Cassazione Penale, Sez. 4, 01 giugno 2021, n. 21522 - Infortunio nell'isola di fusione durante il turno notturno. Individuazione della figura su cui gravano gli obblighi del datore di lavoro nelle società di capitali

2021

1. Con sentenza del 4 marzo 2019 la Corte di Appello di Milano ha parzialmente riformato, riducendo la pena per il capo a) dell'imputazione, la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio con cui A.B., in qualità di Presidente della G. B. s.r.l., F. B. e M.G.M., in qualità di componenti del Consiglio di amministrazione della medesima società, sono stati ritenuti responsabili del reato di lesioni personali colpose gravissime ai danni del lavoratore A.A. [capo a)], nonché dei reati di cui agli artt. 113 e 451 cod. pen. [capo b)]; 113cod. pen. e 16, 20 comma 1 d.lgs. 139/2006 [capo d)]; 113cod. pen., 279 comma 1 in relazione all'art. 269 comma 8 d.lgs. 152/2006 [capo e)]; confermando, altresì, la condanna della società G. B. a r.1., in persona del legale rappresentante, per l'illecito amministrativo di cui agli artt. 5, comma 1 lett. a) e 25 septies d.lgs. 231/2001.
2. Il fatto, non contestato nelle sue modalità di accadimento, può essere sinteticamente descritto come segue: in data 27 marzo 2014, durante il turno notturno, cui era addetto l'operaio A.A., mentre questi operava sulla postazione dell'isola di fusione F4, veniva colpito alle spalle dalla tazza di caricamento che trasferiva il metallo fuso dal forno alla conchigliatrice, rimanendo incastrato fra questa ed il forno. Il normale funzionamento dell'apparecchiatura, come descritto dalla stessa persona offesa, comportava che la tazza di caricamento dopo avere prelevato il metallo fuso dal forno si spostasse sino alla conchigliatrice, dove versava il metallo fuso nello stampo, indi tornava indietro verso il forno, fermandosi a metà corsa, per proseguire verso il forno solo quando il robot, di cui era dotato il macchinario, aveva prelevato il pezzo finito dallo stampo. Al contrario, nell'occasione, la tazza anziché arrestarsi aveva proseguito la corsa, colpendo alle spalle il lavoratore intento a caricare il forno di panetti di alluminio da fondere, così spingendolo verso il forno. Al lavoratore era stato dato incarico di operare in contemporaneità anche sull'isola di fusione Fl, posta a fianco della F4, per cui egli doveva occuparsi di caricare il forno e di scaricare i pezzi finiti da entrambi i macchinari.
3. Avverso la sentenza di secondo grado propongono ricorso, a mezzo del comune difensore, B. F., B. A. e M.G.M. , nonché, con separato atto la società G. B. s.r.l., assistita da altro legale.
4. Con il gravame proposto M.G.M. , B. A. e B. F. sono formulati due motivi di impugnazione.
5. Con la prima doglianza, inerente alla sola posizione di M.G.M., si fa valere la falsa applicazione dell'art. 2, comma 1, lett. b) d.lgs. 81/2008 ed il vizio di motivazione. Si sottolinea che, sebbene componente del Consiglio di amministrazione, la ricorrente svolgeva esclusivamente compiti di natura amministrativa e contabile, non esercitando in concreto funzioni datoriali, né avendo mai assunto alcuna responsabilità dell'organizzazione del lavoro e dell'unità produttiva. Sicché, in forza del principio di effettività, che impone di assegnare la posizione di garanzia solo a chi svolga in concreto le funzioni di datore di lavoro, nessuna responsabilità può esserle attribuita nella causazione dell'infortunio. Si osserva che la ricorrente, proprio in ragione del ruolo svolto, si era affidata a coloro che avevano specifiche competenze nell'individuazione delle misure da adottare per tutelare l'integrità fisica dei lavoratori, B. F. e B. A., i quali avevano messo in funzione il macchinario, senza peraltro che l'azienda produttrice del medesimo, da ritenersi corresponsabile, ne avesse interdetto l'utilizzo, in assenza del certificato di collaudo e dei prescritti dispositivi di sicurezza. D'altro canto, alcuno degli organi di controllo aveva mosso rilievi all'organizzazione aziendale, mentre in quasi cinquant'anni di attività non vi erano stati presso la fonderia infortuni degni di nota. Con la conseguenza che l'incolpazione nei confronti dell'imputata finisce per risolversi in un'ipotesi di responsabilità oggettiva, determinata esclusivamente dalla carica rivestita, senza che alla medesima possano essere mossi rimproveri specifici.
6. Con il secondo motivo, comune ai tre ricorrenti M.G.M., B. F. e B. A., ci si duole della violazione della legge penale in ordine alla ritenuta sussistenza del concorso fra il reato di cui all'art. 451 cod. pen. [capo b) dell'imputazione] e le contravvenzioni di cui alla legislazione antinfortunistica. Essendo, tuttavia, le violazioni di cui al capo b), ed in particolare quelle di cui agli artt. 46, comma 2 e 290 d.lgs. 81/2008, le medesime contestate ai capi J) ed L) di cui alla memoria depositata dal Pubblico ministero all'udienza del 11 luglio 2016- allegata al ricorso- già definite in via amministrativa, il ritenuto concorso formale va ritenuto insussistente. Si sostiene, invero, che l'unitarietà del fatto sia sotto il profilo della condotta contestata, che sotto il profilo dell'offesa alla norma giuridica protetta comporta che l'applicazione contestuale della fattispecie di cui all'art. 451 cod. pen. e di quelle di cui alla normativa speciale, contrasti con il divieto di bis in idem, essendo il disvalore dei fatti omogeneo. Si verte dunque nell'ipotesi di concorso apparente di norme. Ciò, nondimeno, il fatto che le suddette violazioni siano già state sanzionate sulla base della normativa speciale, implica quale conseguenza il proscioglimento degli imputati dal reato di cui all'art. 451 cod. pen.. Concludono per l'annullamento della sentenza impugnata.
7. La società G. B. a r.I. formula due motivi di ricorso.
8. Con il primo fa valere la falsa applicazione dell'art. 5 d.lgs. 231/2001 ed il vizio di motivazione, sotto il profilo della carenza, della manifesta illogicità e del travisamento della prova. Osserva che nell'interpretare il disposto dell'art. 5 d.lgs. 231/2001, laddove prevede la responsabilità dell'ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, la giurisprudenza ha ritenuto di dover riferire i concetti di interesse e vantaggio alla condotta e non all'evento. Con la conseguenza che la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche, per essere sanzionabile, deve essere il frutto di una scelta consapevole finalizzata al risparmio dei costi di impresa o alla riduzione delle spese ed alla massimizzazione del profitto. Sostiene che, nel caso di specie, unico soggetto responsabile della mancata adozione delle cautele prevenzionistiche è la società UTAS produttrice del macchinario utilizzato che, come emerge dall'A.T. P., svolto in sede civile, non ha provveduto alla certificazione dell'isola automatica di fusione commissionata dalla società G. B. s.r.l., né agli altri adempimenti tecnico-documentali previsti. Sottolinea che la società non è mai stata sanzionata per violazioni relative all'adozione di misure antinfortunistiche, nonostante i plurimi e regolari accessi degli organismi di controllo (VV.FF. Direzione territoriale del Lavoro ed ASL), circostanza questa che dimostra l'assenza del perseguimento dell'interesse o del vantaggio di cui all'art. 5 cit ..
9. Con il secondo motivo censura la violazione della legge processuale in relazione all'art. 125 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale omesso di motivare in ordine al motivo di appello inerente alla violazione dell'art. 12, comma 2 lett.re a) e b) d.lgs. 231/2001. Rileva che la sentenza di prime cure non ha ritenuto integrato il presupposto della riduzione della sanzione prevista dalla disposizione, di cui alla lett. a), sostenendo che, seppure la società aveva eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, nondimeno non aveva completamente risarcito il danno. Assume che una simile impostazione, che impone la sussistenza di entrambe le condizioni, benché condivisibile, non tiene in considerazione l'ultima parte della disposizione di cui alla lett. a), che parifica l'integrale risarcimento del danno o l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose, all'ipotesi in cui l'ente si sia 'comunque efficacemente adoperato in tal senso'. Circostanza questa evidente nel caso di specie, avendo la società G. B. s. r.I. corrisposto una somma a titolo risarcitorio, tanto che la parte civile ha revocato la sua costituzione, adoperandosi in tal senso a mezzo della richiesta di erogazione di un mutuo, finalizzato al risarcimento del danno. Contesta, altresì, la mancata applicazione della lett. b) dell'art. 12 d.lgs. 231/2001, sottolineando che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, il modello organizzativo, la cui predisposizione ed adozione condizionano la riduzione della sanzione, era stato depositato tempestivamente in giudizio, posto che all'udienza del 18 gennaio 2016, le parti si erano riservate il deposito di ulteriori documenti, senza che venisse emessa ordinanza di ammissione al rito, con rinvio del processo per eventuale discussione. Dunque, il deposito del rinnovato modello organizzativo, in data 16 marzo 2016, prima dell'udienza del 21 marzo 2016, per consentire al pubblico ministero di valutarlo, deve considerarsi tempestivo. Conclude per l'annullamento della sentenza impugnata.
10. Con requisitoria scritta, ai sensi dell'art. 23 d.l. 137/2020, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha concluso per il rigetto dei ricorsi.


Diritto


1. I ricorsi debbono essere rigettati, salva la declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati di cui ai capi d) ed e) dell'imputazione.
2. La doglianza proposta nell'interesse di M.G.M. è infondata.
Con il primo motivo si pretende di escludere l'imputata dal novero dei soggetti garanti dell'incolumità dei lavoratori, facendo riferimento alla definizione della figura del datore di lavoro, come delineata dall'art. 2, comma 1 lett. b) d.lgs. 81/2008. Si sostiene che la disposizione introduca il c.d. principio dell'effettività, in forza del quale può essere definito datore di lavoro solo colui che ha la responsabilità dell'organizzazione dell'impresa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Il che implica, di per sé, che il componente del Consiglio di amministrazione non può essere titolare della posizione di garanzia del datore di lavoro unicamente in forza della carica che ricopre, laddove sia privo di attribuzioni organizzative ed anzi svolga, all'interno dell'azienda, un ruolo meramente amministrativo e contabile.
La questione posta, che inerisce all'individuazione della figura su cui gravano gli obblighi del datore di lavoro nelle società di capitali, deve essere risolta, secondo gli insegnamenti di questa Corte di legittimità, tenendo in considerazione la complessità dell'organizzazione. Perché se, in linea teorica, rivestono la qualifica di datore di lavoro tutti i componenti del consiglio amministratore, che gestisce ed organizza l'attività di impresa (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 6280 del 11/12/2007, dep. 08/02/2008, Mantelli Rv. 238958), nondimeno, in concreto, nelle realtà più articolate ed in aziende di rilevanti dimensioni, l'individuazione della figura del datore di lavoro può non coincidere con la mera assunzione formale della carica di consigliere, laddove all'interno dell'organo deliberativo siano individuati soggetti cui vengono specificamente assegnati gli obblighi prevenzionistici (Nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia." (Sez. 4, Sentenza n. 8118 del 01/02/2017, Ottavi Rv. 269133; Sez. 3, Sentenza n. 12370 del 09/03/2005, Bincoletto, Rv. 231076).
3. Il tema è stato approfondito dalla sentenza delle Sezioni Unite Espehnahn-Thyssenkrupp (Sez. Unite n. 38343 del 24/04/2014 e prima ancora dalle sentenze di questa Sezione n. 49821 del 23/11/2012, Lovison, e, n. 37738 del 28/05/2013, Gandolla che ne anticipano i contenuti), cui si rimanda integralmente, ricordando solo che l'assunzione della veste di garante può derivare dalla formale investitura, dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche della figura dal trasferimento di poteri e funzioni da parte del soggetto che ne è titolare. Se, infatti "le figure dei garanti hanno una originaria sfera di responsabilità che non ha bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall'investitura o dal fatto, la delega, è invece qualcosa di diverso: essa, nei limiti in cui è consentita dalla legge, opera la traslazione dal delegante al delegato di poteri e responsabilità che sono proprie del delegante medesimo" (Sez. 4, n. 37738 del 28/05/2013, Gandolla, in motivazione).
4. Ciò che identifica il datore di lavoro è, dunque, la titolarità del potere decisionale sull'impresa e del potere di spesa, cui corrisponde l'obbligo prevenzionistico derivante dallo stesso esercizio dell'impresa.
E' proprio l'art. 2, comma 1, lett. b) del d.lgs. 81/2008 a stabilire il legame fra l'obbligo prevenzionistico ed il soggetto titolare della responsabilità decisionale, organizzativa e di spesa dell'impresa. Ed è la stessa disposizione che chiarisce come un simile rapporto derivi dal tipo di assetto organizzativo in cui il lavoratore presta la propria attività, modulando la figura di datore di lavoro non solo sulla titolarità dell'impresa e del rapporto di lavoro, ma sulla sua gestione attraverso l'esercizio dei poteri decisionali e di spesa.
5. Nell'ambito di complesse organizzazioni imprenditoriali, in forma societaria, ciò legittima la distinzione fra ambiti gestori diversi derivanti dalla modulazione delle attribuzioni fra componenti del consiglio di amministrazione. L'estesa articolazione dell'organizzazione giustifica la ripartizione delle attribuzioni, in quanto funzionale al raggiungimento degli scopi dell'impresa. La forma può essere analoga a quella della delega di funzioni, ma anche implicita nell'incarico attribuito, consistente nel conferimento ad uno o più membri dell'organo deliberante di poteri esclusivi propri di quest'ultimo, senza che a ciò corrisponda ad una separazione tra il potere decisionale dell'imprenditore, nella sua forma societaria, e la sua gestione parcellizzata, convalidata dall'effettività del potere decisionale e di spesa conferito. Il limite dell'esonero degli altri componenti del consiglio di amministrazione è delineato dall'obbligo della vigilanza, cui l'organo deliberativo non può in alcun caso sottrarsi, in quanto organo che conferisce un potere proprio (cfr. "In tema di sicurezza e di igiene del lavoro, nette società di capitale il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda, e quindi con i vertici dell'azienda stessa, ovvero nel presidente del consiglio di amministrazione, o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni. (Nell'occasione la Corte ha ulteriormente precisato che nell'eventualità di una ripartizione di funzioni nell'ambito del consiglio di amministrazione ex art. 2381 cod. civ. gli altri componenti rispondono anch'essi del fatto illecito allorché abbiano dolosamente omesso di vigilare o, una volta venuti a conoscenza di atti illeciti o dell'inidoneità del delegato, non siano intervenuti" Sez. 3, Sentenza n. 12370 del 09/03/2005, Bincoletto Rv. 231076, già citata).
6. Una simile segmentazione dell'esercizio del potere gestorio, al contrario, non appare compatibile con realtà di piccole e medie dimensioni, la cui scarsa complessità implica l'intrinseca connessione fra la conduzione societaria dell'impresa e la sua semplice organizzazione, che non giustifica un modello di governo che ne disarticoli i poteri ed i correlativi obblighi, in assenza di una funzionalità al raggiungimento dello scopo dell'attività economica. La frammentazione per ambiti dei poteri decisori e di spesa finirebbe, infatti, con il coincidere con l'esonero alcuni dei componenti del consiglio di amministrazione dagli obblighi prevenzionistici connessi con l'attività di impresa, senza che a ciò corrisponda alcuna effettiva esigenza organizzativa del potere decisionale.
7. E' muovendo da queste premesse che il giudice di primo grado -e più sinteticamente quello d'appello- affermano la responsabilità dell'imputata M.G.M.. Non, dunque, come ritenuto dalla ricorrente sulla base di una responsabilità oggettiva, inerente alla 'posizione' ricoperta , ma in forza della sua partecipazione all'organo deliberativo, titolare del potere decisionale ed organizzativo dell'impresa e del potere di spesa, che identificano, nel loro riflesso sul rapporto di lavoro, la figura del datore di lavoro, come delineata dal d.lgs. 81/2008.
8. Il secondo motivo di ricorso formulato dai ricorrenti M.G.M., B. F. e B. A. è parimenti infondato.
9. Ci si duole che i giudici del merito abbiano ritenuto la sussistenza di concorso formale fra il delitto di cui all'art. 451 cod. pen. e le contravvenzioni di cui al d.lgs. 81/2008, senza avvedersi della sussistenza del concorso apparente di norme. Osservano che le condotte contestate al capo b) dell'imputazione, relativo al reato di omissione colposa di cautele contro gli infortuni (art. 451 cod. pen.), sono sovrapponibili a quelle contestate con i capi J) ed L), elencati riassuntivamente nella memoria del Pubblico ministero in data 11 luglio 2016 (allegata al ricorso), per le quali è intervenuta definizione in via amministrativa. In particolare, si riferiscono alle violazioni degli artt. 46, comma 2, d.lgs. 81/2008 di cui al capo J) e 290 d.lgs . 81/2008 di cui al capo L) della memoria prodotta, entrambe richiamate dalla contestazione di cui al capo b) della rubrica.
10. La censura denuncia, altresì, la violazione del principio del ne bis in idem, stante l'unitarietà del fatto, sia sotto il profilo della condotta, che sotto quella del bene giuridico tutelato, da cui l'impossibilità di giustificare l'applicazione della disciplina sul concorso formale di reati, dovendo, invece, ravvisarsi un'ipotesi di concorso apparente di norme. Nondimeno, la previa definizione amministrativa delle ipotesi contravvenzionali previste da norme speciali esimerebbe dall'individuazione della norma da applicare in via esclusiva.
11. Ora, al di là del corretto rilievo contenuto nella requisitoria scritta del Procuratore generale, inerente al difetto di autosufficienza del ricorso, cui è allegata la memoria del Pubblico ministero, che pur enumerando i reati originariamente contestati -ivi compresi quelli di cui ai capi J) ed L)-, non ne riporta la descrizione, ed anche volendo ritenere che fra le contravvenzioni estinte ai sensi del d.lgs. 758/1994, vi siano quelle relative alle violazioni descritte al capo b) dell'imputazione, relativa al reato di cui all'art. 451 cod. pen., non può condividersi l'assunto dei ricorrenti.
12. Secondo il pur risalente insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte "In caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità (art. 15 cod. pen.) richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (cfr. Sez. U. n 1235 del 28/10/2010, dep. 19/01/2011, Giordano ed altri, Rv. 248864). Il principio è declinato per il caso di concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, da altra pronuncia del Supremo Collegio, secondo cui "deve trovare applicazione esclusivamente la disposizione che risulti speciale rispetto all'altra all'esito del confronto tra le rispettive fattispecie astratte" (Sez. U, Sentenza n. 1963 del 28/10/2010 Cc. dep. 21/01/2011, Di Lorenzo, Rv. 248722).
13. E' stato, tuttavia, sottolineato, più recentemente, anche da questa Sezione (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 29920 del 17/01/2019, con richiami a Sez. 5, Sentenza n. 34455 del 05/03/2018, Di Falco) che l'individuazione della norma speciale "risulta piuttosto agevole con riferimento ai casi di specialità c.d. unilaterale (caratterizzati dalla circostanza che tutti gli elementi della fattispecie c.d. generale siano ricompresi in quella c.d. speciale che ne prevede di ulteriori). Laddove tra le norme risulti individuabile tale rapporto, si versa in una ipotesi di "concorso apparente", per cui, ai sensi dell'art. 15 cod. pen., trova applicazione unicamente la fattispecie speciale. Tuttavia, perché tale norma possa trovare applicazione è necessario che i reati abbiano la stessa obiettività giuridica, nel senso che deve trattarsi di reati che devono disciplinare la medesima materia ed avere identità di struttura. In altri termini, «il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall'art. 15 cod. pen., risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato» (Sez. u, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, in motivazione). Nel caso di specialità c.d. bilaterale o reciproca (in cui entrambe le norme presentano l'una elementi di specialità rispetto all'altra), invece, il problema è di meno agevole soluzione. Giurisprudenza e dottrina hanno, quindi, individuato una serie di "indici rivelatori": i diversi corpi normativi in cui le norme sono ricomprese (per es., cod. civ. e legge fall.); specialità tra soggetti (per es., 616 e 619 cod, pen.); la fattispecie dotata del maggior numero di elementi specializzanti. Ad ogni modo, nei casi di specialità reciproca spesso è lo stesso legislatore ad individuare la norma prevalente; ciò con una clausola di riserva che può essere: determinata (al di fuori delle ipotesi previste dall'art... ); relativamente determinata (si individua una categoria: per es., se il fatto non costituisce un più grave reato); indeterminata (quando il rinvio è del tipo se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge)." Alla luce dei principi quivi esposti, «la Corte regolatrice, nella sua massima espressione, ha rilevato che l'identità di materia si ha sempre nel caso dì specialità unilaterale per specificazione, perché l'ipotesi speciale è ricompresa in quella generale; e, parimenti, nel caso di specialità reciproca per specificazione, come nel rapporto tra gli artt. 581 (percosse) e 572 (maltrattamenti in famiglia) cod. pen., ovvero dì specialità unilaterale per aggiunta, per es. tra le fattispecie di cui agli artt. 605 (sequestro di persona) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) cod. pen. L'identità di materia è, invece, da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all'altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo, come nel rapporto tra violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso, rapporto di parentela o affinità nel secondo (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722)» (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, in motivazione)". (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 29920 del 17/01/2019).
14. Nel ricapitolare lo stato della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale sul tema ne bis in idem possono ancora richiamarsi le parole di questa Sezione: "Secondo l'orientamento espresso dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (si veda in particolare la sentenza Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014), il principio del ne bis in idem impone una valutazione ancorata ai fatti e non alla qualificazione giuridica degli stessi, dal momento che quest'ultima è da ritenersi troppo restrittiva in vista della tutela dei diritti della persona. Si è affermato, quindi, che la nozione di "condotta" si traduce nell'insieme delle circostanze fattuali concrete, collocate nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata ai fini della condanna. Negli stessi termini si era già espressa la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, che, intervenendo per risolvere un articolato conflitto manifestatosi tra le sezioni della Corte EDU sulla portata dell'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, aveva affermato che la medesimezza del fatto si apprezza alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio". Siffatti principi sono stati ribaditi dalla fondamentale sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, con la quale la Grande Camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia del divieto "convenzionale" di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto. La Grande Camera ha ritenuto che debba essere esclusa la violazione del diritto sancito dall'art. 4 Prot. n. 7 CEDU allorché tra i due procedimenti - amministrativo e penale, che sanzionano il medesimo fatto - sussista un legame materiale e temporale sufficientemente stretto; legame che deve essere ravvisato, in particolare: a) quando le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta; b) quando la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l'interessato; c) quando esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti; d) quando il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena, non risulti eccessivamente afflittivo per l'interessato, in rapporto alla gravità dell'illecito. Al contempo, come già affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 43 del 2018 - si dovrà valutare, ai fini della verifica della possibile lesione dell'art 4 Prot. n. 7 CEDU, "se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto". A conclusioni sostanzialmente coincidenti è pervenuta la Grande sezione della Corte di giustizia, nelle tre sentenze coeve del 20 marzo 2018 (rispettivamente in causa C-537/16, Garlsson Reai Estate SA e altri, in cause C- 596/16 e C-597/16, Di Puma e CONSOB, e in causa C-524/15, Menci). A parere del supremo giudice dell'Unione, infatti, la violazione del ne bis in idem sancito dall'art. 50 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) non si verifica alle seguenti condizioni: a) allorché le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, sempre che b) il sistema normativo garantisca una coordinazione tra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l'interessato, e c) assicuri comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione.
15. Si tratta di principi nuovamente ribaditi dalla più recente sentenza della Corte costituzionale n. 222/2019, a proposito del rapporto tra procedimento penale e procedimento amministrativo, il cui esito sia l'applicazione di una sanzione avente comunque natura penale. La questione sottoposta allo scrutinio della Corte riguardava la legittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. - quest'ultimo in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU -, nella parte ìn cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti di un imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell'ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della CEDU e dei relativi Pro t ocolli. Nel dichiarare l'inammissibilità della questione, la Corte costituzionale ha richiamato la più recente giurisprudenza europea (tanto della Corte EDU quanto della Corte di giustizia dell'U.E.), secondo la quale la mera sottoposizione di un imputato a un processo penale per il medesimo fatto per il quale egli sia già stato definitivamente sanzionato in via amministrativa non integra, sempre e necessariamente, una violazione del ne bis in idem.
16. Questa lunga premessa è indispensabile per affrontare il tema posto dai ricorrenti, che, pur facendo riferimento alla prospettiva superata dal 'bene giuridico tutelato' nondimeno, sottopongono il problema della medesimezza del fatto e del divieto del bis in idem .
17. Ora, è corretto affermare, come intende il ricorrente, che le due contravvenzioni, per le quali è intervenuta definizione amministrativa ai sensi dell'art. 20 d.lgs. 758/1994, integrano le omissioni descritte dal capo b) dell'imputazione, con il quale si contesta il reato di cui all'art. 451 cod. pen.. Si tratta dell'omessa collocazione della segnaletica finalizzata alla prevenzione incendi, dell'illuminazione di emergenza, dell'impianto dì rilevazione del gas metano, come previsto nel progetto approvato dai Vigili del Fuoco, della difficoltosa accessibilità delle valvole di intercettazione del gas, della difficoltosa accessibilità dei percorsi antincendio, dovuta al deposito alla rinfusa di vario materiale, del non corretto funzionamento dell'attacco di mandata dell'autopompa, della carenza di personale addetto alla prevenzione incendi (art. 46, comma 2 d.lgs. 81/2008); nonché dell'omessa valutazione dei rischi specifici derivanti da atmosfere esplosive, dell'omesso aggiornamento del piano di emergenza, evacuazione e rischio incendio e degli omessi controlli dei presidi antincendio (art. 209 d.lgs 81/2008).
18. E va, altresì, osservato che alle omissioni non è seguito un evento 'naturalistico', da esse derivante, posto che l'infortunio occorso non è causalmente connesso con le violazioni, essendosi prodotto per tutt'altra causa [su siffatta ipotesi cfr. "Il giudicato formatosi riguardo ad una contravvenzione in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, costituente elemento di colpa specifica di un delitto colposo ad evento naturalistico, oggetto di un successivo procedimento, non preclude la procedibilità per tale delitto, trattandosi di reati concorrenti, non costituiti dal medesimo fatto storico. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso che l'intervenuta emissione di un decreto penale di condanna, non opposto, relativo alla violazione della disciplina antinfortunistica, determinasse effetti preclusivi rispetto al delitto di lesioni colpose). Sez. F, Sentenza n. 34782 del 04/08/2016, Rapone, Rv. 267597)].
19. Nondimeno, ancorché il delitto e le contravvenzioni contestate scaturiscano dalla medesima condotta, non può ritenersi sussistente la medesimezza del fatto. Invero, come sopra precisato la medesimezza del fatto ricorre quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona» (sentenza n. 129 del 2008).
20. Ebbene, mentre le contravvenzioni in parola costituiscono reati di mera condotta, il fatto considerato dall'art. 451, invece, comprende anche l'evento, nella sua declinazione di pericolo di disastro od infortunio, che lo distingue dalla mere omissioni, dalle quali il pericolo deriva.
21. Il ricorso della società G. B. a r.l. è infondato.
22. Il primo motivo di ricorso affronta la questione della sussistenza dei presupposti di applicabilità dell'art. 5 d.lgs. 231/2001, sostenendo che la sentenza impugnata omette di considerare che l'interesse o il vantaggio di cui alla disposizione debbono essere riferiti alla condotta e non all'evento e che, pertanto, per essere sanzionabile la mancata adozione di cautele antinfortunistiche, deve essere frutto di una scelta consapevole finalizzata al risparmio di costi o alla riduzione delle spese.
23. Occorre ricordare che questa Sezione ha precisato il contenuto del richiamo normativo ai concetti di interesse e vantaggio, chiarendo che si tratta di concetti "giuridicamente diversi, che possono essere alternativamente presenti, sì (da giustificare comunque la responsabilità dell'ente, come reso palese dall'uso della congiunzione "o" da parte del legislatore nell'art. 5 d.lgs. 231/2001, e come è desumibile, da un punto di vista sistematico, dall'art. 12, comma 1, lett. a), dello stesso decreto legislativo, laddove si prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l'autore ha commesso il reato "nell'interesse proprio o di terzi" e "l'ente non ne ha ricavato un vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo", il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell'interesse dell'ente, senza procurargli in concreto alcun vantaggio (sez. 4, n. 2544 del 17/12/2015, dep. 21/1/2016, Gastoldi ed altri). Con l'ulteriore precisazione che il concetto di interesse attiene ad una valutazione ex ante rispetto alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di vantaggio implica l'effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato, e, dunque, si basa su una valutazione ex post.
24. Si è poi precisato, dopo aver affermato il carattere alternativo delle due ipotesi, che il requisito dell'interesse dell'ente ricorre quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un'utilità alla persona giuridica; ciò accade, per esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l'esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d'impresa; pur non volendo- dunque- (quale opzione dolosa)- il verificarsi dell'infortunio in danno del lavoratore, l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell'ente (ad esempio, far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre, invece, il requisito del vantaggio per l'ente quando la persona fisica, agendo per conto dell'ente, anche in questo caso, ovviamente, non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionali e, dunque, ha realizzato una politica d'impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto.". (Sez. 4, n. 31210 del 19/05/2016, dep. 20/07/2016).
25. E' stato ulteriormente chiarito che "In tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del D.Lgs. n. 231 del 2001 all'interesse o al vantaggio, devono essere riferiti alla condotta e non all'evento. (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 - dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 26111501) e ciò, perché, non rispondono all'interesse dell'ente, o non procurano allo stesso un vantaggio, la morte o le lesioni riportate da un suo dipendente in conseguenza di violazioni di norme antinfortunistiche.
26. Sono premesse che la sentenza di prime cure ha tenuto ben presenti e sulla base delle quali ha valutato la sussistenza dell'interesse alla massimizzazione del profitto perseguito dalla politica assunta dalla società in materia di prevenzione, avendo l'imprenditore consapevolmente scelto di utilizzare l'apparecchiatura nel ciclo produttivo, prima dell'intervento del collaudo definitivo, imprescindibile requisito di sicurezza, al fine di far fronte 'ai crescenti ordinativi', non altrimenti soddisfacibili.
27. Ma la decisione individua correttamente anche il vantaggio conseguito dall'azienda costituito dal risparmio dei costi degli interventi necessarii, tra cui la formazione ed informazione dei dipendenti. A ciò, può ulteriormente aggiungersi che il 'risparmio' si consegue anche riducendo i tempi di lavorazione e non solo gli investimenti per l'acquisto di strumenti cautelativi o per lo svolgimento di corsi di formazione dei dipendenti. La sottovalutazione sistematica dei rischi -come precisato dalla giurisprudenza di legittimità- va considerata chiaro sintomo di scelte imprenditoriali volte ad ottenere risparmi sui costi a dispetto degli obblighi di sicurezza gravanti sull'imprenditore a tutela della salute dei lavoratori.
28. In entrambi i casi la valutazione, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, è stata compiuta ex ante, con esplicito riferimento alla condotta tenuta da coloro che agivano per la società.
29. La sentenza di secondo grado riproduce i medesimi concetti, ponendosi, pertanto, in linea con i principi enunciati da questa Corte, sicché non mostra i vizi che le vengono addebitati.
30. Con il secondo motivo di gravame si denuncia la violazione del disposto degli artt. 6 e 12 d.lgs. 231/2001, per non avere la Corte territoriale, fornito alcuna motivazione sul diniego dell'attenuante di cui all'art. 12 cit..
31. Contrariamente a quanto affermato dalla società ricorrente, la sentenza gravata, seppure con estrema sintesi, risponde alla sollecitazione contenuta nell'atto di appello e conferma l'interpretazione della disposizione fatta propria dal giudice di prima cura, sottolineando altresì l'assenza di specificità del modello organizzativo prodotto.
32. Facendo, dunque, riferimento alla motivazione del primo giudice, che meglio articola il ragionamento, deve prendersi innanzitutto atto che con il primo profilo della doglianza in esame non si contesta che per l'applicazione della diminuente di cui l'art. 12, comma 2, lett. a) d.lgs. 231/2008 debbano essere integrate -entro la dichiarazione di apertura del dibattimento- entrambe le condizioni previste. Ovverosia, l'integrale risarcimento del danno e l'eliminazione delle conseguenze dannose.
33. Ciò che, in primo luogo, si sottolinea, al fine di dimostrare l'integrazione dei presupposti applicativi della disposizione, è che la previsione della lett. a) parifica all'integrale risarcimento del danno ed all'elisione delle conseguenze dannose, l'essersi l'ente efficacemente adoperato in tal senso. Si sostiene che in quest'ultima condotta debba essere inquadrata la corresponsione della somma di euro 80.000,00 in favore della parte civile, che, infatti, ha revocato la propria costituzione.
34. Ebbene, per dare risposta alla questione posta deve farsi ricorso, da un lato, alla ratio della disposizione, dall'altro, alla sua lettera.
35. Deve osservarsi, innanzitutto, che il legislatore lega l'attenuante all'elisione delle conseguenze del reato. Ciò, naturalmente comprende il risarcimento del danno, ma anche l'eliminazione delle sue cause, cioè quelle conseguenze dannose o pericolose del reato, in quanto da esso derivate. Mentre, con riferimento al primo requisito, relativo all'onere risarcitorio in senso stretto, la disposizione non richiede alcun approfondimento, in relazione al secondo, inerente alle conseguenze va precisato che essa contiene una previsione di carattere generale, che riguarda cioè tutti i reati di cui alla Sezione III del decreto legislativo, fra cui sono compresi quelli di cui all'art. 25 septies (che qui interessano), ma anche quelli in cui la eliminazione delle conseguenze del reato non dipende esclusivamente dal suo autore. Si pensi, a mero titolo di esempio, ai reati richiamati dall'art. 25, relativi alla falsità di monete, valori in bollo, la cui eventuale immissione in circolazione può non consentire l'integrale eliminazione delle conseguenze del reato.
Ora, è proprio in relazione a dette ipotesi che il legislatore parifica l'essersi adoperato a elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato alla loro eliminazione.
E', peraltro, la stessa lettera della disposizione che chiarisce come la locuzione 'efficacemente adoperato' sia riferita solo alla seconda delle condizioni previste, ovverosia l'eliminazione delle conseguenze del reato, e non alla prima relativa all'integrale risarcimento del danno. E ciò, perché adoperarsi per l'integrale risarcimento, significa quantomeno risarcire parzialmente. Ma posto che il risarcire il danno, significa sempre ristorare integralmente le conseguenze dannose di un sinistro, l'utilizzo della locuzione 'risarcimento integrale' di cui alla prima parte, contrapposta all'adoperarsi in tal senso della seconda parte della disposizione, rende esplicita la volontà legislativa che se esige l'integrale risarcimento del danno, sempre possibile, nondimeno, ammette, in ordine alle conseguenze dannose o pericolose, non sempre integralmente eliminabili, che l'ente si sia efficacemente adoperato ad eliderle.
36. Dunque il ragionamento dei giudici del merito -ed in particolare di quello di primo grado- correttamente escludono che, nel caso di specie, a fronte di una risarcimento pacificamente non integrale, entrambe le condizioni di cui alla lettera a) si siano verificate.
37. Con riferimento alla condizione di cui alla lettera b) del secondo comma dell'art. 12 d.lgs. 231/2001, va premesso che essa non è alternativa a quella di cui alla lettera a), dovendo essere entrambe integrate, al fine del riconoscimento dell'attenuante. Il che dispensa dall'esaminare la censura.
38. Deve, nondimeno, pronunciarsi l'estinzione per prescrizione delle contravvenzioni di cui ai capi d) ed e), essendo decorso il termine di cui agli artt. 157 e 161 cod. pen., rispettivamente dalle date del 27 marzo 2014 e 11 aprile 2014, sicché tenuto conto dei periodi di sospensione, pari a giorni 113, i suddetti reati risultano prescritti al 18 luglio 2019 ed al 2 agosto 2019. Ciò, nondimeno, solo limitatamente alla posizione di M.G.M., che con l'atto di appello ha contestato la sua penale responsabilità in ordine a tutti i reati ascritti. Ed invero, "La declaratoria di estinzione del reato per prescrizione non può essere pronunciata anche nei confronti del coimputato non impugnante in forza dell'effetto estensivo dell'impugnazione previsto dall'art. 587, comma 1, cod. proc. pen., se il giudicato di colpevolezza nei suoi confronti si è formato prima del verificarsi della predetta causa estintiva. (In motivazione la S.C. ha chiarito che l'opzione del coimputato impugnante di protrarre il procedimento configura una scelta processuale "esclusivamente personale" che rende perciò inoperante l'art. 587, comma 1, cod. proc. pen. con riguardo alla prescrizione)". (Sez. Unite, Sentenza n. 3391 del 26/10/2017, Rv. 271539).
39. La sentenza deve, dunque, essere annullata senza rinvio nei confronti di M.G.M., limitatamente alle contravvenzioni di cui ai capi d) ed e) dell'imputazione, rigettando nel resto il suo ricorso. Debbono invece essere integralmente rigettati i ricorsi di B. A., B. F. e della società G. B. s.r.l., con condanna dei medesimi ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M.G.M. in ordine ai reati di cui capi d) ed e) perché estinti per prescrizione. Rigetta nel resto il ricorso della M.G.M.. Rigetta i ricorsi B. A., B. F. e G. B. s.r. l. e li condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 2/03/2021


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