Cassazione Penale, Sez. 4, 03 febbraio 2021, n. 4075 - Caduta dell'ascensore e infortunio dell'apprendista. Il fatto che il l datore di lavoro operi anche in prima persona non muta i suoi doveri nei confronti della sicurezza dei suoi lavoratori
1. La Corte di Appello di Roma, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente, G.P., con sentenza del 21/5/2019, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma, emessa in data 23/3/2018, appellata dall'imputato, ha dichiarato non doversi procedere per il reato di cui al capo 2) dell'imputazione perché estinto per prescrizione, rideterminando la pena per il reato di cui al capi
1) in mesi 2 di reclusione, confermando nel resto, con condanna alla rifusione delle spese di parte civile.
Il tribunale capitolino aveva condannato il G.P., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti sull'aggravante relativa alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, alla pena di mesi 2 e giorni 20 di reclusione, con condanna al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, C.A., da liquidarsi in separata sede civile, con assegnazione di una provvisionale di € 10.000,00, oltre alla rifusione delle spese, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, dichiarandolo responsabile, dei seguenti reati, riuniti per continuazione:
1) art. 590 cod. pen. commi 2 e 3 perché cagionava, a C.A. lesioni, consistite in varie fratture scomposte, guaribili in almeno 30 giorni, per colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e violazione della normativa di cui al capo seguente, con la condotta in esso descritta, agendo quale titolare dell'impresa "Tecno Service 3000 srl" ed esecutore effettivo dei lavori di riparazione dell'ascensore del fabbricato Pai.C-41, isola 19, L.go Olgiata 19, insieme al dipendente suddetto che aveva la qualifica di apprendista;
2) art. 71, co.4, lett. a, D.L.vo 81/08, perché, mentre effettuava i lavori di cui al capo 1) e trovandosi sulla copertura della cabina dell'ascensore che fungeva da piano di lavoro, insieme al dipendente C.A., ometteva di predisporre idonei dispositivi di sicurezza, in particolare non provvedeva ad ancorare l'impianto di sollevamento alla guida dello stesso ed a verificare l'efficienza del freno paracadute, talché l'ascensore cadeva al suolo da un'altezza di circa 5 metri.
In Roma 1'8/10/2012.
2. Avverso la sopra menzionata sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, G.P., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'applicazione della norma sul nesso di causalità, di cui all'art. 40 cod. pen., tra la mancata condotta addebitata e il verificarsi dell'evento.
Si lamenta in ricorso che il giudizio di colpevolezza sarebbe fondato unicamente sulle dichiarazioni del C.A., parte lesa, e dei testimoni PE.e.P., sia per quanto riguarda la ricostruzione dei fatti che per l'accertamento del nesso di causalità: in particolare, trattandosi di reato omissivo, per l'accertamento della condotta che il G.P. avrebbe dovuto tenere per evitare il verificarsi dell'evento.
Rilevato, quindi, che sarebbe pacifica, anche se non accertata tecnicamente con una perizia, l'identificazione del cedimento delle guide di sicurezza, predisposte dall'imputato, come causa della caduta dell'ascensore, ci si duole del mancato accertamento delle cause di detto cedimento, necessario ai fini dell'individuazione del titolare della posizione di garanzia alla base della responsabilità penale dell'accaduto.
Sostanzialmente si contesta l'assenza di una corretta analisi, da valutarsi ex ante e non ex post, della sussistenza del nesso di causalità ai sensi dell'art. 40 cod. pen. Il giudice di merito, precisa il ricorrente, avrebbe dovuto verificare se effettivamente il G.P. fosse obbligato ad installare, nel tipo di intervento specifico effettuato sull'ascensore, un ulteriore strumento di sicurezza e, eventualmente, quale specifico strumento ed, inoltre, se effettivamente lo stesso G.P. avesse potuto prevedere i rischi connessi che richiedevano ulteriori cautele.
Nessun elemento sarebbe emerso a riguardo, nell'istruttoria dibattimentale di primo grado e, pertanto, in assenza di rinnovazione istruttoria risulta viziata anche la decisione di appello sul punto.
Si rileva che le dichiarazioni testimoniali utilizzate ai fini della decisione, rimarrebbero alla stregua di mere valutazioni personali e, soprattutto, si porrebbero ex post e non ex ante rispetto all'evento, risultando, pertanto, inefficaci al fine di superare il limite dell'oltre ogni ragionevole dubbio.
Sarebbe rimasto del tutto indimostrato che l'ulteriore misura di sicurezza ipotizzata, richiamata dai testi, avrebbe effettivamente, oltre ogni ragionevole dubbio, impedito l'evento delle lesioni al dipendente.
Così come sarebbe rimasto indimostrata l'esistenza, a carico dell'imputato, dell'obbligo giuridico di impedire l'evento, quanto meno in relazione alla prevedibilità dello stesso evento.
Si sottolinea che nessun accertamento è stato svolto sulla corretta manutenzione ordinaria, affidata alla ditta committente del lavoro, nonché sullo stato dell'impianto e delle guide paracadute che non hanno funzionato come dovuto.
Il ricorrente contesta, quindi, l'errata ed illogica interpretazione della legge, operata senza disporre il necessario accertamento tecnico peritale al fine del corretto accertamento delle cause dell'evento.
Con un secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 43 cod. pen., per l'ipotesi di reato contestata in correlazione con il D.L.vo 81/2008.
Ci si duole dell'avvenuta dichiarazione di responsabilità dell'imputato senza alcuna prova dell'esistenza di una norma che preveda un ulteriore obbligo di sicurezza, la cui elusione possa essere attribuita al G.P., nonché senza la neces saria individuazione del tipo di colpa, generica o specifica, attribuita allo stesso.
Si evidenzia che in assenza di specifiche indicazioni di legge, su eventuali ulteriori sistemi di sicurezza, fa fede il Documento di valutazione dei rischi dell'azienda. In base a tale documento, certificato dall'apposito ente certificatore, la condotta tenuta dall'imputato appare corretta e rispettosa delle regole di buona tecnica ed esperienza, senza elusione di alcun obbligo.
Non sussisteva, nel caso che ci occupa, secondo la tesi propugnata in ricorso, alcun obbligo giuridico di installare un ulteriore sistema di sicurezza.
Si contesta, inoltre, il mancato accertamento dell'effettiva e concreta prevedibilità dell'evento, sottolineando che il G.P. interveniva, su chiamata della ditta manutentrice dell'impianto, per riparare un guasto per nulla attinente con i sistemi di sicurezza, che risultavano documentalmente efficienti.
Si evidenzia, infine, che l'intervento veniva posto in essere in prima persona dall'imputato, ponendo eventualmente in pericolo in primo luogo la propria incolumità.
Con un terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al valore del documento di valutazione del rischio redatto dall'azienda Tecno Service 3000 ai sensi del D.L.vo 81/2008.
Ci si duole dell'esclusione della valenza del documento indicato, necessario al fine di ricostruire il grado di prevedibilità dell'evento dannoso.
Il documento è stato definito, dai giudici di appello, carente ed incompleto, omettendo di considerare il disposto normativo previsto dal D.L.vo 81/2008 in tema di validazione e certificazione del documento dei rischi redatto dal datore di lavoro.
Ebbene, si sostiene in ricorso che il documento in questione recava l'attestazione dell'ente certificatore, pertanto, sulla base della scheda relativa al tipo di intervento eseguito, la condotta tenuta dall'imputato appare assolutamente rispettosa degli obblighi di sicurezza imposti dalla normativa antinfortunistica.
La Corte capitolina sarebbe, secondo la tesi del ricorrente, incorsa nel vizio di travisamento della prova che non può escludersi, trattandosi di cosiddetta doppia conforme, in quanto nella motivazione sullo specifico motivo di appello avrebbe richiamato dati probatori (DVR e scheda tecnica), non esaminati dal primo giudice.
Infatti, nonostante l'avvenuta produzione in primo grado del DVR, lo stesso documento non sarebbe stato assolutamente valutato dal tribunale. Perciò il documento di valutazione dei rischi avrebbe dovuto essere valutato, in sede di appello, esclusivamente in chiave difensiva, unitamente al parere tecnico dell'Arpa.
Tale parere precisava che il sopralluogo svolto era avvenuto in maniera pura mente visiva, non potendosi compiere prove di funzionamento, di conseguenza non sarebbe possibile escludere altre cause determinanti l'evento.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata, con ogni conseguente statuizione.
3. Nei termini di legge, il 17.11.2020, ha rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza pubblica senza discussione orale (art. 23 co. 8 d.l. 137/2020), il P.G. presso questa Suprema Corte, chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso, con ogni ulteriore conseguenza.
4. In data 3.12.2020 sono state presentate repliche e conclusioni nell'interesse del P., a firma del proprio difensore avv. Fabio Orlandi, il quale ha insistito per l'annullamento della sentenza impugnata o, in subordine, perché venga dichiarata la prescrizione del reato.
In particolare, quanto al primo motivo di ricorso, si sostiene, contrariamente a quanto sostenuto dal PG in sede di conclusioni, che quanto dedotto dalla difesa nell'atto di ricorso mira esattamente ad evidenziare l'erronea applicazione della legge penale sostanziale al caso concreto e, dunque, l'erronea qualificazione giuridica del fatto e la conseguente errata sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta. La titolarità di una posizione di garanzia riconosciuta, come nel caso di specie, in capo al datore di lavoro non comporterebbe, in presenza del verificarsi di un evento infortunistico, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante imponendo invece il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione da parte del garante di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'e vento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (la cosiddetta concretizzazione del rischio) - di cui ai successivi motivi di ricorso - e sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso. Nello specifico, il ricorrente fa riferimento a quanto affermato e ribadito da numerosi arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte alla stregua dei quali il nesso di causalità non può essere affermato sulla base di un coefficiente di mera probabilità statistica (Sez. 4, n. 35115/2007; Sez. IV, n. 12894/2006), essendo piuttosto necessario un giudizio di probabilità logica (Sez. 4, n. 39594/2007) operato in concreto, tenendo conto di tutte le circostanze che connotano il caso (Sez. 4, n. 3003/2007)
L'individuazione del nesso causale effettuata dalla Corte territoriale sarebbe frutto di una valutazione non conforme alla legge.
Un primo dato si rinverrebbe nel verbale di ispezione e prescrizione redatto ai sensi dell'art. 19 D. L. 758/94, dall'Autorità Ispettiva (AUSL Roma E, Dipartimento per la Prevenzione. Servizio per la prevenzione e la Sicurezza nei luoghi di lavoro) e trasmesso alla Procura della Repubblica ai fini dell'esercizio dell'azione penale. Orbene le prescrizioni riportate nel documento, che si riportano nelle note difensive, sono assolutamente generiche e non corrispondono a quanto dedotto dalla Corte territoriale al fine di ricostruire il nesso causale tra la condotta omessa e l'evento.
Gli ispettori dell'AUSL non indicano, infatti, quali dispositivi di sicurezza dovranno essere adottati e si concentrano invece sull'efficienza del freno paracadute, dispositivo di cui si è accertato il cedimento. Quanto prescritto dall'Autorità Ispet tiva, dunque, non farebbe che confermare che l'individuazione della condotta cautelativa omessa così come ricostruita dai giudici di merito sarebbe frutto di una valutazione postuma effettuata sulla scorta della dinamica dell'incidente (in altre parole: dato che la cabina e precipitata, si va a cercare uno strumento idoneo a reggere e si costruisce una regola specifica cautelare da attribuire al soggetto titolare di posizione di garanzia).
Nella stessa direzione condurrebbe il parere dell'ARPA Lazio, il quale attesta che il G.P. aveva accuratamente predisposto il sistema di sicurezza del freno paracadute, ovvero un sistema di sicurezza idoneo ad evitare la caduta della cabina, non dipendendo da lui l'inefficienza del freno paracadute, che avrebbe potuto determinare la caduta della cabina in qualunque momento, in maniera assoluta mente imprevedibile ed indipendentemente dall'intervento effettuato dalla Tecno Service 3000.
Il difensore dell'imputato insiste sul fatto che, in assenza di un accertamento peritale, non vi è alcun elemento da cui possa assumersi in capo al G.P. l'esistenza di un obbligo di porre in essere ulteriori cautele e ciò a prescindere dal documento di valutazione del rischio previsto dall'art. 28 D.lgs 81/2008.
Richiamata la giurisprudenza di questa Corte di legittimità in materia di posizione di garanzia rispetto ai possibili infortuni del lavoratore il difensore del P. insiste per l'accoglimento del ricorso ed il conseguente annullamento della sentenza impugnata oppure, in via subordinata, chiede che a tale annullamento si pervenga a seguito dell'estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
Diritto
1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
2. Il ricorrente non si confronta criticamente in termini adeguati con le sentenze impugnate, non tenendo nel dovuto conto che siamo di fronte ad una doppia conforme affermazione di responsabilità, e che, quando, come nel caso che ci occupa, le censure formulate contro la decisione di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, il giudice di secondo grado, nell'effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l'univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte Sez. 2 n. 34891 del 16/5/2013, Vecchia, Rv. 256096; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep.2012, Valerio, Rv. 252615: Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Albergarne ed altri, Rv. 197250).
Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo in vece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressa mente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià ed altri, Rv.254107).
La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d'appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l''ossatura" dello schema difensivo dell'imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell'iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26/9/2002, dep. il 2003, Delvai, Rv. 223061).
3. Nei proposti motivi non si comprende per quale ragione non dovrebbero avere valenza di piena prova le dichiarazioni testimoniali, non essendo peraltro emerso nel corso del giudizio alcun elemento che ne abbia posto in dubbio l'attendibilità.
C'era un primo dato di fatto acclarato, che il ricorrente pare trascurare, su cui si era soffermato il giudice di primo grado, ovvero quello che è emerso dalle dichiarazioni della persona offesa, che non sono state smentite dall'imputato con argomentazioni concludenti, che in occasione di altri interventi analoghi c'era stata l'adozione dell'ulteriore sistema di sicurezza costituito dall'ancoraggio dell'ascensore alle relative guide mediante l'apposito paranco di sicurezza (cfr. pag. 3 della sentenza di primo grado). E che quel giorno ciò non fu fatto perché tale strumento non era disponibile e si cominciò l'intervento, nonostante le perplessità del C.A., per l'insistenza del G.P., che si posizionò lui stesso ad operare sulla cabina ascensore, mentre l'apprendista in una prima fase si limitava a passargli gli attrezzi rimanendo sul pianerottolo. Fu in un secondo momento, quando il G.P. chiese a C.A. di aiutarlo perché non ce la faceva a compiere da solo l'operazione cui era intento, e il lavoratore salì anche lui sul tetto della cabina, che la stessa precipitò per l'inadeguato funzionamento del freno.
Va evidenziato che per il dettato della normativa prevenzionistica e per la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità la circostanza che il datore di lavoro operi anche in prima persona e sottoponga anche se stesso al rischio derivante dall'omessa predisposizione di misure prevenzionali, non muta i suoi doveri nei confronti della sicurezza dei lavoratori da lui dipendenti.
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente si limita a ripercorrere, in senso critico, la motivazione della Corte territoriale sul punto della dedotta erronea applicazione della legge, ed in specie della erronea individuazione del nesso di causalità ex art. 40 cod. pen. tra la mancata condotta addebitata al ricorrente e il verificarsi dell'evento, e a criticare genericamente le risultanze dell'istruttoria espletata, che a suo dire avrebbe avuto bisogno del conforto di un accertamento tecnico peritale, al fine di stabilire con certezza quale comportamento lecito avrebbe dovuto essere nel concreto adottato. Tali censure, reiterate in questa sede di legittimità, non colgono nel segno, in quanto la Corte capitolina le ha analiticamente prese in considerazione per disattenderle compiutamente.
Accertate nei fatti le circostanze del reato contestato, gli apporti dei testi esperti e le relazioni acquisite avevano permesso di stabilire, con certezza, che nella lavorazione effettuata dal G.P. nel giorno del sinistro (sostituzione della guarnizione del pistone, previo smontaggio della puleggia e rimontaggio a fine lavoro) è necessario azionare un incatenamento dell'ascensore alle guide mediante un paranco, essendo insufficiente il solo freno paracadute - posto in essere dal ricorrente - ad evitare il rischio caduta, a maggior ragione nella specie, dovendo, la cabina sopportare il peso di ben due persone.
Come ricordava già il giudice di primo grado, sul luogo dei fatti, subito dopo l'incidente, interveniva l'ing. Pe., del Servizio di Prevenzione e Sicurezza Luoghi di Lavoro della USL Roma E, che ha confermato in dibattimento che alla ditta dell'odierno ricorrente venne contestata, tra l'altro, la norma dell'art. 71 co. 4 lett. a) del D.lvo 81/08 per il mancato rispetto sul luogo di lavoro delle norme relative all'utilizzo degli impianti e alle modalità di manutenzione degli ascensori. E la valutazione circa la necessità di un ulteriore sistema di sicurezza, indicato nel paranco atto ad assicurare la stabilità dell'ascensore in caso di cedimento del freno paracadute (la cui efficienza, peraltro, non era stata preventivamente valutata dal G.P.) è stata confermata e trasfusa nella propria relazione anche dall'ing. Laura P. dell'ARPA.
Davvero non colgono dunque nel segno le critiche del ricorrente, secondo cui, pur in presenza di soggetti estranei ai fatti, per mestiere deputati ai controlli ed esperti di sicurezza sul lavoro, ci sarebbe stato bisogno di una perizia per stabilire che il freno ascensore non potesse garantire in toto la sicurezza degli addetti alla manutenzione.
Né la circostanza che il freno ascensore non abbia funzionato elide la responsabilità per non averne controllato l'efficienza e, soprattutto, per non avere adoperato, come avvenuto in tutte le altre occasioni, il paranco, solo perché quel giorno non disponibile.
Esente da critiche nella sua logicità è ad avviso del Collegio anche la conclusione cui perviene la Corte territoriale che ritiene, con valutazione non sindacabile nella presente sede in quanto sorretta da argomentazioni logiche e esaustive, che se tale cautela fosse stata posta in essere con ogni probabilità l'evento non si sarebbe verificato.
4. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Ed invero, non, può essere infatti posto in dubbio, come fa il ricorrente, che nella specie fosse doveroso il porre in essere ulteriori cautele per evitare il rischio di evento infausto a prescindere dal contenuto del documento di valutazione del rischio previsto dall'art. 28 D.Lgs 81/2008.
Come infatti ha messo correttamente in luce la Corte territoriale nei casi in cui, come nella specie, tale documento non preveda specificamente un rischio, è obbligo del datore di lavoro, in concreto, adottare le idonee misure di sicurezza relative ad un rischio non contemplato, così sopperendo all'omessa previsione anticipata. In altri termini, nel documento di valutazione del rischio depositato dalla difesa, non era affatto contemplato il rischio specifico connesso alla riparazione di ascensori in cui vi fosse la necessità di lavorare sul tetto della cabina come piano di lavoro e derivante dal pericolo di precipitazione della cabina, presidi che comunque il G.P., quale titolare della Tecnoservice 3.000 s.r.l. e datore di lavoro della parte offesa, aveva l'obbligo di porre in essere.
Le argomentazioni sul punto della Corte appaiono coerenti, esaustive e non manifestamente illogiche, per cui sono esenti dai denunciati vizi di legittimità.
Medesime considerazioni valgono per il terzo motivo, nel quale si insiste nel ritenere e la completezza del documento dei rischi redatto dal datore di lavoro, e la sua omessa o travisata considerazione, in quanto la Corte palesa di avere esaminato il documento in questione, in uno con le ulteriori evidenze probatorie, per ritenerlo non decisivo ai fini difensivi, con valutazioni persuasive.
5. Va rilevato, infine, che, ad oggi il reato per il quale si procede non è prescritto.
Ciò in quanto occorre tenere conto di 262 giorni di sospensione della prescrizione in ragione dei rinvii per la partecipazione del difensore alle astensioni di categoria alle udienze del 24/5/2016 e del 21/3/2017, nonché di 64 giorni di ulteriore sospensione trattandosi di procedimento pendente e rinviato, nel periodo tra il 12 maggio ed il 30 giugno, a data successiva con provvedimento del capo dell'ufficio secondo quanto stabilito dalla normativa emergenziale e in particolare dall'art. 83 del c.d. D.I. 18/2020 (c.d. Decreto Cura Italia).
Peraltro, in ogni caso, nemmeno potrebbe porsi in questa sede la questione di un'eventuale declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d'appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso. La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen (così Sez. Un. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. Un., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv. 231164, e Sez. Un. n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, rv. 256463).
6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 13 gennaio 2021