Cassazione Penale, Sez. 4, 25 giugno 2021, n. 24830 - Lavoratrice investita da una macchina raccogli-pomodori in retromarcia
Fatto
1. Con sentenza del 7 febbraio 2020 la Corte di appello di Bologna ha parzialmente riformato, riducendo le pene inflitte, la sentenza del Tribunale di Ravenna, con la quale M.Z., nella sua qualità di amministratore della società agricola Z., e di datore dì lavoro, e R.Z., nella sua qualità dì socio, conducente della macchina raccoglitrice dì pomodori sono stati ritenuti responsabile del reato dì cui all'art. 589, cod. pen., aggravato per il solo M.Z., ai sensi del comma 2A della disposizione, per avere cagionato la morte della dipendente N.S., con colpa consistita in negligenza imprudenza ed imperizia, e, limitatamente al solo M.Z., nella violazione dell'art. 71, comma 3 d.lgs. 81/2008.
2. Il fatto, nella sua materialità, viene descritto dalle sentenze di merito nel modo che segue: il 17 settembre 2021, N.S., dipendente della società agricola Z., veniva investita da una macchina raccogli-pomodori, condotta da R.Z., che procedeva in retromarcia, nel campo dì raccolta; la macchina raccogli-pomodori era un mezzo semovente complesso che consentiva la raccolta, la pulizia e la selezione dei pomodori con ciclo continuo, procedendo in avanzamento lungo il filare; nella parte anteriore della macchina erano situati la cabina di guida e l'apparato tranciatore, che tagliava alla base le piante di pomodori, che, attraverso astri meccanici venivano trasportate a un sistema di separazione del pomodoro dai rami, dalle foglie e dalle zolle dì terra; indi un altro nastro trasferiva i pomodori sulla pedana di selezione, cui erano addetti due lavoratori che, a bordo della macchina, eseguivano la cernita manuale dei frutti, che, una volta selezionati confluivano in un cassone che, trainato da un motore autonomo, procedeva a fianco della macchina raccogli-pomodori; mentre le ramaglie venivano convogliate nella parte posteriore della macchina in un saccone, c.d. capannina, per essere scaricate a terra; la macchina prevedeva le postazioni fisse del conducente e dei due lavoratori addetti alla scelta dei pomodori raccolti; poco prima il mezzo era stato arrestato per un fermo operativo, determinato dalla rottura di un pezzo meccanico, e precisamente del martinetto della scaletta del nastro trasportatore che scaricava i pomodori sul rimorchio; N.S., che pure avrebbe dovuto restare a bordo, al momento dello stop del mezzo, scendeva di sua iniziativa e si posizionava sul retro della macchina raccogli-pomodori, verosimilmente con l'intento dì pulire la capannina, attraverso l'ausilio di un ferro; R. Z., alla guida del veicolo, dovendo condurre la macchina in officina per la riparazione, innescava la retromarcia, per non schiacciare i pomodori ancora da raccogliere, e retrocedeva per diversi metri, al fine di evitare, nella manovra il cassone collocato a fianco della raccoglitrice, travolgendo la lavoratrice, nonostante il regolare funzionamento del segnale acustico di retromarcia; nessuno si accorgeva di quanto accaduto ed il mezzo meccanico procedeva verso l'officina; dopo alcun minuti i colleghi di lavoro, non vedendo comparire N.S., si recavano sul campo di raccolta per cercarla, ed ivi N.S. la trovava riversa in posizione prona, priva di vita; la cause della morte, individuate attraverso la sola ispezione esterna del cadavere, risultavano riconducibili allo sfondamento della cassa toracica ed alla frattura della colonna vertebrale in zona mediana e lombare.
3. La sentenza di secondo grado, escluso il malore della lavoratrice, precedente l'investimento -ritenuta l'unica possibile causa interruttiva del nesso causale fra le condotte degli imputati e la morte di N.S.- distingue le posizioni dei medesimi. In particolare, precisa che R. Z., conducente della macchina raccoglitrice, non rivestendo specifica posizione di garanzia nei confronti della persona offesa, risponde solo per colpa generica, consistita nell'avere imprudentemente proceduto in retromarcia, senza prima accertarsi che dietro il mezzo non vi fosse nessuno, operazione questa possibile, nonostante la conformazione del mezzo, attraverso il controllo della presenza a bordo di tutti i lavoratori. Mentre, a M.Z., nella sua qualità di datore di lavoro, viene ascritto di non avere provveduto a predisporre un accorgimento che consentisse ad mezzo così lungo e complesso, la cui visuale aveva - un angolo cieco, di procedere in retromarcia, in sicurezza e senza travolgere alcuno, non essendo cautela sufficiente la mera previsione dell'obbligo dei lavoratori di rimanere sul mezzo quando era in moto, ed essendo il documento di valutazione dei rischi del tutto generico sul punto.
4. Avverso la sentenza formulano distinti ricorsi, a mezzo dei rispettivi difensori, M.Z. e R. Z..
5. M.Z. formula sette motivi di motivi di impugnazione.
6. Con il primo ed il secondo motivo, strettamente connessi, fa valere il vizio della motivazione, sotto il profilo della carenza e della manifesta illogicità, in ordine all'accertamento della dinamica del sinistro ed al comportamento tenuto dalla lavoratrice N.S.. Osserva che la Corte territoriale, nel ricostruire le modalità di accadimento dell'evento, valorizza elementi ambigui e poco significativi -quali la presenza di un cumulo di sterpaglie rinvenuto nei pressi del cadavere o la presenza a terra, non lontano dal corpo della persona offesa, di un ferro, normalmente utilizzato per la pulizia della c.d. capannina- da cui trae il convincimento che N.S. fosse scesa dal mezzo per provvedere a svuotare il saccone ove confluivano le ramaglie. Invero, non solo l'intero campo di raccolta era pieno di residui e di sterpaglie, derivati dall'avanzamento della macchina raccoglitrice che provvedeva automaticamente alla cernita dei frutti, scartando i residui, ma, come emerso dalle testimonianze, i ferri erano varii e venivano tenuti da un apposito sostegno, dal quale talora cadevano, a causa del moto della macchina sul terreno accidentato. Deduce l'inconferenza dell'ulteriore circostanza ritenuta dalla Corte territoriale sintomatica dell'attività svolta da N.S. nel momento cui venne travolta, ovverosia il fatto che ella stringesse fra le mani delle ramaglie. Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice del gravame, infatti, la lavoratrice, ritratta nelle fotografie (allegate al ricorso), in posizione supina, essendo il suo corpo stato girato al momento del ritrovamento, non stringe nulla fra le mani, ma è affondata nelle ramaglie che costellano il campo di raccolta. Ciò è stato confermato, peraltro, dalla testimonianza di uno dei primi soccorritori che ha dichiarato che la defunta 'non stringeva assolutamente niente'. Nessuna delle evidenze probatorie raccolte consente di affermare che l'operazione di pulizia della capannina fosse routinaria ed indispensabile al funzionamento della macchina raccoglitrice. Ed anzi ciò è espressamente negato dalle testi Ricci e Mariani colleghe di lavoro della persona offesa, che hanno escluso che l'ostruzione della capannina potesse prodursi. Ciò, d'altro canto, è stato accertato anche dall'ing. Caricasulo, consulente dell'imputato, che ha approfondito il funzionamento del mezzo meccanico, chiarendo che la capannina è un sacco, aperto sul fondo, che ha la semplice funzione di convogliare gli scarti di lavorazione verso il suolo. Dunque, la pulizia della capannina, in quanto non necessaria, non rientrava fra le mansioni affidate, in quello specifico frangente, alla lavoratrice deceduta. Questa, per converso, doveva rimanere sul mezzo, sicché la sua deliberata discesa deve ritenersi comportamento abnorme. Sostiene che la Corte territoriale valorizzando unicamente l'intento che aveva spinto N.S.a scendere dal mezzo, nonché la vicinanza delle sterpaglie e quella del ferro, non tiene in considerazione alcuna i rilievi svolti dal consulente della difesa. Omette, in particolare, di considerare la distanza del cadavere dalla macchina, la sua posizione prona e perpendicolare alla direzione di avanzamento del mezzo, la minima velocità della macchina in retromarcia, calcolata in km/h 1,8, cioè 0,5 metri al secondo, nonché il funzionamento del cicalino di allarme, o ancora, il fatto che, come riferito dai colleghi, il rumore prodotto dal motore, permettesse ai lavoratori di parlare ed udirsi, senza difficoltà alcuna. Tutti elementi da cui deve desumersi che la lavoratrice non fosse intenta a pulire la capannina, quando fu investita, ché altrimenti avrebbe urlato e sarebbe stata udita, e che consentono di affermare che la medesima si trovasse lontana dal mezzo e già al suolo, prima di essere investita. La considerazione di tutte le circostanze, ivi comprese quelle sottoposte dalla difesa, né ipotetiche, né congetturali e comunque non affrontate dal giudice di merito, avrebbe dovuto condurre all'assoluzione dell'imputato, non essendo superato il ragionevole dubbio in ordine alle modalità di accadimento dell'infortunio, mentre la motivazione si risolve in una mera affermazione di 'preferenza' di una versione sull'altra, priva di valida giustificazione.
7. Con il terzo motivo ed il quarto motivo si duole della falsa applicazione degli artt. 40 e 41 cod. pen., nonché del vizio di motivazione. Sottolinea che l'abnormità del comportamento della lavoratrice, che ha posto in essere una condotta del tutto esorbitante mansioni affidate ed in netto contrasto con le disposizioni del datore di lavoro, deve ritenersi interruttivo del nesso causale. Richiama il principio di cui all'art. 20 d.lgs. 81/2008 sulla necessaria collaborazione del lavoratore al puntuale adempimento delle prescrizioni ricevute, ai fini della protezione della sua salute e di quella collettiva. Assume che la sentenza impugnata neppure affronta il tema della prevedibilità dell'evento, né quello della sua concreta evitabilità, posto che la lavoratrice è scesa dalla macchina raccoglitrice e si è collocata sul retro del mezzo, in modo del tutto autonomo e che nessuno dei colleghi si è avveduto delle sue azioni.
8. Con il quinto motivo deduce il vizio di motivazione, sotto il profilo dell'illogicità. Rileva che, in prima battuta, la Corte territoriale assume che il discrimine fra la condotta imprudente e la condotta abnorme del lavoratore va individuato nell'attinenza della condotta posta in essere dal lavoratore alle mansioni svolte. Mentre, in seconda battuta, sostiene che la responsabilità del datore di lavoro va affermata anche laddove si ritenga che la persona offesa fosse scesa dal mezzo per ragioni che esulano dall'attività lavorativa. Simili argomentazioni, nondimeno, non possono essere assunte in modo alternativo a fondamento della decisione, senza incorrere in manifesta contraddittorietà.
9. Con il sesto ed il settimo motivo, subordinati al mancato accoglimento dei precedenti, si duole dell'erronea applicazione dell'art. 62 n. 6) cod. pen. e del vizio di motivazione, in relazione alla mancata concessione dell'attenuante del risarcimento del danno. Rileva l'errore contenuto nella sentenza impugnata, che ritenendo non satisfattivo il risarcimento offerto, lo stima in euro 375.000,00, laddove la somma percepita dagli eredi è pari ad euro 495.000,00, ovvero euro 375.000,00 corrisposti dagli imputati, a mezzo della propria assicurazione, ed euro 120.000,00 anticipati dall'INAIL, ma poi richiesti dall'Istituto agli imputati e subito rimborsati, tanto che il medesimo ha revocato la costituzione di parte civile. Con la conseguenza che, nel denegare la diminuente, la Corte territoriale ha fatto riferimento a una somma sensibilmente inferiore a quella effettivamente ottenuta dalle parti civili. Conclude per l'annullamento della sentenza impugnata.
10. R. Z. formula sette motivi di ricorso.
11. Con il primo ed il secondo motivo fa valere il vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicità in relazione alla ricostruzione del sinistro, incidente sull'affermazione di responsabilità, al di là di ogni ragionevole dubbio. Sostiene che i riscontri oggettivi, emergenti dall'istruttoria, sono inconciliabili con la dinamica affermata dalla Corte territoriale, che presuppone che la persona offesa si trovasse sul retro della macchina raccoglitrice e che fosse scesa per provvedere alla pulizia della capannina, munita di un ferro. Invero, come dimostrato dalla relazione tecnica del consulente di parte ing. Caricasulo, la distanza fra il corpo della vittima e la macchina, prima che si muovesse in retromarcia variava fra gli 8 e gli 11 metri. La posizione del corpo è frutto dei rilievi della polizia giudiziaria, mentre la posizione del mezzo è stata determinata sulle concordi dichiarazioni dei testi. Dunque, la persona offesa non si trovava vicino alla macchina per attendere ad attività lavorative. Peraltro, ciò è confermato dalla posizione in cui è stato ritrovato il cadavere, non solo in posizione prona, ma in senso perpendicolare alla direzione di marcia del mezzo.
La sentenza omette del tutto di tenere in considerazione detti rilievi, banalizzando i riscontri difensivi ed ignorando le dichiarazioni testimoniali di A.R., M.M. e S.N., da cui emerge che il rumore creato dal motore non impediva di udire la voce di conversazione. Sicché, se appare del tutto inverosimile che la persona offesa non abbia urlato, parimenti non è credibile che non sia stata sentita dagli altri operai. Al contrario, sia la distanza fra la capannina e la parte del mezzo con cui la donna è stata investita, che la posizione del cadavere rendono verosimile che ella non fosse cosciente quando fu investita ad una velocità non superiore a km/h 3, con il segnalatore acustico della retromarcia regolarmente funzionante, mentre è assai più difficile che la medesima, che certamente si trovava a distanza dal mezzo, non sia riuscita a sottrarsi all'investimento, rimanendo schiacciata, nonostante la modestissima velocità del mezzo. Richiama la giurisprudenza sul canone, fondante il giudizio di responsabilità penale, secondo il quale non può addivenirsi alla condanna allorquando la ricostruzione probatoria acquisita contempli eventualità non remote di alternativo accadimento del fatto, ciò non consentendo di superare il ragionevole dubbio. Nel caso di specie, invero, l'eventualità di un malore dell'interessata che ne abbia cagionato la morte (o comunque la perdita di coscienza, che avrebbe in ogni caso impedito di avvistare la vittima posta a distanza dal mezzo) prima del sormontamento del corpo da parte del mezzo è tutt'altro che una mera ipotesi ed avrebbe dovuto indurre il ragionevole dubbio nel giudicante.
12. Con il terzo ed il quarto motivo si duole della falsa applicazione degli artt. 40 e 41 cod. pen., nonché del vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicità in ordine al comportamento tenuto dalla lavoratrice. Rammenta che la sentenza impugnata esclude l'abnormità del comportamento di N.S., ritenendo che, comunque, l'azione posta in essere fosse direttamente collegabile allo svolgimento delle sue mansioni lavorative, senza tuttavia, ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, possono configurare cause interruttive del nesso causale anche condotte eccentriche o esorbitanti del lavoratore, benché rientranti nelle mansioni svolte, ma tali da non risultare né prevedibili, né evitabili. Osserva che nel caso di specie era nota a tutti -ed è stata accertata in giudizio- la prescrizione, costantemente rispettata dai lavoratori, che obbligava coloro che si trovavano sul mezzo a dare avviso al conducente prima di scendere. N.S. non la rispettò deliberatamente, tanto che il giudice di primo grado ha dato atto del concorso di colpa della persona offesa. E, nondimeno, posto che il lavoratore, ai sensi dell'art. 20 d.lgs 81/2008 è tenuto a collaborare con il datore di lavoro nell'adempimento degli obblighi di prevenzione e tutela della propria salute e di quella degli altri lavoratori, osservando le prescrizioni impartite, deve ritenersi che anche una condotta semplicemente esorbitante o eccentrica, ancorché priva dei requisiti dell'abnormità, si riverberi sul nesso di causalità. La Corte territoriale ha del tutto pretermesso la valutazione sulla rimproverabilità soggettiva dell'addebito, da svolgersi con giudizio ex ante di prevedibilità ed evitabilità dell'evento. E siffatto giudizio non può che essere diverso se l'investimento avviene nei confronti di una persona in piedi, impegnata nella pulizia di una parte della macchina, o se avviene nei confronti di una persona prona al suolo ed incosciente per cause indipendenti dall'investimento, a diversi metri dal mezzo.
13. Con il quinto motivo lamenta il vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicità, in relazione alla ritenuta responsabilità dell'imputato. Sottolinea che R. Z. non era titolare di una posizione di garanzia, non incombendo su di lui alcun onere in materia di sicurezza, ma semplice destinatario di prescrizioni, sicché non può ricadere su di lui alcuna carenza procedurale, e che, oltretutto, essendo egli sempre stato testimone del corretto comportamento dei colleghi, in ordine alla prescrizione di avvertire il conducente prima di scendere, la prevedibilità ed evitabilità dell'evento debbono essere rivalutate in relazione alla sua figura.
14. Con il sesto ed il settimo motivo censura l'omesso riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6) cod. pen., per avere la Corte territoriale ritenuto di escludere la diminuente sulla base dell'assunto della non satisfattività del risarcimento, facendo riferimento alla corresponsione della somma di euro 375.000,00, laddove, invece, le parti civili hanno ottenuto la somma di euro 495.000, essendo euro 120.000,00 stati corrisposti dall'INAIL ed al medesimo Istituto rifusi. Osserva che anche volendo escludere quanto corrisposto dall'INAIL, nondimeno, per verificare la congruità della somma corrisposta dagli imputati, va valutato il grado del concorso di colpa della vittima che, laddove commisurato anche solo nel 30%, dimostra la piena congruità di quanto ottenuto dalle parti civili e risarcito dagli imputati. Sostiene che la rimessione della questione al giudice civile della questione relativa alla satisfattività della somma non consentirebbe all'imputato di ottenere l'applicazione dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 6) cod. pen., cui ha diritto.
15. Con memoria in data 26 febbraio 2021, richiama i motivi già formulati, soffermandosi sull'ultimo, ed in particolare sulla surrogazione dell'INAIL nei diritti dell'assicurato - o dei suoi eredi- verso il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 1916 cod. civ. e sul concetto di danno differenziale, come enucleato dalle Sezioni civili, al fine di affermare che tutto quanto ricevuto dalle parti civili, anche direttamente dall'Inail, a titolo di spese funerarie, erogazione una tantum e rendita ai superstiti, va considerato ai sensi dell'art. 62 n. 6) cod. pen., ai fini della concessione dell'attenuante del risarcimento del danno. Conclude rilevando che è decorso il termine prescrizionale del reato di cui all'art. 589, comma 1 cod. pen., essendo il commesso reato risalente al 17 settembre 2012 con spirare del termine al 20 marzo 2020.
Diritto
1. Vanno esaminati congiuntamente il primo ed il secondo motivo proposti da M.Z. e i primi due motivi introdotti da R. Z., con cui si contesta, da un lato, la parzialità della valutazione del complessivo quadro probatorio e, dall'altro, l'idoneità della ricostruzione del sinistro, fatta propria dai giudici del merito, al superamento del dubbio ragionevole, preteso dal legislatore per addivenire all'affermazione della responsabilità penale, posto che la considerazione degli elementi probatori pretermessi o sottovalutati dalla sentenza, consente di dar corpo alla rappresentazione di una diversa modalità di accadimento, tutt'altro che priva di riscontro processuale e certamente rientrante nell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.
2. Le doglianze sono manifestamente infondate.
3. La Corte territoriale, infatti, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, esamina tutte le variabili interpretazioni degli elementi componenti il quadro probatorio, e proprio partendo dalla lettura offerta con i gravami, ne esclude la fondatezza.
Il ragionamento contenuto nella sentenza impugnata muove proprio dalla verifica della compatibilità della morte della lavoratrice precedente l'investimento con le risultanze istruttorie, per constatare che manca in giudizio ogni dimostrazione di una patologia pregressa tale da giustificare la perdita di coscienza e la caduta a terra. La circostanza riferita dalla teste A.R., collega di lavoro di N.S., secondo la quale quest'ultima la sera precedente al fatto accusò dolori di stomaco, non viene ritenuta sintomatica della sussistenza di una malattia che comporti un decesso subitaneo, come suggerito dai ricorrenti, trattandosi di un disturbo comune che non spiega un malore improvviso e mortale.
E' l'assenza di indici significativi della configurabilità dell'ipotesi alternativa delle cause di morte che conduce la Corte territoriale a scartare la valenza della diversa prospettazione offerta dagli imputati. Non la sottovalutazione di dati processualmente acquisiti, dunque, ma la loro assenza.
4. Ritenuto, quindi, che la persona offesa sia deceduta a causa del sormontamento da parte della macchina raccoglitrice, e non per cause indipendenti ed antecedenti, la Corte, lungi dall'eludere la possibilità che la medesima si trovasse a terra, anziché in piedi, allorquando fu investita, equipara le ipotesi, non in quanto omette di tenere in considerazione quanto dedotto dai ricorrenti in ordine all'impossibilità che la stessa si sia manifestata urlando, perché incosciente ed a distanza dal mezzo, ma perché sottolinea che il suo avvistamento -mancato- avrebbe comunque evitato l'evento.
Ciò, nondimeno, rende inconferenti gli argomenti della difesa sulla distanza fra la persona offesa e la macchina raccoglitrice, così come quelli inerenti la bassa velocità tenuta dal mezzo in retromarcia -che avrebbe comunque consentito la fuga- o la sua posizione perpendicolare del corpo, rispetto al senso di marcia del mezzo, da cui si pretende di ricavare lo stato di incoscienza di N.S., prima dell'investimento. Perché, in ogni caso, la percezione dell'ostacolo, avrebbe consentito di non intraprendere la manovra o di intraprenderla scansando la donna, in piedi o a terra che fosse.
5. Il giudice di seconda cura, dunque, non pretermette in alcun modo l'alternativa rappresentazione dei fatti dedotta dagli imputati, ma, da un lato, esclude la sussistenza di riscontri processuali sull'eventualità della pregressa morte della persona offesa, dall'altro, chiarisce che, anche volendo immaginare una diversa modalità di accadimento, come prospettata dalle difese, nondimeno, l'investimento della lavoratrice - ancora in vita in quel momento- trova la sua causa nel mancato avvistamento della medesima.
6. Il superamento del ragionevole dubbio appare, dunque, fondato non sull'inconsistenza di un'eventualità remota, ma possibile, ma sull'inconfigurabilità concreta di una diversa ricostruzione.
7. Vanno, a questo punto, affrontati profili di doglianza alla sussistenza delle condotte ascritte.
8. Si tratta, per la verità, di un tema poco approfondito dai ricorsi, soprattutto in quello di M.Z., che vi fa cenno solo nel quarto motivo, senza, tuttavia, riproporre il tema della conformità del mezzo- dotato di marcatura CE- alla normativa europea, ma concentrandosi solo sull'asserita mancata risposta del giudice di appello in relazione alla prevedibilità ex ante dell'evento.
Ora, la sentenza, pur senza indicare una specifica norma impositiva [peraltro correttamente identificata dal primo giudice nel rinvio nella previsione di cui allegato V par. 2.6 lett. c) in relazione ai dispositivi ausiliari per le attrezzature semoventi] al di fuori di quella richiamata nell'imputazione, di cui all'art. 71, comma 3 d.lgs. 81/2008, che obbliga il datore di lavoro a "ridurre al minimo" il rischio di infortuni dotandosi non solo degli specifici presidi previsti dalle disposizioni, ma anche di adeguate misure tecniche ed organizzative, individua la condotta salfivica omessa nella mancata adozione di una strumentazione che consentisse la visione retroposteriore (telecamera) o quanto meno di un sensore (fotocellula) idoneo ad avvertire della presenza di un ostacolo. E giunge ad affermare che il presidio tecnico avrebbe potuto essere sostituito da una misura procedimentale di semplice applicazione, quale quella di prevedere l'obbligo dell'autista di scendere dal mezzo, prima di procedere alla retromarcia, o quella di delegare il controllo della zona di manovra ad un altro soggetto che potesse accertarsi dell'assenza di pericolo per l'incolumità di terzi, posti sul retro del mezzo o all'interno dello spazio di movimento della macchina.
Siffatti accorgimenti tecnici o organizzativi sono imposti, secondo la Corte territoriale, dalla complessità dell'automezzo, dalla sua lunghezza complessiva e soprattutto dall'esistenza di un angolo cieco, che impedisce la completa visualizzazione della manovra in retromarcia. Proprio la conformazione della macchina raccoglitrice e l'assenza di rimedi per ovviare alla mancanza di piena visibilità dello spazio retrostante il mezzo, rendevano prevedibile l'investimento di chi si trovasse nella zona nascosta alla visuale.
Rispetto al ragionamento introdotto dalla Corte territoriale, che esamina sia il profilo della prevedibilità, che quello dell'evitabilità dell'evento da parte del datore di lavoro, il ricorrente manca un effettivo confronto. Pertanto, la censura, per come proposta, deve ritenersi inammissibile.
9. Parimenti inammissibile è il motivo introdotto in proposito da R.Z. che formula la doglianza relativa alla configurabilità della condotta colposa pedissequamente ricalcando l'atto di appello, senza contrapporre alcuna argomentazione allo sviluppo del ragionamento contenuto nella motivazione impugnata, con cui si sottolinea che l'assenza di obblighi tipici inerenti il rapporto di lavoro non esclude in alcun modo l'obbligo del conducente di porre in essere ogni manovra, accertandosi dell'assenza di persone sulla traiettoria di spostamento, tanto più in retromarcia, e con un mezzo privo di visuale completa. A fronte di un simile dovere, derivante dalla mera guida della macchina, R. Z., procedeva in retromarcia, nonostante l'assenza della visuale completa, senza prima accertarsi della presenza a bordo di tutti i lavoratori e comunque senza controllare di avere la via libera. E' chiaro, e la Corte lo mette ben in evidenza, che la semplice constatazione della mancata comunicazione da parte di coloro che viaggiavano sul mezzo dell'intenzione di scendere non può equivalere alla constatazione della loro presenza a bordo, né tantomeno alla verifica dell'effettiva possibilità di mettere in atto una manovra sicura.
10. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito in plurime occasione come sia inammissibile per genericità il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso. (Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014 Ud. Rv. 260608; Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014 Ud. Rv. 259425; Sez. 6"', n. 34521 del 27 giugno 2013; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013 Ud. Rv. 25568; Sez. 3, n. 29612 del 05/05/2010 Ud. Rv. 247741; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Rv. 243838). La critica alla sentenza impugnata, si realizza, infatti, attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (art t . 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Si tratta di un principio generale, enunciato per tutte le forme di impugnazione che debbono enucleare in modo specifico il vizio denunciato esponendo le ragioni della sua decisività rispetto al percorso logico-giuridico seguito dal provvedimento impugnato, in modo da chiarire il contenuto della violazione di legge od il vizio di motivazione, che se eliminati secondo conducono ad una decisione nel senso richiesto. Ciò spiega perché se il motivo di ricorso in sede di legittimità si limita a ripetere quanto già chiesto al giudice precedente, riproponendo le medesime doglianze fallisce lo scopo dell'impugnazione, perché non critica la decisione che ne forma oggetto, che diviene indifferente rispetto alla stessa richiesta, ma quella del grado precedente. Questo di per sé giustifica l'inammissibilità della doglianza sul punto.
11. Occorre ora esaminare quello che costituisce uno snodo centrale di ambedue i ricorsi, e cioè quello che attiene alla valutazione della condotta della lavoratrice deceduta, considerata da M.Z. abnorme o, quantomeno, esorbitante rispetto alle mansioni affidate o comunque eccentrica al rischio governato e quindi, come tale, interruttiva del nesso di causalità fra le condotte addebitate e l'evento.
12. Due sono le premesse su cui si basa la critica al ragionamento contenuto nella sentenza.
13. La prima inerisce, ancora una volta, all'accertamento del fatto. Si sostiene, invero, che i giudici del merito abbiano ritenuto che N.S. scese dalla macchina raccoglitrice per pulire la capannina, fondando la ricostruzione su elementi ambigui, privi di significato e sinanco travisati. Così, per esempio, al fine di affermare che la discesa dal mezzo fosse motivata dalla volontà di provvedere all'incombente, la Corte richiamerebbe il fatto che la persona offesa stringeva fra le mani delle sterpaglie, mentre le dichiarazioni testimoniali sarebbero di segno contrario, o che nei pressi del corpo ci fosse uno dei ferri destinati allo scopo, mentre in realtà il medesimo poteva essere caduto dal sostegno, su cui era riposto, nel corso della marcia.
Si tratta di osservazioni prive di pregio, che, peraltro, ignorano il testo stesso della sentenza laddove non si menziona la circostanza che la vittima tenesse in pugno ramaglie o residui delle piante di pomodori, ma quella, del tutto diversa, rappresentata dalla presenza vicino al cadavere di un cumulo di sterpaglie, su cui era appoggiato uno dei ferri utilizzati per pulire la capannina. Da questo e dal fatto che altre due lavoratrici hanno riferito che occasionalmente la pulizia della capannina veniva effettuata nel corso delle lavorazioni, la Corte ha ritenuto che la ragione per la quale N.S. era scesa, fosse rappresentata dall'intenzione di pulire la capannina, mentre il mezzo era fermo per la rottura del martinetto.
Anche il giudice di prima cura, peraltro, ricostruisce il fatto nel medesimo modo e, tuttavia, senza escludere che le ragioni della discesa dalla raccoglitrice fossero altre, sottolinea che l'unico dato rilevante è che la donna fu investita per la carenza di dispositivi o procedure di sicurezza che consentissero di avvistarla sul retro della macchina.
14. Ora, la questione dell'abnormità o dell'eccedenza dal rischio governato e comunque dell'eccentricità rispetto alle mansioni appare mal posta.
Va ricordato, infatti, che la più recente giurisprudenza, abbandonando il criterio dell'imprevedibilità del comportamento del lavoratore nella verifica della relazione causale tra condotta del reo ed evento ha sostenuto che affinché "la condotta del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia" (cfr. da ultimo Sez. 4, Sentenza n. 15124 del 13/12/2016, dep. 27/03/2017, Rv. 269603; sulla base del principi enunciati da Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261106, in motivazione).
Ma è proprio per questo che non può, nel caso di specie, la condotta della lavoratrice non può collocarsi al di fuori della sfera di governo del datore di lavoro, perché realizza proprio l'azione paventata dalla regola preventiva omessa, ovverosia l'investimento di un soggetto non visibile, perché collocato nel cono d'ombra del mezzo in fase di manovra. E ciò del tutto indipendentemente dalla ragione per la quale la lavoratrice è scesa e si è posta sul retro della macchina. Ma per il solo fatto che sia scesa e si sia posta in quella particolare posizione, dove non è stata vista, ma avrebbe potuto essere vista laddove il datore di lavoro avesse adempiuto agli obblighi prevenzionali impostigli.
D'altro canto, in alcun modo può ritenersi abnorme ed eccentrico od addirittura estraneo alle mansioni affidate il comportamento del lavoratore che ponga in essere proprio il comportamento vietato- in questo caso scendere dal mezzo senza avvertire e porsi dietro alla macchina in manovra- perché siffatto comportamento, costituisce il rischio tipico per cui viene introdotta la prevenzione concreta.
15. E va, giunti qui, esaminata la seconda premessa alla critica della motivazione, riguardante l'asserita mancata valorizzazione del disposto dell'art. 20 d.lgs. 81/2008. Si sostiene, infatti, che l'obbligo imposto al lavoratore di prendersi cura della propria salute e di quella degli altri lavoratori, contribuendo con il datore di lavoro al rispetto delle cautele previste per la sicurezza del lavoro, anche a mezzo dell'osservanza delle prescrizioni datoriali impartite, riverberi sul nesso di causalità.
Si tratta di un assunto che per come formulato non può essere condiviso. Il dovere imposto dall'art. 20 cit., non implica, come sembrano pretendere i ricorrenti, che la consapevole violazione delle direttive del datore di lavoro esoneri quest'ultimo dalla responsabilità per gli effetti delle violazioni delle norme cautelari volte a tutelare l'incolumità dei lavoratori. Ché, altrimenti, l'onere imposto al lavoratore di collaborare con il datore di lavoro al mantenimento della propria salute e di quella collettiva, si trasformerebbe, a mezzo di un vero e proprio rovesciamento, nell'assunzione da parte del lavoratore subordinato della posizione di garanzia gravante sul datore di lavoro, sui suoi delegati, sui dirigenti e sul preposto, cioè su coloro dispongono dei mezzi e dei poteri per organizzare l'attività e che, proprio per questa ragione, devono farsi carico, anche, di assicurare, eventualmente in via disciplinare, l'osservanza delle disposizioni date, nonché di quelle stabilite con l'art. 20 d.lgs. 81/2008.
Il mancato adempimento da parte del dipendente agli obblighi previsti dalla disposizione, e più in generale al dovere di collaborazione, non costituisce mai, infatti, un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare, ma proprio uno di quei rischi, mentre è chiaro che la condotta tenuta dal lavoratore può sempre, in quanto connotata da un atteggiamento imprudente, imperito o negligente, o ancora posta in essere in violazione di specifiche disposizioni e direttive, concorrere nella causazione dell'evento. E come tale essere valutata in termini di colpa concorrente a quella del datore di lavoro.
Ed è proprio ciò che riconoscono entrambe le sentenze di merito, che sottolineano il contributo causale del comportamento tenuto dalla lavoratrice, la quale, pur a conoscenza dell'obbligo di avvisare il conducente prima di scendere dal veicolo, nulla comunicò a R. Z..
Anche sul punto, pertanto, la motivazione è scevra dai vizi che le vengono addebitati.
16. Da ultimo, vanno affrontati la doglianza, formulata da entrambi i ricorrenti, con i rispettivi sesto e settimo motivo di ricorso, relativa al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6) cod. pen..
17. Si deduce, innanzitutto, l'errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, nel considerare, ai fini della satisfattività dell'integrale risarcimento del danno, non l'importo complessivo di euro 495.000,00 percepito dalle parti civili, ma il minore importo di euro 375.000,00 direttamente ricevuto dai ricorrenti, benché anche la somma di euro 120.000,00 costituente la differenza ed erogata dall'INAIL, fosse prontamente stata corrisposta all'Istituto che, conseguentemente, aveva revocato la propria costituzione di parte civile.
Secondo i ricorrenti, infatti, la complessiva somma di euro 495.000, dovrebbe ascriversi al risarcimento offerto dagli imputati, posto che le somme già erogate dall'INAIL, sono state a questo corrisposte e quindi l'integralità di quanto ricevuto dalle parti civili va sostanzialmente loro riferito.
18. La tesi sottoposta con i gravami, pur suggestiva, è infondata.
19. E' pur vero, infatti, che al di là della forma indennitaria, le somme erogate dall'INAIL all'infortunato o ai suoi eredi hanno lo scopo di garantire al danneggiato o ai suoi eredi adeguati mezzi di sostentamento, e quindi rivestono sostanzialmente la funzione di ristoro del danno patrimoniale conseguente l'infortunio, ma è anche vero che il datore di lavoro è tenuto al pagamento diretto del solo danno differenziale, cioè di quelle voci di danno che non siano coperte dall'indennizzo dell'Istituto assicuratore, rimanendo la rivalsa dell'INAIL per le somme erogate a titolo indennitario all'interno del rapporto assicurativo.
Conseguenza diretta di ciò è che la considerazione, da parte della Corte di appello, del solo danno differenziale, quale misura da tenere in considerazione al fine di verificare la satisfattività del risarcimento offerto, non penalizza il datore di lavoro, posto che la valutazione sulla completezza della rifusione riguarda solo i danni non inclusi fra quelli indennizzati dall'INAIL, a mezzo delle prestazioni erogate.
Del tutto fuorvianti, pertanto le considerazioni svolte sulla surrogazione -ma qui più opportunamente dovrebbe parlarsi di regresso, trattandosi del datore di lavoro- dell'Istituto assicurativo nei confronti del responsabile dell'infortunio, essendo stato considerato solo quanto da questi ulteriormente dovuto.
20. Prima di affrontare l'ultimo motivo di ricorso proposto dal solo R. Z., cui non è contestata l'aggravante di cui all'art. 589, comma 2 cod. pen., deve rilevarsi che il reato al medesimo ascritto è estinto per prescrizione, essendo stato commesso in data 17.9.2012 ed essendo il termine prescrizionale, ai sensi di cui agli artt. 157 e 161 cod. pen., spirato il 16 marzo 2020, non applicandosi, peraltro all'ipotesi di specie la sospensione del corso della prescrizione nel giudizio di legittimità, prevista dal comma 3-bis dell'art . 83 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, posto che il reato si è prescritto prima che il ricorso pervenisse alla cancelleria di questa Corte, in data 17 agosto 2020 (cfr. "In tema di disciplina della prescrizione a seguito dell'emergenza pandemica da Covid-19, la sospensione del corso della prescrizione nel giudizio di legittimità, prevista dal comma 3-bis dell'art. 83 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, si applica ai procedimenti per i quali ricorra la duplice condizione dell'essere pendenti dinanzi alla Corte di cassazione e di essere pervenuti alla cancelleria della stessa nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020. (In motivazione, la Corte ha precisato che, per i procedimenti pervenuti dal 9 marzo, l'effetto sospensivo si produce a partire dal 30 aprile 2020, data di entrata in vigore della legge di conversione che ha introdotto il comma 3- bis dell'art.83, mentre per quelli iscritti in data successiva al 30 aprile 2020, la sospensione opera fin dal momento della loro iscrizione). (Sez. U, Sentenza n. 5292 del 26/11/2020, dep. 10/02/2021, Rv. 280432).
21. Ciò, esime dall'esaminare l'ulteriore censura, formulata, come si è detto dal solo R. Z., inerente alla mancata considerazione, nella valutazione dell'integralità del risarcimento, del concorso di colpa della persona offesa nella causazione dell'evento, ai fini dell'applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6) cod. pen. La questione, invero, è assorbita dalla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, mentre, ai fini esclusivamente civilistici la statuizione del giudice penale in ordine alla quantificazione delle percentuali di concorso delle colpe del reo e della vittima nella determinazione causale dell'evento, trattandosi di accertamento che non ha efficacia di giudicato nell'eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno. (Sez. 4, n. 4607 del 20/09/2017 - dep. 31/01/2018, P.C. in proc. Collodel e altro, Rv. 271953; Sez. 3 Civ., sent. n. 4504 del 28/03/2001, Furlan contro Marzotto, Rv. 545254).
22. La sentenza deve, dunque, essere annullata senza rinvio agi effetti penali nei confronti di R. Z., perché il reato è estinto per prescrizione,
rigettando il ricorso dal medesimo proposto agli effetti civili. Al rigetto del ricorso di M.Z. consegue la sua condanna al pagamento delle spese processuali. Entrambi i ricorrenti vanno condannati alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili in questo giudizi di legittimità, da liquidarsi in complessivi euro quattromila, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali, nei confronti di Z. R., perché il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso di Z. R. agli effetti civili. Rigetta il ricorso di Z. M., che condanna al pagamento delle spese processuali. Condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili in questo giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro quattromila, oltre accessori come per legge.
Così deciso il 16/03/2021