Cassazione Penale, Sez. 3, 25 novembre 2020, n. 33033 - Gestione dei rifiuti

2020

1. Con sentenza emessa in data 25 settembre 2018, il Tribunale di Genova ha dichiarato la penale responsabilità di F.S. per il reato di cui all'art. 29 - quattordecies, comma 3, lett. b), d.lgs. n. 152/2006, commesso a far data dal 27 settembre 2016 e gli ha irrogato la pena di ottomila euro di ammenda.

Secondo il Tribunale, l'imputato, quale presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante della società "S. Erasmo Zinkal s.p.a.", esercente attività di fonderia di seconda fusione di metalli non ferrosi per l'ottenimento di nuovi prodotti e sottoprodotti, avrebbe violato due prescrizioni dell'autorizzazione integrata ambientale rilasciata alla precisata impresa. Precisamente, le violazioni consisterebbero nell'aver effettuato: a) in una zona di stoccaggio, denominata "sottostrada", il deposito indistinto di sottoprodotti e di diverse tipologie di rifiuti non identificabili mediante idonea etichettatura e segnaletica; b) in altra zona di stoccaggio, interna al capannone G, il deposito in numerosi cassonetti metallici contenenti rottami e materiali metallici, rendendone impossibile la distinzione e la classificazione come sottoprodotti o rifiuti speciali derivanti dal ciclo produttivo, a causa dell'omessa identificazione dei cassonetti con apposita etichettatura e dell'assenza di idonea segnaletica identificativa delle diverse aree di stoccaggio.

2. Ha presentato appello, riqualificato ricorso per cassazione, avverso la sentenza del Tribunale indicata in epigrafe F.S. con atto a firma dell'avvocato G.S., quale difensore di fiducia dell'imputato, articolando tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia l'insussistenza del reato, stante la carenza ed assenza di motivazione.
Con riguardo alla prima violazione, relativa alla zona di stoccaggio "sottostrada", si deduce che, come si evince dalla stessa notizia di reato, erano presenti sulle pareti dell'area interessata i cartelli riportati le tipologie di rifiuti che vi potevano essere stoccati, e che il materiale non etichettato lo sarebbe stato al termine del turno di lavoro. Si aggiunge che non è stata effettuata alcuna verifica per accertare se il materiale ivi depositato non fosse classificabile secondo le indicazioni dei cartelloni affissi al muro.
Con riguardo alla seconda violazione, relativa alla zona di stoccaggio interna al capannone G, si deduce che, proprio in forza dell'atto dirigenziale integrativo della autorizzazione integrata ambientale e che si assume violato, il rifiuto soggetto a cernita perde lo status di rifiuto; di conseguenza, per effetto di tale provvedimento, non può contestarsi la mancata etichettatura di quanto non costituisce r;fiuto. Si rileva, inoltre, che erano comunque presenti sulle pareti due cartelli indicanti i codici relativi allo zinco ed ai materiali non ferrosi.
In linea generale, poi, si deduce che non vi è violazione dell'art. 29- quattuordecies d.lgs. n. 152 del 2006, perché questa disposizione sanziona il comportamento impeditivo del controllo della movimentazione dei rifiuti (si cita
Sez. 3, n. 24680 del 04/11/2014), e, però, tale situazione non è rinvenibile nella specie. Si osserva, a tal proposito, che: -) l'attività aziendale si svolge mediante l'approvvigionamento periodico, anche giornaliero, di materie prime; -) i materiali in ingresso sono immediatamente catalogati sulla base di una procedura informatizzata, la quale consente di individuare lotto del fornitore, caratteristiche del rifiuto e ubicazione dello stesso all'interno della struttura aziendale; -) l'attività di controllo e classificazione del materiale in ingresso, sia esso materia prima, sottoprodotto o rifiuto, integra una procedura complessa, non espletabile in breve tempo, ma comunque tale da assicurare la veloce tracciabilità del medesimo materiale; -) lo scarico dei camion richiede ore, avviene con un flusso continuo nell'arco delle giornate lavorative, riguarda notevolissime quantità di materiale, e si svolge in un'area circoscritta, con conseguente possibilità di situazioni di temporaneo disordine, fino alle ore 17,00 o 18,00 di ciascuna giornata, ora in cui è comunque completata la procedura di identificazione del materiale (si cita la deposizione del teste F.S., figlio dell'imputato e direttore generale dell'impresa).
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia l'erronea individuazione del soggetto cui riferire la violazione.
Si deduce che la sentenza impugnata ha illegittimamente attribuito la responsabilità all'organo di vertice della società, senza considerare i principi giuridici applicabili in tema di organizzazioni complesse, codificati anche dalla giurisprudenza di legittimità. Si rappresenta che l'imputato aveva delegato ad altri il compito di assicurare il rispetto delle prescrizioni dell'autorizzazione integrata ambientale, e che ciò è confermato dalle risultanze istruttorie: il funzionario preposto alle indagini ha riferito che la persona presente ai sopralluoghi era R.S., e quest'ultimo ha dichiarato di essere direttore generale e titolare delle funzioni relative alla gestione ambientale e della sicurezza dell'azienda, svolte in coordinato rapporto con un ingegnere. Si aggiunge che, in precedenza, l'odierno imputato era stato assolto da analoghe imputazioni per non aver commesso il fatto, essendo altri il delegato dell'azienda per la gestione delle operazioni di stoccaggio e per i rapporti con l'Agenzia Regionale per la Protezione dell'Ambiente (si cita la sentenza n. 2704 dei 2015 del Tribunale di Genova).
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia la mancata applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, l'eccessività della pena e il diniego della sospensione condizionale.
Si deduce, innanzitutto, che la sentenza impugnata ha erroneamente affermato l'abitualità del comportamento illecito dell'imputato valorizzando due decreti penali e sentenze di assoluzione. Si osserva che il decreto penale emesso il 25 settembre 2009 riguarda il reato di cui all'art. 16, comma 2, d.lgs. n. 59 del 2005, abrogato dall'art. 4, comma 1, d.lgs. 29 giugno 2010, n. 128, che il decreto penale emesso il 27 ottobre 2010 ha irrogato un'ammenda modesta, pari a 2.500
euro, e che entrambi i precedenti sono estremamente risalenti, come tali inidonei a fondare un giudizio di attualità di abitualità. Si segnala, inoltre, che le violazioni sono state eliminate, come da verbale di verifica dell'adempimento alla prescrizione del 10 gennaio 2017.
Si contesta, poi, il diniego della sospensione condizionale, posto che erroneamente si afferma che l'imputato era pregiudicato per violazioni della medesima indole.



Diritto




1. Il ricorso è nel complesso infondato per le ragioni di seguito precisato.


2. Complessivamente infondate sono le censure formulate nel primo motivo, e che contestano l'affermazione della sussistenza del fatto, deducendo che le condotte riscontrate non integrano una violazione dell'art. 29 - quattordecies, comma 3, lett. b), d.lgs. n. 152/2006.
2.1. La giurisprudenza di legittimità ha già precisato che, in tema di gestione dei rifiuti, risponde del reato previsto dall'art. 29-quattuordecies d.lgs. n. 152 del 2006, il titolare dell'autorizzazione integrata ambientale che viola le prescrizioni imposte dal provvedimento, anche quando queste si riferiscono ad obblighi di segnalazione nelle zone di stoccaggio, non potendo in alcun caso l'inosservanza di esse ritenersi circoscritta nell'ambito delle mere irregolarità amministrative, in quanto la valutazione della offensività della condotta è stata già preventivamente effettuata dal legislatore (cfr. Sez. 3, n. 4346 del 17/12/2013, dep. 2014, Roda, Rv. 259247-01).
In particolare, si è ritenuta corretta l'affermazione della sussistenza del reato per l'inadeguatezza della etichettatura limitata alla sola zona di stoccaggio e non apposta anche ai «singoli serbatoi e ciò in quanto detta etichettatura è funzionale alla corretta informazione sulla natura e tipologia del rifiuto a tutti i soggetti che entravano a contatto con i rifiuti, anche se estranei al reparto: altri dipendenti, gli stessi controllori o, addirittura, soggetti estranei» (così ancora Sez. 3, n. 4346 del 2014, cit., in motivazione).
Il principio indicato è, ad avviso del Collegio, condivisibile.
Ed infatti, il legislatore, all'interno del medesimo art. 29-quattuordecies d.lgs. n. 152 del 2006, nel descrivere le condotte attribuibili a colui che è titolare dell'autorizzazione integrata ambientale, distingue tra l'inosservanza, in generale, di una qualsiasi delle prescrizioni del provvedimento autorizzativo, relativamente alla quale si applica la sola sanzione amministrativa, e le violazioni "qualificate' tra cui quelle concernenti la «gestione dei rifiuti», penalmente rilevanti. Inoltre, non sembra dubitabile che l'apposizione di etichettatura sui contenitori o di segnaletica nelle aree destinate al deposito dei rifiuti, proprio in quanto funzionale ad una corretta informazione sulla natura e tipologia degli stessi per tutti coloro che con i medesimi vengono in contatto, attenga alla «gestione dei rifiuti».
Né questa conclusione si pone in contrasto con il precedente giurisprudenziale citato nel ricorso, e richiamato per affermare che l'art. 29-quattuordecies d.lgs. n. 152 del 2006 sanziona il comportamento impeditivo del controllo della movimentazione dei rifiuti. Invero, il precedente citato, Sez. 3, n. 24680 del 04/11/2014, dep. 2015, Brusamolino, Rv. 263880-01, non indica «il controllo della movimentazione del rifiuto» come fondamento della sanzione penale prevista dall'art. 29-quattuordecies d.lgs., bensì come ragione giustificativa della qualificazione della specifica violazione in quella occasione riscontrata - concernente l'istituzione, la tenuta e l'aggiornamento del registro di distribuzione della pollina - come condotta attinente alla fase della gestione del rifiuto. Del resto, in linea generale, è agevole rilevare che l'art. 29-quattuordecies, comma 3, d.lgs. cit , nell'individuare le condotte assoggettate a sanzione penale, non delimita la sua applicazione alle condotte che ostacolano il controllo della movimentazione del rifiuto, ma fa invece riferimento, in generale, alle violazioni concernenti la «gestione dei rifiuti», senza ulteriori specificazioni.
2.2. La sentenza impugnata ha affermato la sussistenza del reato per cui si procede, sulla base degli accertamenti effettuati dall'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente in Liguria (ARPAL).
Si premette che la società "S. Erasmo Zinkal s.r.l "di cui il ricorrente è legale rappresentante è impresa produttrice e venditrice di lingotti e manufatti di metallo non ferroso in leghe "zama", e, al momento del fatto, era titolare di autorizzazione integrata ambientale rilasciata per sei anni nel 2013. Si rappresenta, poi, che l'autorizzazione integrata ambientale, tra le prescrizioni, prevedeva: a) sin dall'origine, al punto 51 sub 2.3.B, la distinzione delle aree utilizzate per lo stoccaggio dei rifiuti da recuperare da quelle utilizzate per le materie prime non rifiuto; b) per effetto di integrazione disposta con provvedimento del 23 maggio 2016, al punto 1.1.3., l'identificazione dei rottami rifiuti ricevuti e raccolti in big bags mediante iscrizione su di essi del codice del rifiuto e la segnalazione con cartellonistica riportante ia natura del rifiuto e il codice CER sui siti e sui contenitori. Si segnala, quindi, che, nel corso del sopralluogo effettuato dall'ARPAL in data 27 settembre 2016, il funzionario procedente, come dal medesimo dichiarato a dibattimento, aveva riscontrato: a) nella zona di stoccaggio "sottostrada", la presenza sì di cartelli indicanti, in linea generale, i tipi di rifiuti che potevano essere depositati in quell'area, ma anche il deposito di sottoprodotti e rifiuti di diverso tipo tra loro non distinti da idonei segni di riconoscimento; b) nella zona di stoccaggio ubicata nel capannone G, la presenza di due soli cartelli sulle pareti indicanti i codici CER per lo zinco e i materiali ferrosi, ma l'assenza di altre segnalazioni utili a distinguere le diverse aree di stoccaggio in cui erano impilati in colonne «innumerevoli cassonetti e big bags contenenti materiali e rottami metallici non classificabili quali sottoprodotti o rifiuti speciali».
Il Tribunale, infine, osserva che la situazione, in considerazione della documentazione fotografica concernente le colonne con materiali stoccati in modo non classificabile, risulta non temporanea, e, comunque, se anche fosse tale, ciò non escluderebbe l'illecito.
2.3. L'affermazione di responsabilità dell'imputato per il reato addebitatogli nell'imputazione risulta correttamente motivata.
Invero, la sentenza impugnata d atto che l'etichettatura sui contenitori dei rifiuti e la segnaletica nelle aree destinate al deposito dei rifiuti era assente o gravemente lacunosa, e, quindi, ricostruisce una condotta sussumibile nella fattispecie di reato prevista dall'art. 29-quattuordecies d.lgs. n. 152 del 2006.
Le critiche concernenti il mancato accertamento sulla effettiva natura del materiale, o sulla sufficienza delle indicazioni riportate sui cartelloni rinvenuti, si risolvono in una richiesta di nuova valutazione del fatto o in doglianze meramente assertive. Le critiche dirette a far rilevare la mera temporaneità della situazione di disordine dei rifiuti, perché destinata a non protrarsi oltre il termine dell'orario di lavoro, invece, sono infondate: detta situazione, pur quando i materiali in ingresso in azienda siano immediatamente catalogati nel sistema informatizzato, è comunque tale da impedire, per un apprezzabile lasso di tempo, una corretta informazione sulla natura e tipologia dei rifiuti per tutti coloro che vengono in contatto con gli stessi.

3. Infondate, poi, sono le censure formulate nel secondo motivo, e che contestano la riferibilità del fatto all'odierno ricorrente, sul presupposto dei principi applicabili in tema di organizzazioni complesse.
3.1. Effettivamente, in giurisprudenza si è precisato che, anche in tema di reati ambientali, non è più richiesto, per la validità e l'efficacia della delega di funzioni, che il trasferimento delle stesse sia reso necessario dalle dimensioni dell'impresa o, quanto meno, dalle esigenze organizzative della medesima, attesa l'esigenza di evitare asimmetrie con la disciplina in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la quale, a seguito della entrata in vigore dell'art. 16 d.lgs. n. 81 del 2008, non contempla più tra i requisiti richiesti per una delega valida ed efficace quello delle «necessità» (cfr. Sez. 3, n. 27862 del 21/05/2015, Molino, Rv. 264197-01).
Tuttavia, proprio a norma dell'art. 16 d.lgs. n. 81 del 2008, occorre, tra l'altro, che la delega di funzioni risulti da atto scritto avente data certa; inoltre, la giurisprudenza, pure ritenendo in genere derogabile il requisito della forma scritta, richiede comunque che l'atto traslativo riguardi anche i compiti connessi alla posizione di garanzia del titolare e sia connotato dai requisiti della chiarezza e della certezza (cfr., ad esempio, Sez. 3, n. 3107 del 02/10/2013, dep. 2014, Caruso, Rv. 259091-01).
3.2. La sentenza impugnata ha affermato l'attribuibilità della condotta illecita all'imputato all'esito di un esame delle circostanze di fatto acquisite agli atti.
In particolare, il Tribunale rappresenta che, nel corso delle attività di accertamento dell'ARPAL, è stato sempre l'imputato, e non il figlio di questi o altri, a rapportarsi con il funzionario incaricato della verifica. Aggiunge, poi, che l'organigramma dell'impresa prodotto nel giudizio è aggiornato a maggio 2017, e quindi è successivo ai fatti in contestazione, e collega comunque la responsabilità per l'osservanza delle prescrizioni dettate dall'autorizzazione integrata ambientale al titolare della posizione, sebbene in coordinato rapporto con un consulente esterno.
3.3. Alla luce di quanto precedentemente indicato, le conclusioni del Tribunale risultano incensurabili.
Ed infatti, la sentenza impugnata ha evidenziato in modo puntuale circostanze indicative, quanto meno, dell'assenza di una delega di funzioni, anche non scritta, rilasciata dall'imputato a terzi e connotata dai requisiti della chiarezza e della certezza.
4. Infondate, ancora, sono le censure esposte nel terzo motivo, e che criticano la mancata applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, l'eccessività della pena, e la ancata concessione della sospensione condizionale.
4.1. Per quanto riguarda la mancata applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, la sentenza impugnata è immune da vizi.
Il Tribunale, in effetti, osserva che l'imputato è «soggetto professionale non nuovo alle contestazioni». E, in particolare, come si riconosce anche nel ricorso, l'imputato è gravato di due precedenti specifici. Né rileva che il decreto penale emesso il 25 settembre 2009 riguardi il reato di cui all'art. 16, comma 2, d.lgs. n. 59 del 2005, abrogato dall'art. 4, comma 1, d.lgs. 29 giugno 2010, n. 128. Invero, la disposizione di cui all'art, 16, comma 2, d.lgs. n. 59 del 2005 sanzionava penalmente proprio la condotta di «colui che pur essendo in possesso dell'autorizzazione integrata ambientale non ne osserva le prescrizioni o quelle imposte dall'autorità competente».
4.2. Relativamente alla determinazione della pena, la decisione è correttamente motivata.
È sufficiente rilevare, in proposito, che la sentenza ha fissato la pena base in diecimila euro di ammenda, ossia in misura nettamente più prossima al minimo edittale, pari a cinquemila euro, che al massimo edittale, pari a ventiseimila euro, ed ha richiamato, a fondamento delle sue determinazioni, i criteri di cui all'art. 133 cod. pen.
4.3. Anche il diniego della sospensione condizionale è giustificato in modo incensurabile.
Il Tribunale, infatti, evidenzia che l'imputato è pregiudicato per violazioni della medesima indole, le quali ostano ad una prognosi favorevole di non recidivanza.

5. Alla complessiva infondatezza delle censure segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.



P.Q.M.




Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 18/09/2020


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