Cassazione Penale, Sez. 4, 18 dicembre 2020, n. 36438 - Caduta dall'alto durante i lavori di ristrutturazione di un ristorante: responsabilità dei committenti in qualità di amministratore di fatto e amministratore di diritto. Principio di effettività

2020


1. La Corte di Appello di Roma, pronunciando nei confronti degli odierni ricorrenti, D.R. e M.I., e delle coimputate non ricorrenti A.M. e A.G., con sentenza del 25/10/2018, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma del 12/2/2014, appellata dagli imputati, aveva dichiarato non doversi procedere in ordine ai reati ascritti ai capi A, B, C, D, E, F, G, H perché estinti, per intervenuta prescrizione e aveva rideterminato la pena, in relazione alla residua imputazione, in mesi otto di reclusione, ciascuno. Aveva ridotto l'importo delle spese di costituzione liquidate in primo grado alle parti civili, con condanna alla rifusione anche delle spese del grado, confermando nel resto.
Il Tribunale di Roma aveva condannato tutti gli imputati sopra indicati, riconosciute a tutti le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, ritenuta la continuazione, alla pena di anni uno di reclusione ciascuno, con il doppio beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione, con condanna al risarcimento del danno in favore delle parti civili, da liquidarsi in separata sede, nonché al pagamento delle spese di parte civile e della somma di € 50.000,00 a titolo di provvisionale in favore di ciascuna delle parti civili.
Agli odierni ricorrenti D.R. e M.I. erano contestati, nelle qualità rispettivamente di amministratore di fatto e amministratore di diritto della Daniel S.r.L., committente dei lavori di ristrutturazione del ristorante con sede in via Lazio n. 22, i reati contravvenzionali di cui ai capi g) (art. 3 co 3 lett. a) D. L.vo 494/96 come modificato dall'art. 90 co. 3 D. L.vo 81/2008 perché omettevano di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa) e h) (art. 6 co.2 D. L.vo 494/96 come modificato dall'art 92 co 1 letta) D L.vo 81/2008 perché omettevano di verificare che la ditta incaricata all'esecuzione dei lavori avesse redatto il Piano Operativo di Sicurezza) dichiarati prescritti in secondo grado e quello di cui:
• al capo i) artt. 113, 589 co 2 cod. pen. anche con riferimento agli artt. 4 co. 2 D.L.vo 626/94 come modificato dall'art. 28 D. L.vo 81/2008, 21 D. L.vo 626/94 come modificato dall'art. 36 D. L.vo 81/2008, 22 D. L.vo 626/94 come modificato dall'art. 37 D. L.vo 81/2008, 10 co 1 DPR 164/56 come modificato dall'art. 115 D. L.vo 81/2008, 10 co. 2 d.P.R. 164/56 come modificato dall'art. 115 D. L.vo 81/2008, 27 d.P.R. 547/55 come modificato dall'art.126 D. L.vo 81/2008, 3 co 3 lett. a) come modificato dall'art. 90 co 3 D.L.vo 81/2008, 6 co. 2 D.L.vo 494/96 come modificato dall'art. 92 co. 1 lett. a) D.L.vo 81/2008, perché in cooperazione tra loro e con le altre imputate (A.M. e A.G., in qualità di amministratori rispettivamente di fatto e di diritto della ditta A.M., ditta appaltatrice dei lavori di ristrutturazione del ristorante avente sede in via Lazio, 22, nonché datori di lavoro di G.D.), tenendo, nelle rispettive qualità, condotte improntate a negligenza, imprudenza ed imperizia, integranti la violazione della normativa in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, e, in particolare ponendo in essere le condotte ascritte nei capi che precedono, cagionavano l'infortunio di G.D.. Infatti, mentre il medesimo - sprovvisto di protezioni contro la caduta nel vuoto - stava effettuando lavori di ristrutturazione del lucernaio sul solaio di copertura della cucina del ristorante, sito in via Lazio n. 22, posto ad un'altezza di m. 5,50 rispetto alla rampa del garage, cadeva dal suddetto solaio riportando lesioni personali di tale gravità per cui nell'immediatezza decedeva. In Roma il 2/4/2008.

2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del comune difensore di fiducia, D.R. e M.I. deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla presunta violazione della normativa antinfortunistica.
I ricorrenti premettono di essere stati ritenuti rispettivamente amministratore di fatto e di diritto della Daniel S.r.l., con conseguente responsabilità di entrambi per aver omesso i controlli previsti dalla normativa antinfortunistica a carico del committente dei lavori.
L'assunto relativo all'omesso controllo - obiettano - non corrisponderebbe, tuttavia al vero perché la M.I., unica amministratrice della Daniel, richiedeva ed otteneva dalla ditta incaricata dei lavori la visura della Camera di Commercio di Roma della stessa ditta.
Si richiama, quindi la sentenza n. 40922/2018 di questa Sezione sul dovere di controllo e sulla responsabilità del committente, evidenziando che, contraria­ mente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, il committente non poteva assolutamente prevedere la pericolosità della situazione.
Infatti, G.D. non era un dipendente della ditta A.M., che dalla visura della camera di commercio risultava essere una impresa individuale senza dipendenti.
Il G.D. era giunto in Italia da pochi giorni e A.G. gli aveva proposto di lavorare con lui per la ristrutturazione.
Dall'istruttoria espletata non sarebbe emerso se la M.I. ed il D.R. fossero a conoscenza della presenza del G.D., totalmente estraneo alla ditta incaricata, sul cantiere.
Viene evidenziato che il D.R., in sede di interrogatorio, aveva dichiarato di aver corrisposto personalmente una somma a titolo di acconto, di aver seguito lo stato di avanzamento dei lavori e di aver partecipato alla scelta dei materiali, ma esclusivamente perché si trattava di un investimento, mentre l'amministratrice della società si occupava della parte contabile.
Nessuno dei due avrebbe avuto modo di rendersi conto che il G.D. non era un operaio regolarmente assunto dalla ditta "A.M.", e soprattutto sarebbe stato in grado di valutare la situazione di pericolo.
Con un secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche prevalenti e all'eccessività della pena.
Ci si duole dell'eccessività della pena, determinata senza riconoscere le attenuanti generiche prevalenti che, invece, si assume andassero riconosciute tali, stante l'incensuratezza degli imputati.
Si contesta la mancanza, nella sentenza impugnata, di una valida e logica motivazione sulla mancata concessione delle attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen. prevalenti e sulla quantificazione della pena.
Con un terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'errata condanna dei ricorrenti al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore delle parti civili costituite.
Si riporta la motivazione della sentenza impugnata sul punto evidenziandone la contraddittorietà in quanto la corte distrettuale da un lato riterrebbe consequenziale la condanna al risarcimento dei danni anche per il D.R. e la M.I., mentre d'altro lato rimanda al giudice civile l'accertamento del danno, la tipologia e la sua quantificazione.
Ritengono i ricorrenti che la responsabilità del danno per la morte del G. va ascritta solo all'A.G., dal momento che è stato lui ad ingaggiarlo e a non fornirgli gli strumenti necessari per lavorare in sicurezza.
Un'eventuale responsabilità dei ricorrenti per gli omessi controlli sulla ditta incaricata configurerebbe comunque una responsabilità minore rispetto a quella dell'A.G. e, quindi, con conseguente diversa posizione anche per la provvisionale e per la quantificazione del danno.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguenza di legge.

3. Nei termini di legge hanno rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza camerale senza discussione orale (art. 23 co. 8 d.l. 137/2020), il P.G., che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi e il difensore e il procuratore speciale di G.D., G.L. e G.F. quali eredi del defunto G.D., che pure ha chiesto dichiararsi inammissibili o, in subordine, rigettarsi i ricorsi.



Diritto


1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e, pertanto, proposti ricorsi vanno dichiarati inammissibili.

2. Per quello che qui rileva, va ricordato in fatto che, in data 21/3/2008, A.M., legale rappresentante dell'omonima ditta individuale, sottoscriveva una scrittura privata con l'odierna ricorrente M.I. , legale rappresentante della Daniel s.r.l., per l'esecuzione di lavori di ristrutturazione dei locali siti in via Lazio, nn. 22 e 22/A, adibiti ad attività di ristorazione, condotti in locazione dalla Daniel.
Per l'esecuzione di detti lavori, A.G., marito di A.M., che, come ricordava già il giudice di primo grado, è emerso che si occupasse di fatto della direzione della ditta intestata alla moglie, dopo aver ricevuto un acconto da parte di D.R., marito della M.I., aveva contattato e fatto lavorare anche il cognato, G.D., senza stipulare con costui alcun contratto scritto.
In data 2/4/2008, nell'ambito dei menzionati lavori di ristrutturazione, G.D., intento alla posa in opera di mattoni per la sostituzione del lucernaio della cucina del ristorante, su un solaio privo di parapetto e senza essere munito di corde di sicurezza e casco protettivo, era precipitato in terra, sulla sottostante rampa del garage, da un'altezza di circa cinque metri e mezzo, riportando un grande traumatismo corporeo, con lesioni viscerali multiple, emoperitoneo ed emotorace oltre a trauma cranio encefalico, che ne avevano provocato il decesso. Già il giudice di primo grado aveva quindi messo in evidenza come all'operaio deceduto - non formato sulle proprie mansioni e non informato sui rischi in materia di sicurezza sul lavoro - non fossero state fornite le attrezzature di protezione idonee a scongiurare pericoli, per un verso, e che, per altro verso, era stato con­sentito che costui lavorasse in uno spazio angusto e ingombro di oggetti in cui era difficile muoversi, senza un parapetto sul perimetro del tetto e senza un sistema di ancoraggio che gli consentisse di lavorare in sicurezza, evitando di cadere nell'a­pertura della cucina dove si stava installando il lucernaio. Tutte violazioni che sono state ritenute poste in essere dagli imputati con le condotte omissive loro addebitate in imputazione.
Ebbene, quanto alla prima doglianza, come chiaramente e logicamente motivato nella sentenza impugnata, seppur legale rappresentante della ditta committente (alla Daniel s.r.l.) fosse M.I., è risultato, in punto di fatto, che D.R. partecipasse fattivamente all'amministrazione, in concreto, della società, affiancandosi alla M.I., quantomeno con riferimento ai lavori di ristrutturazione dei locali nell'ambito dei quali è avvenuto il decesso dell'operaio.
E' quanto si ricava, come si legge nella sentenza impugnata: 1. dall'essere D.R. socio, di maggioranza della società committente (era titolare dell'85% delle quote societarie ed è definito, nell'esame dibattimentale della coimputata M., quale "proprietario" del ristorante); 2. dall'avere costui personalmente cor­risposto una somma a titolo di acconto, per i lavori commissionati, nelle mani di A.G. (a sua volta amministratore di fatto della ditta appaltatrice dei lavori), e dall'avere personalmente saldato i lavori e ottenuto la consegna della ricevuta; 3. dall'essere sempre stato presente negli adempimenti che hanno fatto seguito al decesso di G.D. e dall'avere costituito il principale referente degli organi che hanno svolto le indagini (il teste I.M. del Commissariato P.S. Castro Pretorio ha specificato che il D.R. si era presentato come il gestore. del locale e, anche dopo il sinistro, nelle occasioni in cui egli si era recato presso quel ristorante per controlli di altra natura, era presente il D.R. unitamente alla M.I.), tanto che, al momento del sopralluogo eseguito da C.P., tecnico della prevenzione presso il Dipartimento della ASL Roma A, erano presenti A.G. e D.R., ossia i gestori di fatto rispet­tivamente della ditta appaltatrice e della ditta committente i lavori; 4. dalle dichia­razioni rese dallo stesso D.R. nel corso dell'esame dibattimentale, avendo costui riferito che erano stati "loro", 'ossia i soci della Daniel (sostanzialmente D.R. e M.I., posto che il terzo socio, tale H.H., non partecipava alla gestione della società, secondo quanto riferito dalla M.I.) a commissionare i lavori all'A.M. e a specificare quali lavori dovevano essere realizzati; egli inoltre aveva partecipato alla scelta dei materiali, degli arredamenti, seguendo personalmente l'avanzamento dei lavori di ristrutturazione, mentre la M.I. aveva poi il compito di seguire la gestione del ristorante; sempre D.R. aveva corrisposto una somma al figlio dell'operaio deceduto per il trasporto della salma del padre in Romania.
In ragione di ciò, i giudici del merito hanno ritenuto che la figura del committente dei lavori nell'ambito dei quali si è verificato il decesso dell'operaio G.D. fosse ricoperta formalmente e sostanzialmente sia da M.I., sia da D.R.; e questo perché, come sopra esposto, la M.I. era il legale rappresentante della ditta che aveva commissionato i lavori, ed era comunque presente in loco, mentre il D.R., oltre che proprietario della quasi totalità delle quote, aveva in concreto scelto la ditta, curato l'affidamento dei lavori e seguito l'avanzamento dei lavori stessi, partecipando alla scelta dei materiali e degli arredi.

3. Correttamente i giudici del gravame del merito ricordano che il principio di effettività in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro rende riferibile l'inosservanza delle norme precauzionali a chi è munito dei poteri di gestione e di spesa, poteri nella specie riconducibili, per quanto emerso, anche a D.R..
Su entrambi gli odierni ricorrenti, dunque, ricadevano gli obblighi che la normativa antinfortunistica pone a carico del committente.
Ebbene, la sentenza impugnata si colloca nel solco della giurisprudenza consolidata di questa Corte che vuole, in materia di responsabilità colposa, che il committente di lavori dati in appalto debba adeguare la sua condotta a fondamentali regole di diligenza e prudenza e pertanto debba scegliere l'appaltatore, e più in generale il soggetto al quale affida l'incarico, accertandosi che tale soggetto sia non soltanto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa.
Egli ha l'obbligo di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati (cfr. ex multis Sez. 3, n. 35185 del 26/4/2016, Marangio, Rv. 267744 in un caso relativo alla morte di un lavoratore edile precipitato al suolo dall'alto della copertura di un fabbricato, nella quale è stata ritenuta la responsabilità per il reato di omicidio colposo dei committenti, che, pur in presenza di una situazione oggettivamente pericolosa, si erano rivolti ad un artigiano, ben sapendo che questi non era dotato di una struttura organizzativa di impresa, che gli consentisse di lavorare in sicurezza).
E' pur vero che è stato precisato che dal committente non può esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori, occorrendo verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità, da parte del committente, di situazioni di pericolo. (cfr. Sez. 4, n. 27296 del 2/12/2016 dep. il 2017, Vettor, Rv. 270100 in una fattispecie in tema di appalto di lavori di pulizia all'interno dell'azienda, in cui la Corte ha annullato la sentenza che aveva ritenuto la responsabilità del committente in relazione al reato di lesioni colpose, per aver dato incarico ad un lavoratore di pulire il piazzale della ditta usando soda caustica, senza assicurarsi che il datore di lavoro appaltatore avesse spiegato al dipendente la necessità di cambiare gli indumenti contaminati dalla predetta sostanza pericolosa; conf. Sez. 4, n. 44131 del 15/7/2015, Heqimi ed altri, Rv. 264974-75). Ma rimane anche fermo il principio che, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d'appalto, il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedano una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (così la condivisibile Sez. 3, n. 12228 del 25/2/2015, Cicuta, Rv. 262757 che, in applicazione del principio, ha escluso che potesse andare esente da responsabilità il committente che aveva omesso di attivarsi per prevenire il rischio, non specifico, di caduta dall'alto di un operaio operante su un lucernaio).
Il committente è titolare di una autonoma posizione di garanzia e può essere chiamato a rispondere dell'infortunio subito dal lavoratore qualora l'evento si colleghi causalmente ad una sua colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata adozione o l'inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini (cfr. Sez. 4, n. 10608 del 4/12/2012 dep. il 2013, Bracci, Rv. 255282, in un caso di inizio dei lavori nonostante l'omesso allestimento di idoneo punteggio).
Ed è del tutto evidente -e lo spiegano nelle loro sentenze i giudici di merito­ che è proprio questo il caso che ci occupa, in cui non può certo ritenersi che, attraverso la verifica che la ditta appaltatrice fosse iscritta alla camera di commercio, peraltro non avendo operai alle proprie dipendenze, gli odierni ricorrenti si siano accertati che la stessa fosse munita di tutti i titoli di idoneità prescritti dalla legge, nonché della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa.
Ma se anche ciò avessero fatto, la mancata adozione o l'inadeguatezza delle misure precauzionali era immediatamente percepibile senza particolari indagini, perché tali misure erano del tutto assenti in relazione ad un operaio che lavorava in uno spazio angusto e ingombro di oggetti, in cui era difficile muoversi, senza un parapetto sul perimetro del tetto e senza un sistema di ancoraggio che gli consentisse di lavorare in sicurezza, evitando di cadere nell'apertura della cucina dove si stava installando il lucernaio.
Va dunque ribadito che il committente, anche nel caso di affidamento dei lavori ad un'unica ditta appaltatrice (c.d. cantiere "sotto - soglia"), è titolare di una posizione di garanzia idonea a fondare la sua responsabilità per l'infortunio, sia per la scelta dell'impresa - essendo tenuto agli obblighi di verifica imposti dall'art. 3, comma ottavo, D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494 - sia in caso di omesso controllo dell'adozione, da parte dell'appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro (così Sez. 4, n. 23171 del 9/2/2016, Russo ed altro, Rv. 266963, che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata, che aveva riconosciuto la responsabilità a titolo di omicidio colposo del committente, il quale aveva omesso non solo di verificare l'idoneità tecnico professionale della ditta appaltatrice, in relazione alla entità e tipologia dell'opera, ma anche di attivare i propri poteri di inibizione dei lavori, a fronte della inadeguatezza dimensionale dell'impresa e delle evidenti irregolarità del cantiere).
L'approdo giurisprudenziale più recente può essere ben compendiato nell'arresto giurisprudenziale citato dai giudici del gravame del merito, ovvero Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272221, secondo cui il committente, anche nel caso di subappalto, è titolare di una posizione di garanzia idonea a fondare la sua responsabilità per l'infortunio, sia per la scelta dell'impresa sia in caso di omesso controllo dell'adozione, da parte dell'appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, specie nel caso in cui la mancata adozione o l'inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini. (In applicazione di tale principio, la Corte - con riferimento a una fattispecie in cui i lavori appaltati erano stati oggetto di una catena di subappalti - ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata, che aveva riconosciuto la responsabilità a titolo di lesioni colpose del primo appaltatore, per avere omesso di vigilare sull'adozione, da parte dell'ultimo subappaltatore della catena, di presidi anticaduta nel vano ascensore in cui si era verificato l'infortunio, la cui mancanza era stata rilevata tre giorni prima dell'incidente dal coordinatore della sicurezza nominato dal primo committente).

4. Parimenti manifestamente infondato appare il secondo motivo di ricorso.
La Corte capitolina ha dato conto di avere ritenuto corretta la valutazione di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche in ragione del "maggior peso della circostanza aggravante del comma 2 dell'art. 589 c.p. che ridisegna un ambito edittale con minimo e massimo di pena decisamente più alti (il minimo è ad­ dirittura quadruplicato)". E di condividere inoltre "la scelta del primo giudice di non operare distinzioni tra le posizioni nel trattamento sanzionatorio, trattandosi di plurime violazioni della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, cui ha fatto seguito il decesso di un operaio che è stato preposto al lavoro commesso al di fuori del complesso di regole che disciplinano il rapporto lavoristico e presidiano la sicurezza sul lavoro".
La dosimetria delle pana appare congruamente motivata e, quanto al giudizio di equivalenza delle riconosciute circostanze attenuanti generiche, la sentenza impugnata si colloca nell'alveo del consolidato e condivisibile dictum di questa Corte secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. Un., n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931; conf. Sez. 2 n. 31543 dell'8/6/2017; Pennelli, Rv. 270450; Sez. 4, n. 25532 del 23/5/2007, Montanino Rv. 236992; Sez. 3, n. 26908 del 22/4/2004, Ronzoni, Rv. 229298). E nel giudizio ex art. 69 cod. pen., così come nella determinazione, in misura inferiore a quella massima consentita dalla legge, della riduzione di pena dovuta al giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può valorizzare anche i precedenti penali relativi a reati depenalizzati o estinti, trattandosi di fattispecie che rimangono significative di una predisposizione dell'imputato a violare la legge penale (cfr. Sez. 5, n. 45423 del 6/10/2004, Mignogna ed altri, Rv. 230579).

5. Manifestamente infondato appare, infine, anche il terzo motivo di ricorso, non ravvisandosi alcuna contraddittorietà nella condanna al risarcimento del danno avvenuta in forma generica in sede penale, con liquidazione di una provvisionale, riservando al giudice civile l'esatta quantificazione del danno.
La diversa responsabilità rispetto al datore di lavoro non comporta necessariamente una diversa responsabilità ai fini del risarcimento del danno e comunque, come rileva correttamente la sentenza impugnata, ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile, "non è necessario che il danneggiato provi l'effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l'azione, dell'autore dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un fatta potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, costituendo tale pronuncio una mera declaratoria juris dalla quale esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla 'stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al "giudice della liquidazione" (così la richiamata Sez. 6, n. 12199 del 11/03/2005, Molisso, Rv. 231044; cfr. anche Sez. 6, n. 14377 del 26/02/2009, Giorgio ed altri, Rv. 243310; Sez. 5, n. 45118 del 23/4/2013, Di Fatta ed altri, Rv. 257551).
In altri termini, va ribadito che la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione e l'entità del danno, ivi compresa la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito (così Sez. 3, n. 36350 del 23/3/2015, Bertini e altri, Rv. 265637).
Come correttamente rileva la sentenza impugnata, la ritenuta sussistenza del reato, anche a carico dei committenti D.R. e M.I., produce, quale conseguenza inevitabile, l'insorgenza di un danno anche di tipo potenziale che, in quanto conseguenza dell'accertamento dell'illecito penale, non può non essere, quantomeno, una forma di danno non patrimoniale (art. 2059 cod. civ.), salvo il potere da parte del giudice civile - davanti al quale le parti sono state rimesse per la liquidazione definitiva dei danni - di accertare con compiutezza di elementi la sussistenza del danno, di valutarne la tipologia e determinarne l'ammontare, seguendo, ovviamente, le regole probatorie civilistiche per la sua quantificazione.

6. Essendo i ricorsi inammissibili e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria e alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili nella misura indicata in dispositivo.


P.Q.M.


Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese di assistenza e di rappresentanza sostenute dalle costituite parti civili G.G., G.L. e G.F. quali eredi di G.M. e G.D., che liquida in complessivi euro 4500, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 26 novembre 2020


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