 44528 del 25/09/2018, dep. 2019, Pg in proc. Abulahia ed altri, rv. 277148; sez. 3, n. 24677 del 9/7/2014, dep. 2015, Busolin e altri, P.C., rv. 264114; sez. 3, n. 19439 del 17/01/2012, Miotti, rv. 252909; sez. 3, n. 633 del 29/11/2011, dep. 2012, Stigliani, rv. 251906; sez. 3, n. 41015 del 21/10/2010, Gravina, rv. 248707; sez. 3, n. 14828 dell'l 1/2/2010, De Flammineis e altro, rv. 246812).
I superiori principi sono però riferibili soltanto alle fattispecie concrete in cui i fatti criminosi siano stati commessi nella vigenza del nuovo testo normativo, ossia dopo il 29 aprile 2006; tenuto conto della mancata previsione di un regime transitorio, destinato a disciplinare gli effetti della nuova disciplina sui processi già in corso o comunque per le vicende commesse in precedenza, deve ritenersi che i fatti antecedenti ricadano ancora nell'ambito di applicazione dell'art. 18, comma 3, abrogato, sicché non sussistono limiti per soggetti giuridici diversi dallo Stato alla possibilità di far valere la responsabilità civile degli imputati per qualsiasi categoria di pregiudizio subito (sez. 3, n. 38748 del 5/10/2004, Maimero ed altri, rv. 229615; sez. 3, n. 39393 del 21/05/2008, Pregnolato, rv. 240788).
3.3 Non merita accoglimento nemmeno l'eccezione d'inammissibilità del ricorso del Comune di Tortora sollevata sotto il profilo del suo contenuto per essere incentrata su questioni di fatto, riguardanti il giudizio di sussistenza dei reati e di attribuzione ai comportamenti degli imputati.
Al contrario, l'impugnazione, come già esposto, si articola in quattro motivi principali, che denunciano altrettanti vizi eterogenei, ma mantenutisi nei limiti di deducibilità stabiliti dall'art. 606, comma 1, cod. proc. pen., in quanto denuncianti: a) la violazione di norme processuali in riferimento agli artt. 573-576 cod. proc. pen. e la totale assenza di motivazione per non avere la Corte di appello esaminato l'appello della stessa parte e, nonostante il rilievo dell'estinzione del reato per prescrizione maturata dopo la sentenza di primo grado, la fondatezza della domanda risarcitoria proposta quanto al reato di cui all'art. art. 437 cod. pen.; b) la violazione di legge in relazione all'erroneo computo del termine di prescrizione dei delitti di omicidio colposo plurimo pluriaggravato; c) la violazione di legge ed omessa motivazione quanto all'elemento soggettivo dei fatti di omicidio ed alla mancata riqualificazione come fattispecie volontaria, sorretta da dolo eventuale; d) la carenza e la contraddittorietà della motivazione in ordine al delitto di cui all'art. 434 cod. pen.. Tanto prova che la parte civile ricorrente ha operato la selezione dei capi investiti di gravame; inoltre, nell'ambito di ciascun motivo ha espresso dettagliate censure alle ragioni della decisione, che ha illustrato con richiami ai dati probatori e pertinenti enunciazioni in diritto, il che rende perfettamente ammissibile la sua impugnazione.
3.4 Alla disamina nel merito del ricorso, vanno premesse alcune osservazioni sul tema dell'ammissibilità dell'impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento motivata dalla rilevata prescrizione del reato.
3.4.1 E' noto che l'art. 576 cod. proc. pen. riconosce espressamente alla parte civile la legittimazione a presentare impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento, categoria comprensiva delle pronunce di assoluzione e di quelle di non doversi procedere emesse in giudizio, ed a contestarne la correttezza per chiedere la condanna dell'imputato alla restituzione o al risarcimento del danno, indipendentemente dall'impugnazione del pubblico ministero ed anche in caso questa non sia proposta; in questo caso, la delibazione della domanda civile comporta, in deroga a quanto previsto dall'art. 538 cod. proc. pen., la necessità di condurre l'accertamento incidentale sulle questioni penali, che all'esito del giudizio di impugnazione non può esitare la riforma della sentenza impugnata con la condanna dell'imputato, posto che le statuizioni penali restano immodificabili, essendo già intervenuta su di esse la formazione del giudicato interno (sez. 2, n. 22170 del 24/04/2019, Tonello, rv. 275589; sez. 4, n. 48781 del 23/09/2016, Amato, rv. 268344; sez. 6, n. 41479 del 25/10/2011, V., rv. 251061; sez. 2, n. 17108 del 22/03/2011, Muscariello, non mass.; sez. 5, n. 3670 del 27/10/2010, dep. 2011, Pace, rv. 249698). 
In altri termini, in siffatte circostanze la rivisitazione critica dell'accertamento dei fatti posto a base della decisione di proscioglimento viene condotta soltanto per valutare la sussistenza della responsabilità per fatto illecito e la determinazione finale, se è di riforma, rimuove gli effetti pregiudizievoli per la parte civile impugnante e condanna l'imputato soltanto al risarcimento del danno o alla restituzione, senza che tale conclusione del processo sia Impedita dalla mancanza di una precedente statuizione sulla domanda civile.
A tali conclusioni è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte nella sua più autorevole composizione in riferimento a casi di maturazione della prescrizione, anche già intervenuta prima della pronuncia di primo grado, allorché aveva osservato che, sebbene l'art. 538 cod. proc. pen. stabilisca che il giudice di primo grado non può condannare l'imputato alla restituzione o al risarcimento del danno cagionato dal reato in assenza di una pronuncia di condanna penale, la medesima regola non vincola il giudice di appello quando gli sia devoluta la questione della fondatezza della domanda azionata dalla parte civile, In quanto, pur non potendo intervenire sulle statuizioni penali, nel dichiarare la causa di estinzione del reato, prescrizione o amnistia che sia, ed indipendentemente dal momento in cui essa sia maturata, su impugnazione della sentenza di assoluzione ad opera della parte civile, ben può condannare l'imputato al risarcimento dei danni in favore di quest'ultima, atteso che l'art. 576 cod. proc. pen. conferisce al giudice dell'impugnazione il potere di decidere su quel capo della sentenza anche in mancanza di una precedente statuizione sul punto nella riconosciuta sussistenza della legittimazione e dell'interesse della parte civile a sovvertire la precedente decisione sfavorevole (Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006, Negri, Rv. 233918; Sez. U., n. 28911 del 28/03/2019, Massaria, rv. 275953).
3.3.2 In conseguenza della consentita facoltà per la parte civile di proporre appello avverso sentenza di proscioglimento affermata ammissibilità dell'appello, l'esito decisorio alternativo può assumere due diversi contenuti: la verifica della correttezza della decisione di primo grado comporta la mancata decisione sulle statuizioni civili; il riscontro dell'erronea pronuncia di estinzione del reato determina che il giudice di appello condanni l'imputato al risarcimento del danno o alla restituzione.
3.3.3 Per le medesime ragioni è ritenuto ammissibile anche il ricorso per cassazione con cui la parte civile lamenti, come nel caso in esame, l'erronea conferma da parte del giudice di appello della assoluzione, oppure la dichiarazione di prescrizione già affermata dal giudice di primo grado o dichiarata per la prima volta in secondo grado: anche con riferimento a questo mezzo d'impugnazione la legittimazione della parte civile discende dal combinato disposto dell'art. 576, comma 1, e dell'art. 568, comma 2, cod. proc. pen. ed il suo accoglimento comporta, immutate le determinazioni penali, l'annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, secondo la previsione dell'art. 622 cod. proc. pen. e in adesione ad un costante indirizzo sul punto di questa Corte (sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva e altri, rv. 267844; sez. 6, n. 5888 del 21/01/2014, Bresciani, rv. 258999; sez. 6, n. 44685 del 23/09/2015, N., rv. 265561; sez. 1, n. 42039 del 14/01/2014, Simigliani, rv. 260508).
3.4 Considerato il ricorso in base ai superiori principi, se ne rileva la fondatezza quanto al primo ed al secondo motivo di ricorso.
3.4.1 La sentenza impugnata nel suo dispositivo non reca una chiara ed esplicita determinazione in ordine all'appello del Comune di Tortora, poiché, dopo avere dichiarato inammissibile l'appello del pubblico ministero in ordine al reato capo h) e, nei confronti di alcuni imputati, anche per il reato capo g), avere respinto lo stesso appello in ordine sempre al reato capo g) nei confronti degli imputati L.C., F.A. e R.A., ed avere confermato la sentenza del Tribunale di Paola, con tecnica redazionale infelice si è limitata a inserire la frase "appellata anche dal Comune di Tortora”, per cui per implicito può comprendersi il suo avvenuto rigetto. In motivazione soltanto con una breve proposizione finale al punto 3.9 la Corte distrettuale ha inteso estendere anche all'appello della predetta parte civile le medesime argomentazioni esposte per disattendere l'appello del pubblico ministero in riferimento alle condotte di disastro innominato addebitate a L.C., F.A. e R.A..
Ebbene, in tal modo la sentenza presenta una grave violazione di legge in relazione all'art. 576 cod. proc. pen. ed altrettanto grave carenza di motivazione, in quanto, in merito ai reati di cui agli artt. 437 cod. pen. e 590 e 589 cod. pen., al punto 2 il giudice di appello ha esaurito il proprio impegno argomentativo con la declaratoria di inammissibilità del gravame del pubblico ministero, dipendente dalla carenza d'interesse ad ottenere pronuncia di riforma della sentenza di assoluzione a causa dell'intervenuta prescrizione dei reati, senza affrontare sotto nessun profilo, nemmeno per respingerlo, l'appello del Comune di Tortora, che pure aveva proposto domanda risarcitoria anche in riferimento ai predetti addebiti ed aveva specificamente contestato la decisione favorevole agli imputati ed ai responsabili civili, emessa nel primo grado di giudizio. Già di per sé il superiore rilievo sarebbe sufficiente per disporre l'annullamento della sentenza impugnata.
3.4.2 Ulteriori vizi sono però riscontrabili: la declaratoria di estinzione per prescrizione dei delitti di omicidio colposo pluriaggravato è frutto di erronea applicazione della legge penale, posto che, come fondatamente sostenuto dal ricorrente Comune di Tortora, per i fatti di cui ai capi a) in danno di F.I., deceduto il 20/11/2004, di LN.A., deceduto il 13/3/2004, di M.R., deceduta il 13/3/2005, di S.N., deceduto il 4/2/2007; di cui al capo a -bis) in danno di R.F., deceduto il 19/5/2010; di cui al capo b) in danno di G.R., deceduto il 6/5/2004; di cui al capo c) in danno di L.V., deceduto in data 12/5/2007, al momento della pronuncia della sentenza di appello non era ancora maturata la prescrizione, posto che perché il termine massimo prorogato, applicabile in forza degli artt. 589 e 157 cod. pen., é pari ad anni quindici.
Invero, per i decessi intervenuti prima della modifica introdotta dalla L. 5 dicembre 2005 n. 251, entrata in vigore l'8 dicembre 2005, il termine ordinario pari ad anni dieci, subisce la proroga sino alla metà per effetto degli atti interruttivi compiuti nel corso del processo, secondo la disciplina dettata dall'art. 157 cod. pen. nel testo previgente; per quelli verificatisi successivamente, il termine ordinario di anni dodici è prorogato di un quarto per un totale di anni quindici, come già affermato da questa Corte con orientamento che si condivide e riafferma (sez. 4, n. 13582 del 23/01/2019, Grandi ed altri, rv. 275800; sez. 4, n. 51959 del 24/11/2016, Manca, rv. 268249; sez. 4, n. 23944 del 17/04/2013, Re, Corrado ed altri, rv. 255462).
3.4.3 La sentenza impugnata presenta altresì motivazione gravemente lacunosa per avere la Corte distrettuale operato una propria disamina delle tematiche riguardanti la sussistenza del delitto di disastro innominato, omettendo però di offrire risposta alle specifiche doglianze dell'appellante Comune di Tortora in ordine alla corretta qualificazione giuridica da assegnare ai fatti di omicidio a ragione della dedotta ravvisabilità nelle condotte tenute dagli imputati del dolo eventuale, nonché in merito allo specifico contributo alla verificazione del disastro, apportato da ciascun imputato ed alla sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie.
In definitiva, per le considerazioni svolte i ricorsi proposti dal Procuratore Generale e dal responsabile civile M.P. s.p.a. vanno dichiarati inammissibili con la conseguente condanna di quest'ultima parte al pagamento delle spese processuali ed al versamento di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende, che si reputa equo liquidare in euro 3.000,00, non sussistendo cause di esenzione di colpa nella proposizione di siffatta impugnazione. In accoglimento, invece, del ricorso della parte civile Comune di Tortora, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alle statuizioni civili adottate nei confronti della sola predetta ricorrente col conseguente rinvio ai sensi dell'art. 622 cod. proc. pen. al giudice civile competente in grado di appello, che provvederà altresì alla liquidazione delle spese.
Un'ultima precisazione s'impone: sebbene altre parti civili, ossia il Ministero dell'ambiente, l'Associazione italiana per il World Wide Fund for nature ong-onlus e Verdi Ambiente e società onlus-V.A.S., abbiano depositato memorie, con le quali, la prima ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata in relazione alla decisione di assoluzione degli imputati dal reato di cui al capo g), le altre hanno concluso per l'accoglimento del ricorso del Procuratore Generale, di tali deduzioni è inibito il recepimento in quanto contenute in atti diversi da un'impugnazione rituale, tempestivamente depositata, nelle forme del ricorso per cassazione. Inoltre, secondo quanto affermato dalla propria giurisprudenza, "nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione avverso una sentenza di assoluzione proposto da una soltanto delle parti civili, il conseguente giudizio di rinvio non si estende alle domande delle altre partì civili non ricorrenti, in quanto la mancata impugnazione da parte di queste ultime determina acquiescenza rispetto al "decisum" assolutorio" (sez. 1, n. 50426 del 28/05/2016, Linguanti e altri, rv. 269183). Il rapporto processuale, proseguito nel grado ulteriore di legittimità, è stato coltivato da una sola parte civile a sostegno della propria domanda, sicché è stata devoluta soltanto la res iudicanda riguardante la responsabilità civile nei suoi confronti e, in via incidentale, per quanto già detto, anche quella penale. Pertanto, la presentazione dell'unico ricorso non può produrre effetti estensivi in favore delle parti civili non impugnanti, non previsti per gli interessi civili, che, essendo regolati dal principio dispositivo e dal diritto di azione, presuppongono l'iniziativa processuale della parte che ne è titolare, salvo i limitati casi dell'esercizio da parte di un rappresentante.




P. Q. M.




dichiara inammissibile il ricorso della parte civile comune di Tortora nei confronti di M.P.. Annulla la sentenza impugnata dalla parte civile Comune di Tortora nei confronti di tutti gli imputati - con esclusione di M.P. - e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello. Dichiara inammissibile il ricorso del P.g.; dichiara inammissibile il ricorso del responsabile civile M.P. s.p.a., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 6 novembre 2019.


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